Alla sua quinta raccolta di poesie in dieci anni, di Giorgio Mobili (che insegna italiano e spagnolo alla California State University di Fresno) non si può dire che stia ancora cercando una voce. Anzi, grazie a quest’ultimo Dimenticare un hotel è possibile ritornare alle sue precedenti raccolte e capire che la voce c’era già tutta fin dall’inizio, fin da Penelope su Sunset Boulevard (Manni 2010). Solo che non era ancora abbastanza spezzata. Invece di creare una fluidità, un discorso costante, una serie di rimandi che punterebbero a una dimensione epica, anche se un’epica sommessa (altre epiche non sembrano alla nostra portata), in questi dieci anni Mobili ha lavorato su un’accumulazione di catastrofi verbali. La sua poesia è uno specchio del mondo, ma ottenuto mettendo insieme i frammenti aguzzi di molti, moltissimi specchietti andati in frantumi.
Da questi specula infranti, Mobili ha ricavato un collage dove ci possiamo contemplare solo spezzandoci anche noi. Dimenticare un hotel non si può leggere come un puro flusso di parole. Il verso, la frase, ci sono ancora, ma attenzione all’inganno. Ogni pagina promette uno specchio intero, ma l’atto stesso del mettersi a leggerla fa scattare il grilletto alla pistola che lo distrugge, come nel finale della Signora di Shanghai. Dimenticare un hotel è un esperimento quantico; leggerlo in modo lineare significa alterare la disposizione spazio-temporale dei singoli testi, significa in altre parole non leggerlo affatto.
Mobili non ha intenzione di perpetuare l’avanguardia degli anni Sessanta o anche quella molto più flebile degli anni Novanta. Non c’è nessun desiderio da parte sua di signoreggiare sul linguaggio, di apparire un virtuoso del significante senza significato. In realtà – e l’avevo già notato recensendo la sua raccolta precedente, Miracoli ed effetti (Pequod 2016) – Mobili non ha mai abbandonato la lezione ironica del Montale di Satura. La sua sintassi è lineare. Ma le ellissi immaginali sono cinematografiche. Dimenticare un hotel è un montaggio di frammenti dal quale tutte le “suture”, per usare un termine un tempo caro alla teoria del cinema (le inquadrature che ci fanno capire da quale punto di vista stiamo guardando, o quale punto di vista dobbiamo adottare), sono state tutte espunte. Ciò che rimane è puro Dziga Vertov, puro Walter Ruttmann, immagini di città di qualcuno che sta rivedendo la sua vita, ma non nell’ordine in cui si è svolta, e nemmeno perché pensa che sia giunta la sua ultima ora. No, ha solo aperto l’occhio poetico su una nuova facoltà di percezione.
Ad esempio in Il segreto, per poter entrare in ciò che stiamo leggendo (il capire verrà dopo, al momento non è questo il problema), dovremmo magari ricopiare a parte, come in una strana lista della spesa, i nomi che appaiono nel testo. Come in un esperimento di ciò che le anime pedagogiche chiamano “scrittura creativa”, si dovrebbe assegnare la lista come esercizio e apporre in calce la consegna: scrivete una poesia usando solo questi sostantivi: uragano tegole argomenti signore trovieri vetri carta sottocoperta mondo miraggio brivido anni saldo strade Milano digiuno piazza figlio mani nessuno. Passerò a ritirare il test fra mezz’ora, e non copiate.
Il peso atomico di questo vocabolario in una poesia di soli quindici versi, nonostante la sua ordinarietà, mette a rischio la tavola degli elementi. È una nuova chimica quella con cui abbiamo a che fare. Ma ammetto di non avere rischiato molto, decostruendo e ricostruendo Il segreto, perché comunque riserva una soddisfazione finale. Il figlio misterioso che non mostra le mani a nessuno è un’immagine non spezzata. Forse quel figlio l’abbiamo conosciuto, forse è il nostro ritratto. Ma, se vuole, Mobili riesce ad andare molto più in là sulla via della disfigurazione. Anche quando si attesta sulla soglia di un racconto, ad esempio in Le stanze invisibili – dove sembra davvero che ci stia raccontando una storia d’amore e di hotel – il rumore secco dello specchio che s’infrange non ci lascia mai, nemmeno quando “Viene il mattino – e insieme l’oscuro piacere / di allacciarsi il corsetto / di insistere sul conto, fare il letto” (p. 39). Le camere d’albergo costituiscono un universo morale separato, sostiene la citazione di Tom Stoppard ad apertura di libro. Sono anche una revoca della sintassi dell’esistenza, incontri regolari o clandestini che avvengono non tanto nelle “occasioni” quanto nelle “intersezioni”. Appena usciti dalla stanza e consegnate le chiavi al portiere, ci possiamo trovare sull’Imbarcadero e scoprire che forse ci sarà tutto perdonato: “gustose marionette, obbediremo a ogni nocca / e sarà come non esser mai vissuti” (p. 58). Una nocca calata sulla testa come un tempo si usava nelle scuole (me lo ricordo bene)? È nel non aver vissuto la condizione del perdono? In tali grumi inesplicabili, Mobili raggiunge un risultato più alto delle poesie che vengono incontro al lettore. Tocca il livello in cui la poesia non ha più bisogno di lettori, ma di esploratori.
Giorgio Mobili, Dimenticare un hotel, postfazione di Alessandra Paganardi, puntoacapo Editrice, Pasturana (Alessandria) 2020, pp. 76, €12,00.
Il segreto – di Giorgio Mobili
L’uragano increspava le tegole in alto
limando i tuoi argomenti
hai detto: il mio signore ammazza i trovieri
sotto i miei vetri…
Ci lasciammo su carta, per poi sottocoperta
continuare a scommettere
sognare il mondo contro di noi
e il miraggio di un brivido…
Anni dopo
quando le braci sono un saldo prezioso
e anche le strade di Milano a digiuno
non terrorizzano più
ci condanna, sulla piazza, l’eco di un no
come un figlio misterioso
che non mostra le mani a nessuno.