Tra le pagine più riuscite del già notevole libro di Lutz Seiler im felderlatein (nel latino dei campi, Berlino, Suhrkamp, 2010) ci sono le tre del poemetto die fussinauten (i calcionauti). Se è vero che la DDR ha annoverato durante i suoi quarant’anni d’esistenza una nient’affatto piccola schiera di poeti d’altissimo vaore, è anche vero che la riunificazione tedesca (data ufficiale: 3 ottobre 1990) ha portato con sé la necessità di ripensare certi temi, certi paesaggi, certi stilemi. E Lutz Seiler è protagonista di primissimo piano: nato nel 1963, ha conosciuto dall’interno il sistema politico, educativo, militare, letterario della Repubblica Democratica Tedesca, la sua infanzia, giovinezza e prima maturità (sino al novembre 1989, anno della caduta del Muro di Berlino) si sono svolte entro l’orizzonte tedesco-orientale e della guerra fredda, l’inizio della seconda maturità ha avuto, invece, come sfondo storico-sociale la Wende (la “svolta” come in Germania è chiamata la riunificazione) e il faticoso, ancora oggi problematico e non concluso processo di quella stessa riunificazione.
Lutz Seiler scrive così negli anni un libro che, focalizzando lo sguardo sul paesaggio, in prevalenza quello dei dintorni di Berlino (e vado presto a spiegare il perché) – la metafora dei felder, cioè dei campi coltivati, e del latein, della lingua tramite la quale i campi s’esprimono, possiede una valenza assai complessa – racconta la Wende con i mezzi propri della metafora poetica e della lingua stessa.
M’intrattengo ancora brevemente sul tema del paesaggio in questo libro seileriano e comincio quindi l’attraversamento del poemetto: Lutz Seiler nasce in un villaggio nei pressi di Gera in Turingia, Culmitzsch, che viene raso al suolo tra il 1964 e il 1970 per permettere lo sfruttamento delle miniere d’uranio nel sottosuolo del villaggio stesso (il poeta affronterà spesso il tema del paesaggio devastato ed espropriato alla gente da parte del potere); Lutz Seiler abita dal 1993 a Wilhelmshorst presso Potsdam, nella medesima casa al mitico indirizzo Hubertusweg 41 dove aveva vissuto per lunghi anni Peter Huchel, poeta d’altissimo valore e storico caporedattore dell’importantissima rivista Sinn und Form, costretto dal regime all’esilio nella Repubblica Federale a partire dal 1971 – Berlino e dintorni costituiscono dunque il paesaggio-pagina sul quale la storia ha scritto e che, come in controluce, il poeta legge e interpreta.
Il poemetto (alle pagine dalla 75 alla 79 dell’edizione Suhrkamp) s’apre con una citazione da Seferis:
»Brave
Leute waren sie die Gefährten, sie murrten nicht
über die Mühe noch über den Durst noch über die Kälte,
sie verhielten sich nach Art der Bäume und der Wogen
die den Wind hinnehmen und den Regen
hinnehmen die Nacht und die Sonne
und beständig bleiben im Wechsel.«
Giorgos Seferis, Die Argonauten
“Erano persone coraggiose i compagni, non brontolavano
per la fatica né per la sete né per il freddo,
si comportavano al modo degli alberi e delle nubi
che accolgono il vento e la pioggia
accolgono la notte e il sole
e rimangono saldi pur nel mutamento“
Si tratta, in realtà, di uno dei Leitmotive che attraversano tutta l’opera, vale a dire il frequente riferimento all’albero quale simbolo di forza e di coraggio, di vitalità e di resistenza nelle avversità (il latino dei campi è, anche, il linguaggio degli elementi naturali quando trasmettono agli esseri umani un tale messaggio di perseveranza e forza interiore); e, come gli Argonauti del mito, anche i moderni fussinauten (Fuß in tedesco significa piede e Fußball è il giuoco del calcio)di Lutz Seiler compiono un periplo nel mare della vita e della storia e il mito moderno, impossibilitato a continuare quello antico, avrà come protagonisti ragazzi (quasi) anonimi, figli di una metropoli moderna (Berlino), le cui argonautiche saranno il tentativo di conquistare il vello d’oro della maturità personale e generazionale e proprio nel periodo temporale tra gli ultimi anni della Repubblica Democratica Tedesca e i primi della Germania riunificata.
