Una variazione di Kafka (Sellerio, Palermo 2018) è un libro gioioso, innervato di una felicità dello scrivere che sola può derivare dal senso di libertà che dona la passione per la letteratura e per la scrittura. E per un autore amato.
Partendo da una constatazione – la traduzione italiana di Anita Rho recita: «[I riflessi lividi della] tranvia elettrica [chiazzavano qua e là il soffitto e le parti superiori dei mobili]», là dove nel testo tedesco a fronte si legge «[der Schein] der elektrischen Straßenlampen [lag bleich hier und da auf der Zimmerdecke und auf den höheren Teilen der Möbel]» – Sofri s’interroga su quest’incongruenza tra testo originale e traduzione: Straßenlampen significa “lampioni” elettrici, mentre “tranvia” si dice Straßenbahn e nel tedesco di Praga addirittura Elektrische.
Inizia così un’appassionata e appassionante ricerca, accompagnata dalla pressoché immediata scoperta che in tutto il mondo e nei decenni successivi al 1915 (l’anno della prima pubblicazione di Die Verwandlung / La metamorfosi) molti traduttori hanno reso nelle diverse lingue d’arrivo “tram elettrico” e altrettanti traduttori “lampioni elettrici”, per cui Sofri cerca di capire come si sia potuto verificare tutto questo – mi astengo dallo svelare le conclusioni cui egli giunge.
In realtà l’intero libro è il racconto di un’avventura piena di svolte e di sorprese e, di fatto, di come si possa scrivere un saggio non accademico e non paludato, ma fedele al suo stesso etimo e per ciò stesso serio: si saggiano e quindi si esplorano, si discutono, si montano e smontano tutti gli elementi, tutte le suggestioni, tutti i sentieri che si aprono durante una ricerca che nel caso presente è anche un profondo omaggio e un atto d’amore totale nei confronti di Kafka – e si resta sempre disponibili a sorprendersi, a incuriosirsi, a lasciarsi invadere dall’entusiasmo.
Sì, ché Sofri non lesina né l’ironia (e l’autoironia), né i toni giocosi, mostrando in tal modo sul campo quanta gioia intellettuale possa derivare da una ricerca non sterile, ma che tocca i gangli del proprio essere medesimo di lettore e di scrittore e che (non lo si nasconda) possiede anche i caratteri dell’ossessione. Ma forse ossessione è, in casi come questi, tout simplement l’altro nome dell’appassionato, infocato cercare.
I lunghi e appassionanti percorsi traverso l’universo delle diverse edizioni cartacee, ma anche traverso il web, labirintico e rizomatico, attraente e insidioso, si trasformano nel racconto sofriano, ricchissimo di citazioni nelle lingue più diverse e di storie anche personali circa singoli traduttori della Metamorfosi (Trasformazione come viene suggerito che dovrebbe essere la traduzione più corretta del titolo, benché in Italia si sia imposta in maniera ormai ineluttabile la forma Metamorfosi) – e proprio i percorsi di ricerca tramite Internet, il loro altissimo numero, la quantità enorme di dati a disposizione offrono al libro una delle sue molte peculiarità, dal momento che Sofri mostra sia le opportunità che gli equivoci celati nella rete la quale ultima è un luogo ormai ineludibile e irrinunciabile per la ricerca, ma anche talvolta insidioso o somigliante a terreno facile a smottamenti.
I paesaggi che Una variazione di Kafka spalanca sono infatti quelli interiori del lettore appassionato che si mette a seguire (anche per gioco o diletto) una traccia (anche labilissima) scovata in un testo dell’autore amato, quelli vastissimi del panorama linguistico che ogni testo d’autore offre, quelli narrativi di vere e proprie avventure del tradurre e del ricercare e che s’intersecano con la storia, con la politica, con la letteratura – ed è d’uopo spiegare ora perché ho intitolato questo breve intervento Il tram di Sofri: perché Una variazione di Kafka appartiene e al paesaggio mitteleuropeo della Praga dei primi decenni del Novecento e al paesaggio triestino dal quale Adriano Sofri proviene, perché Sofri stesso racconta della propria fascinazione per il tram elettrico che percorreva la Trieste della sua infanzia, per quel mezzo che, illuminato nelle ore serali e prenotturne, affascinava la fantasia del bambino, ma anche perché Adriano Sofri ama pensare che la luce elettrica che si riflette sul soffitto e sull’alto dei mobili nella stanza di reclusione di Gregor Samsa non sia quella statica dei lampioni in strada, ma quella mobile e ciclicamente ritornante del tram (ed ecco un’ulteriore connessione con la biografia sofriana e con gli anni trascorsi in carcere cui è dedicata una sobria, commovente mezza pagina): il tram elettrico e, aggiungerei, proprio quello d’inizio Novecento che percorreva la Praga di Kafka e molte altre città mitteleuropee e non solo, diviene figura o promessa della libertà, vettura carica di sogni e di speranza, incarnazione della forza fantasticante. Che un tram elettrico, illuminato nelle ore serali e notturne, percorra le pagine di uno o più libri, è metafora trasparente della natura libera e liberatoria del genere scientifico e letterario del saggio, del suo saper seguire precisi binari (e voglio sia, questa dei binari, immagine del rigore scientifico della ricerca e della documentazione) e del suo potersi inoltrare nelle zone e nei quartieri più diversi della città, trasportando le persone (insieme con le loro storie, con i loro pensieri, con le loro aspirazioni – in un saggio ben fatto si può salire e viaggiare, scendere per risalirvi in altro momento: non lo si abbandonerà mai definitivamente), collegando i diversi luoghi del paesaggio urbano ed eventualmente extraurbano, facendosi avvertire con il proprio sferragliare e con le proprie luci anche da chi, per varie ragioni, sta in una stanza, forse malato, forse recluso, forse libero ed impegnato nelle diverse attività del vivere.
E mi piace non poco questo tram che circola, invitante e talvolta misterioso, talaltra inatteso, tra le pagine di diversi traduttori sparsi su tutti i continenti del globo, che unisce la Praga di Kafka alla Trieste di Sofri, in un legame mai spezzato dentro la Mitteleuropa anche molto tempo dopo la finis Austriae.