Morricone e la Marionetta. Il flauto stridulo di Per un pugno di dollari, semiscala discendente che è l’esatta versione speculare dello zufolo con cui Papageno risponde al richiamo di Tamino nel Zauberflöte, e come quel flauto ogni segmento tematico che Morricone sbriciola lungo i “suoi” film, è come una lama invisibile il cui scatto libera immediatamente i personaggi di quelle lardosità che usiamo chiamare “psicologia”, restituendo loro la grazia terribile della marionetta. Il personaggio si fa così trasparente, il gesto si libra al disopra del pensiero, l’io torna a sprofondare nel nulla da cui proviene. Un sabotaggio dell’anima che ha le sue radici nel teatro di Rossini da un lato, nelle sinfonie di Mahler dall’altro, e che in Morricone è ormai ridotto a scricchiolio e trombetta di carnevale.
Le melodie di Morricone. La sequenza nel cimitero di C’era una volta in America, in cui la porta della cripta aziona degli altoparlanti. La melodia provoca nel protagonista (e nello spettatore) una commozione quasi laboratorialmente calcolata dall’eroe nero del film, smascherando il cuore delle melodie di Morricone: l’inganno teatrale – ancora una volta, un inganno la cui vittima è la psiche. Richiamata dal flauto come un cobra indiano, la psiche sbuca dal cesto di vimini, eseguendo una danza che le è in realtà profondamente estranea. “Dato che tu non sei nulla, io sarò al posto tuo”: questa la formula magica delle melodie di Morricone, il loro sciamanismo inverso.
La musica come distruttore di mondi. Usare Morricone nei propri film significa accettare quanto detto sopra: polverizzazione della psicologia, dell’io e di qualsiasi cosa uno chiami “personaggio”. La storia non può che diventare, sotto la pressione ingannevole, da scatolone vuoto, delle sue melodie, una pantomima di burattini. Spettro ubiquo e implacabile, la musica di Morricone stende il suo manto su racconto e personaggi, svelando il precario meccanismo di cordicelle e rotelline di legno che li tiene in piedi.
La musica come presenza. In Il Buono, il Brutto, il Cattivo, il coro di soldati che canta per coprire le urla di Tuco mentre viene massacrato di botte. La musica non accompagna il sacrificio: lo occulta. Questo il nervo centrale dell’arte di Morricone. Questa volta l’antenato illustre è Verdi, e su tutte l’aria La donna è mobile del Rigoletto, tra le più sublimi espressioni del tremendo musicale.
Impermeabilità del cinema statunitense alla musica di Morricone. In tale cinema, storia e musica restano separate dai comparti stagni di una ferrea gerarchia, poiché niente deve sabotare la storia o l’eroe: mai. Esempio limite, la colonna sonora di Hateful Eight: uno dei temi più riusciti di Morricone, quasi un frammento di canto gregoriano da un universo parallelo, viene lasciato libero di diffondere la sua forza radioattiva nei soli titoli di testa, culminanti in un Cristo di legno, dopo il quale il film muore prima ancora di cominciare, incastrato nel desiderio spasmodico di restare in piedi, avvelenato dallo spettro dell’altro film, quello che la musica di Morricone aveva evocato e che non vedremo mai. Incapaci (né è per forza un male) di rassegnarsi alla miseria che si annida dietro ogni esistenza, gli statunitensi non potevano piegarsi allo stridore intrinseco che la musica di Morricone provoca nello spettatore e nell’opera, alla sua qualità squisitamente discenditiva (in senso manganelliano). E nello stesso tempo (come da manuale) la musica di Morricone ha saputo installarsi nel cuore stesso dell’epos del West, grattando via la vernice che ne ricopriva la cartapesta.
R.I.P.