meinen fußball freunden gewidmet (dedicato ai miei amici del calcio)
manchmal sangen sie auch. das waren
die tiergartenjahre, wir
spielten vor dem reichstag auf. später, schon entfernt
traten wir im wedding an, barfuß-straße, schillerpark. fast
kahler acker, komplett türkisch, das gedröhn
im kopf, die boings, die sich senkten richtung tegel. so
talvolta cantavano anche. erano
gli anni del tiergarten, noi
giocavamo davanti al reichstag. più tardi, già più lontano
ci schierammo a wedding, in barfuß-strasse, allo schillerpark. quasi
brullo il campo, completamente turco, il baccano
nella testa, i boeings che s’abbassavano verso tegel. (allora)
Pur essendo la Berlino degli anni dopo la riunificazione l’immediato sfondo geografico e storico, proprio il fatto che il poemetto sia ambientato in diversi e particolarmente significativi luoghi di Berlino fa sì che la capitale tedesca vi sia presente con tutto il suo enorme portato culturale, storico e storiografico, etico, politico, sociale che trascende gli anni cui testé facevo riferimento. Il Tiergarten (lo zoo di Berlino e il quartiere circostante), il Reichstag (il Parlamento), il quartiere di Wedding, Barfußstraße che taglia in due lo Schillerpark (tra l’altro il vocabolo barfuß in tedesco significa “a piedi nudi”) e infine il non lontano aeroporto di Tegel sono tutti luoghi che si trovavano a cavallo del Muro e che, nell’immaginario dei Berlinesi, potevano assumere valenze e coloriture diverse a seconda della parte della città cui si apparteneva e da cui a quei luoghi si guardava; dopo la riunificazione essi hanno subito profondi cambiamenti, nel senso che queste zone di Berlino hanno fedelmente rispecchiato i mutamenti di cui la città è stata oggetto: il Reichstag, per esempio, e il terreno attorno, quest’ultimo pressoché abbandonato e brullo negli anni della DDR (la zona apparteneva a Berlino Est), divengono dopo la riunificazione il primo la nuova sede del Parlamento federale e il secondo il grande, curatissimo e sorvegliatissimo prato intorno all’edifico, tornando a essere, dopo la riunificazione, il centro nevralgico della vita politica nazionale, insieme con una ristrutturazione che ha portato, tra l’altro, al divieto di giocare nei prati attorno all’edificio, divieto promosso e ottenuto da alcuni parlamentari tedeschi – il Reichstag è l’edificio simbolo dell’unità nazionale raggiunta nel 1871, il luogo dal quale Philipp Scheidemann il 9 novembre 1918 proclamò la Repubblica (detta “di Weimar”), ma anche la vittima dell’incendio fatto appiccare da Hitler il 27 febbraio 1933, l’edificio sul quale i Sovietici innalzarono la bandiera rossa a simboleggiare la conquista della capitale del Reich, una sorta di fossile nei lunghi anni della divisione e, infine, appunto, di nuovo sede del Parlamento tedesco dopo la riunificazione del 3 ottobre 1990.
L’aeroporto di Tegel potrebbe a sua volta rappresentare l’Occidente, trovandosi a Berlino Ovest, ma anche richiamare, per affinità, l’altro grande aeroporto dei Berlino Ovest, Templehof, centro nevralgico del ponte aereo nei mesi del Blocco di Berlino.
wichen wir zurück. bis potsdam, dort
war alles schön: ein rasen, schattig, das bad
nach dem spiel im heiligen see. viele kaps
ließen
wir hinter uns. wir
schwammen an den beiden
villen günter jauchs vorbei. wir saßen
am ufer, ein tisch & die terrassen
vor der villa kellermann. die sonne
ging unter. der nachtgeruch kam, im nacken
die langsam trocknenden haare. wir waren von schlössern
& gärten umgeben.
