È buffissimo leggiucchiare qua e là sui social le reazioni di certo personale universitario di fronte al recente Requiem per gli studenti di Agamben, in particolare laddove l’inerzia con cui l’università sta accettando la propria dematerializzazione viene paragonata a quella con cui a suo tempo assecondò l’ascesa del fascismo. Citiamo il passo incriminato:
«I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista.»
«Per Giorgio Agamben siamo tutti fascisti»: ecco ciò che ha capito del passo un professore associato dell’Aquila. Ed è sufficiente una piccola ricerca per mettere insieme un non piccolo campionario di consimili reazioni da parte di vari dottorandi, ricercatori e docenti, sparse tra post, commenti e controcommenti e festeggiate dal solito corteo di pollicioni, faccine, condivisioni e già che ci siamo anche insulti ad Agamben (precisiamo subito che durante questa nostra ricognizione abbiamo trovato anche docenti che discutevano le parole di Agamben in modo sensato e senza fraintenderle: che è il minimo che ci si dovrebbe aspettare dall’università – o no?); reazioni che tradiscono una scandalosa incapacità di comprendere un testo semplicissimo, e una altrettanto scandalosa assenza di prospettiva storica. Ma quella di travisare Agamben sembra essere diventata una delle distrazioni favorite nei giorni della quarantena…
L’articolazione logica del passo non è precisamente di quelle esoteriche: il fascismo, sostiene Agamben, sta all’università del ’31 come la telematizzazione sfrenata sta all’università odierna, in quanto sia fascismo che telematizzazione snaturano e soffocano l’insegnamento universitario; e in ambedue i casi Agamben osserva da parte dell’università un’accettazione piuttosto passiva di tale soffocamento. Come da ciò si possa inferire che secondo Agamben l’università attuale è fascista, resta per noi un mistero, questo sì esoterico. Eppure così è andata. Pescando ancora dal nostro fiero manipolo, ecco un professore associato di Milano che in una notarella pubblicata su facebook, dopo aver accusato Agamben di fare «schizzatine d’occhio» <sic> ai cospirazionisti sostiene che nel Requiem per gli studenti il docente universitario si ritrova ad essere «trattato come un novello Quisling». Da parte sua un associato di Torino ha voluto ufficializzare tutto questo insensato sdegno scrivendo non un semplice post ma un intero articolo nel quale lamenta di aver ricevuto da Agamben «la peggiore e più infamante offesa pubblica che possa essere rivolta a qualcuno».
Ora, diciamo che a irritare i lettori dell’intervento sia stato il semplice veder tirare in ballo il fascismo, in base all’equazione “sostenitore del fascismo = brutto e cattivo”. Ma, rivolgendosi a un pubblico universitario e paragonando l’università del ventennio fascista con quella contemporanea, è evidente che Agamben vuole (ovvero, a questo punto, spera) che tale paragone venga colto nel contesto storico cui si riferisce.
Fino almeno alla metà degli anni ’30, la maggioranza degli italiani era entusiasta del fascismo. E non parliamo di italiani qualunque. Lasciamo pure D’Annunzio dove sta: fascisti sono stati Ungaretti e Pirandello, che compaiono anche tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti. Fino al ’34 è stato fascista Gadda. E potremmo continuare (ma poi ci direbbero che stiamo offendendo e infamando i grandi scrittori italici). Il punto è che Agamben vuole semplicemente mettere in guardia l’università: così come in passato ha preso un abbaglio col fascismo, stia attenta a non essere troppo arrendevole con questa che più che una rivoluzione rischia di essere, secondo lui, uno stravolgimento. Gli universitari che nel ’31 hanno giurato fedeltà al fascismo non erano criminali di guerra, collaborazionisti votati al male, sadici torturatori o non so che altre figure possano saltarci in mente. La Storia non è Schindler’s list: è più complicata e sfuggente. Quelle persone erano accademici non troppo diversi da quelli di oggi, che nel ’31 non vedevano chissà che terribile minaccia nella politica di Mussolini. E, come ripetiamo, in questo erano in buona anzi ottima compagnia (Ungaretti, Pirandello, Gadda). Che cosa intende dire dunque chi si inalbera contro Agamben per quel passo? Vuol forse farci credere che nel ’31 sarebbe stato tra i pochissimi accademici oppositori della dittatura, tra i pochissimi anzi a capire di essere sotto una dittatura? O magari ritiene che l’intera università di oggi, se venisse catapultata nel ’31, si opporrebbe compatta- e ardita- mente al tiranno? O forse si figura l’università del ventennio come una specie di Morte Nera in cui sotto il rettorato di Darth Vader le lezioni erano tenute da squadristi e scherani a suon di manganellate laser, e che pertanto un simile mostro sia inassimilabile alle università contemporanee? Se queste persone, che di fatto compongono la classe degli intellettuali del nostro paese, non sono in grado di capire correttamente un testo chiaro e semplice come quello di Agamben, cosa capiranno mai di altri testi ben più ostici, per non parlare della realtà? (Né entriamo nel merito delle questioni sollevate da quel testo, col quale si può naturalmente essere in disaccordo: ma per prima cosa bisogna almeno capire quel che dice.)
Anni fa ci è capitato di sentire Pier Vincenzo Mengaldo, il cui antifascismo è fuori di dubbio, riconoscere durante una conversazione che se lui fosse stato docente durante il ventennio avrebbe probabilmente finito per piegarsi alla dittatura. “Zona grigia”, disse, con una severità e una onestà che oggi ci paiono merce sempre più rara. Ci consola ricordare che c’è ancora chi è consapevole delle infinite complessità e crudeli sfaccettature della Storia. Ci spaventa constatare che oggi per molti accademici la Storia sembra al contrario consistere in poco più di un cartone animato in cui i buoni lottano contro i cattivi, e guai a confondere le squadre.
(PS: Nel caso assai remoto che uno di quegli accademici passasse di qua, gli chiediamo preventivamente scusa per qualsiasi cosa crederà di aver capito in quello che abbiamo scritto.)
Seconda e ultima minuzia. Tra chi giurò fedeltà al fascismo ci sono stati anche docenti tutt’altro che sereni mentre lo facevano: giurarono personalità come Chabod o Togliatti (che inoltre consigliò ai colleghi di giurare). Quindi di nuovo: perché mai qualcuno ha potuto vedere nel paragone un’accusa di fascismo? O si vuole credere che Agamben non sia consapevole della varietà e complessità di motivazioni che portarono a quel giuramento?
Soggiungiamo qui una minuzia su quella “schizzatina d’occhio”. Il sic con cui l’abbiamo evidenziata non era sanzionatorio: la strizzatina d’occhi, come leggiamo nel “Dizionario milanese-italiano” di Cletto Arrighi, è la “schisciadinna d’occ”: voce che lo stesso Arrighi traduce con “schizzatina”. Quasi ingestibile radice di pino marittimo, il dialetto talvolta preme contro la pavimentazione della lingua, crepandola e rendendola più aspretta: e, almeno a noi, più simpatica.