dazu das weizen, der
spargel, die spielanalyse – alles in allem: das süße
leben. bis
(allora) ci ritirammo. fino a potsdam, lì
tutto era bello: un prato, ombreggiato, il bagno
dopo il giuoco nello heiligen see. molti capi
ci lasciammo alle spalle. passammo
a nuoto davanti alle
due ville
di günter jauch. sedevamo
sulla riva, un tavolo e le terrazze
davanti a villa kellermann. il sole
tramontava. giungeva l’odore della notte, sulla nuca
i capelli che asciugavano lentamente. eravamo circondati da castelli
e da giardini. e in più la weizen, gli
asparagi, l’analisi del giuoco – insomma: il dolce
vivere. (fino a che)
Potsdam: altro luogo stracarico di significati per la storia e la cultura; eletta come propria residenza estiva dai re di Prussia, indissolubilmente legata alla figura di Federico II, Potsdam fu sede dal 17 luglio al 2 agosto 1945 dell’omonima Conferenza che sancì la divisione di Berlino in 4 Settori; in questo passaggio del testo Lutz Seiler fa riferimento a Günter Jauch, conduttore televisivo notissimo in Germania, divenuto popolare proprio grazie a quella che si può definire una “storica” telecronaca di una partita di calcio, mentre Villa Kellermann è luogo legato ai fasti della Berlino dei ruggenti anni Venti, al buio del Nazionalsocialismo, alla lunga ibernazione che certi luoghi di Berlino sembrano aver subito nei decenni della divisione, per poi tornare al centro del dibattito postunitario in merito a una sua ristrutturazione e nuova destinazione d’uso. In realtà Lutz Seiler mi sembra qui muoversi in modo finissimo lungo il discrimine tra l’istinto vitale dei calcionauti, i cui corpi vivono e assorbono la dolcezza della vita declinata traverso il piacere del giuoco, il bagno nel lago, il lasciarsi asciugare il corpo dal sole al tramonto, il gustare la birra (il diventare adulti, insomma) e i fatti della storia o della cronaca (soprattutto quella rilanciata dalla stampa popolare), dal momento che i calcionauti, peregrinando, entrano e poi escono in e da luoghi berlinesi con una leggerezza e una grazia rare, accompagnati dal canto talvolta ironico, spesso commosso e complice del loro amico poeta: un Orfeo modernissimo, il quale non pretende, ovviamente, di animare i sassi con la forza del suo canto e di condurre la propria amata fuori dal regno dei morti, ma desidera rendere testimonianza di anni cruciali per la vita di un essere umano (l’uscita dalla giovinezza per entrare nella maturità) e la conquista del vello d’oro viene a essere, allora, la conquista di un luogo dove stare, l’ubi consistam di menti adulte, affrancate da una storia non sempre benigna.
etwas aus dem schatten trat der büsche: des
lebens fremd & unterste behörde. was uns auf immer
dieses orts verschlug, dieser letzten
wunderwiese, wielandstraße, früher hitlerring. noch
& tapfer hielten wir
in potsdam aus, entfernt der paradiese. ein hartplatz
öffentlich,
die öde
insel, öder strand, wo endlos eiternd feiner sand sich legte in
die
frischen wunden. so
altern beine, altern arme, donnerstag
für donnerstag. wir sahen
gute männer in die knie sinken. der ausbruch
kam: die hehre lichtung, waldplatz richtung michendorf. wir
reisten an – doch fanden keine menschen dort
(fino a che) qualcosa emerse dall’ombra dei cespugli: l’ente
estraneo alla vita e il più basso. che ci precluse per sempre
questo luogo, quest’ultimo
prato miracoloso, via wieland, un tempo hitlerring. ancora
e coraggiosi resistemmo
a potsdam, lontani dai paradisi. una dura piazza
pubblica, la vuota
isola, la vuota spiaggia dove infettando di continuo la sabbia fine si depositava nelle
ferite
fresche. così
invecchiano le gambe, invecchiano le braccia, un giovedì
dopo l’altro. vedemmo
bravi uomini cadere sulle ginocchia. giunse
la fuga: la nobile radura, waldplatz in direzione michendorf. lì
arrivammo – ma non vi trovammo nessuno
Ecco: il giuoco del calcio è il giuoco stesso della vita, anch’esso duro, privo dei trionfi ufficiali e richiamo l’attenzione sul passaggio “via wieland, un tempo hitlerring”, passaggio dove si crea un cortocircuito tra l’attualità e il passato nazionalsocialista (Wieland è esempio di scrittore dell’età “d’oro” della letteratura tedesca, quella della Classicità di Weimar, numi tutelari Goethe e Schiller, tutti campioni di una visione tollerante e cosmopolita della cultura), ma il Nazionalsocialismo è, in Germania, da una parte un tabù e un rimosso, dall’altra oggetto di riflessione attenta e dolorosa da parte degli intellettuali e artisti più avvertiti. I calcionauti si misurano con un giuoco duro, che non porta all’acclamazione delle folle, ma che trova il suo valore e il proprio senso nell’impegno dei giocatori, nella loro spartana dedizione e va rilevato che elemento decisivo di tutto il poemetto è ciò che Luz Seiler tace, per cui il lettore deve immaginare proprio traverso tale ellissi la vita dei calcionauti; ché, benché lo stesso Seiler abbia scritto, riferendosi alla sua infanzia e giovinezza nella DDR, che quasi tutto il suo orizzonte di bambino e di adolescente era occupato dal calcio, in realtà una tale affermazione va anch’essa intesa riflettendo intorno a quello che viene eliso, taciuto: se l’interesse quasi totale è per il gioco del calcio, ciò significa che la politica, per esempio, viene ignorata e proprio in un paese totalmente ideologizzato e che pretende che ogni atto individuale sia un atto politico in favore della collettività – ecco espressa, in tal modo, la condanna del totalitarismo, il quale ha tolto ai giovani la voglia d’impegno e di scelta politica; il vagare stesso dei calcionauti alla ricerca di un campetto sul quale giocare (e gl’incontri si svolgevano il giovedì) è momento importante di vite che, il lettore presume, sono fatte anche di lavoro e di famiglia, vite normalissime di eroi del quotidiano, sembra suggerirci Seiler, argonauti entro una geografia berlinese anch’essa antiretorica. Vite che incrociano continuamente la storia: l’ente estraneo alla vita / e il più basso che emerge dall’ombra di un cespuglio esplicitamente significa quelle istituzioni che ferocemente e disumanamente conculcano la libertà sorvegliando e spiando le persone e l’immagine vedemmo / bravi uomini cadere sulle ginocchia. giunse / la fuga potrebbe essere anche interpretata quale riferimento alle persone uccise nel tentativo di superare il Muro, la fuga essere quella di chi tentava di lasciare la Germania orientale e non è un caso che nel poemetto la fuga porti gli amici calciatori di nuovo nella zona a sud ovest di Potsdam, come se gli argonauti-fussinauten si trovassero sballottati dai flutti della storia continuamente tra Oriente e Occidente tra presente e passato e già dentro un impenetrabile, indecifrabile futuro.
Ma, prosegue il poeta:
entbehrten wir des gegners. die gefährten, dann, gesenkten
augs,
schon aller suche
müde dieses scheiterns, zogen nach berlin zurück. eine
straße
namens forckenbeck:
preußisches herrenhaus
der mann, doch englisch war
der
rasen, wie
letzte leidenschaft so voll & dicht & kurz, so schön & wenig
wirklich. Der platzwart, wieder preußisch, sprach:
»nix mit stollen, junge, zieh die töppen aus«. ich sah
den mann nie wieder. wir fragten oft, wir wissen nicht –
ist dieser platzwart schon verstorben oder seine stelle
ausgelöscht? der platz verkommt, das vlies
verblaßt – die fahrten, sind sie ohne ende? Doch
frag ich mich leiser, waren
nicht die seelen der gefährten längst, sind unsre körper nicht
schon lange eins mit jenem ernsten
antlitz dieses platzes? mit den narben, furchen, mit
dem dunklen, abgenutzten? die saison war groß, die spiele
gut,
wohin
jetzt ziehn – wie lange noch
ihr freunde, fliehn? lieber winfried, hendrik, peter, carsten
lieber michael, tobias, jan –
diesmal, bitte, laßt
uns bleiben: brüllen, traben, tore schrein
& pässe schlagen, laßt
uns noch eins zwei
gute bälle über diesen aller
letzten
acker tragen –
(1990-2005)
non avevamo avversari. i compagni, allora, gli occhi bassi,
stanchi ormai di tutta questa ricerca
di questo fallire, ritornarono a berlino. una
strada di nome forckenbeck:
di nobile casata prussiana l’uomo, ma il prato era
all’inglese, come
un’ultima passione così pieno e folto e corto, così bello e poco
reale. Il guardiano, pure prussiano, disse:
«non coi tacchetti, ragazzo, togliti i calzettoni». non rividi
mai più quell’uomo. chiedemmo spesso di lui, non lo sappiamo –
è già morto questo guardiano o gli hanno soppresso
il posto? il luogo va in rovina, il vello
impallidisce – i viaggi, sono i viaggi senza fine? ma
m’interrogo più piano, non erano
le anime dei compagni da gran tempo, non sono i nostri corpi
già da molto una cosa sola con il serio
volto di questo luogo? con le cicatrici, i solchi, con
il fondo scuro, consumato? la stagione sportiva è stata grande, le partite
buone, dove
andare adesso – per quanto tempo ancora,
amici, fuggire? caro winfried, hendrik, peter, carsten
caro michael, tobias, jan –
stavolta, per favore, lasciateci restare: urlare, folleggiare, urlare i goal
e passare palla, lasciateci
calciare ancora uno, due palloni buoni su quest’ultimo
di tutti i campi –
(1990 – 2005)
Commosso il ricordo, intenerente il dire i nomi dei compagni, Lutz Seiler conclude il poemetto con un’esortazione forse alla vita, ma anche a chi ha il potere di concedere l’uso di un’area per il gioco – la figura del guardiano (non a caso prussiano e tuttavia capace di lasciare un bel ricordo nei ragazzi) incarna il divieto e anche in questo caso il poeta ha raccontato che, durante un suo incontro con Gerhard Schröder, ha chiesto all’allora cancelliere d’intervenire contro il divieto di gioco sul prato attorno al Reichstag, promosso e voluto da alcuni deputati, senza ottenerne però la sospensione – Berlino, città che per anni ha vissuto uno stato d’eccezione, torna a una “normalità” in cui le ragioni del mercato e la negazione di ogni atto gratuito (la ludicità, per esempio) prevalgono, il vello d’oro impallidisce; poniamo a questo punto I Calcionauti in relazione con l’intero libro e ci rendiamo conto del fatto che il latino dei campi è scrittura della maturità di chi ha conosciuto non solo la realtà di una Germania divisa e inchiavardata nel cuore della “guerra fredda”, ma ha anche vissuto la speranza di un’era nuova che oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, la realtà tragicamente smentisce e contraddice.
Lutz Seiler ha saputo proporre una scrittura epica di assoluta modernità e originalità, impiegando un linguaggio non reboante né tantomeno retorico, ovviamente, anche contraddistinguendolo a livello tipografico tramite l’abolizione delle maiuscole dei sostantivi e la sostituzione della congiunzione und (e) con il segno & (scelta che Seiler ha in comune con moltissimi altri poeti tedeschi di questi decenni); non si tratta in ogni caso di una scrittura abbassata al livello del parlato quotidiano, bensì di una scrittura capace di architetture immaginifiche e sintattiche ampie e complesse, sostenute da un ritmo capace d’intessere una sorta di trasferimento in un tempo mitico, là dove il mito coincide con la felicità del vivere, dell’incontrarsi e del giocare del gruppo di amici-calcionauti, con gli scontri stessi e le ferite e le cicatrici della storia. Si osservi, infatti, che Seiler mette in atto un doppio slittamento della prospettiva: cita in esergo i versi di un autore greco sì, ma novecentesco il quale, dopo aver cantato i viaggi dei suoi Argonauti, conclude il componimento con i versi (non citati dal poeta tedesco) Non li ricorda più nessuno. È giusto – Seiler ricalca in alcuni snodi del suo poemetto dei passaggi del testo di Seferis e cita, con affetto e commozione come abbiamo notato, i nomi dei compagni, facendoli transitare non nel mito accanto a Giasone e agli altri, ma nel mito della quotidianità non banale, non volgare, eroica per la sua stessa normalità. Ed esiste, in un certo modo, affinità tra il Seferis figlio della tristissima diaspora dei Greci dall’Asia Minore e il Seiler che, insieme con gli amici argonauti-fussinauten, la storia ha prima imprigionato e poi espulso da uno Stato (la DDR) che si è dissolto nei pochi, rapidissimi mesi tra il 1989 e il 1990 – Seferis dovè attraversare il Mediterraneo orientale per raggiungere la madrepatria, i calcionauti hanno pellegrinato per via di terra traverso i quartieri e le strade di una Berlino che nel poemetto oscilla tra i tempi di prima e di dopo la caduta del Muro, tra luoghi che la poesia di Seiler nomina (perché sempre la poesia sa portare alla massima significanza possibile i nomi) e che sono lì, ancora raggiungibili, ancora visibili, ma anche leggibili con lo sguardo della storia e con quello di una poesia che vuole andare incontro al reale.
Molto bello e approfondito, questo saggio. Mi fa conoscere cose che non potrei, poiché non conosco il tedesco. E il fatto che il libro non sia tradotto in Italia è indicativo del fatto che, anche così, si possa fare un salto nel mondo. Anzi: meglio così.
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