Nonostante quel che si continua a scrivere sull’irresistibile ascesa del quartiere, in Via Fabbri c’era poca gente. Mi aspettavo di più, dico sul serio. Di Erin, intanto, neanche l’ombra. Erano quasi le sei e tre quarti. Per quanto mi fossi tenuto largo con la prenotazione, mettendo in conto un probabile ritardo, di questo passo non avremmo avuto tempo per l’aperitivo e la serata non si sarebbe potuta distendere sul ritmo ternario che avevo immaginato, cosa che un po’ mi seccava. Stavo passando dalle insegne dei negozi e dei bar agli scooter a tre ruote parcheggiati di traverso, quando la porta dello stabile di fronte si aprì e vidi sbucare Flamingo, che con prudenza soprannaturale cominciò a camminare lungo il muro. Il palazzo bianco dalla facciata anonima e bisognosa di restauro da cui era uscito ospitava un Centro di salute mentale. Forse era andato a trovare un parente, ma lo sforzo con cui cercava di nascondersi (oltre agli occhiali scuri, nonostante il caldo portava in testa un pesante berretto di lana rosso), rivelava indiscutibilmente un affanno più grave.
All’epoca non ne sapevo niente. L’avevo incontrato alcune volte all’agenzia di Rita, o in giro: un pensionato cordiale con un corredo di idee fisse – come quella del primato dell’istruzione secondaria su tutto il sapere umano – ma non lo avevo mai visto ridotto in quelle condizioni. La camminata era il frutto di una complicazione dolorosa: portava avanti la gamba destra con decisione, ma la sinistra lo seguiva più debolmente, compiendo per così dire tre quarti di passo, senza svolgere interamente il proprio dovere e imprimendo all’intero processo un andamento zoppicante. Eppure mi sembrava non solo che Flamingo non riuscisse a contrastare questo difetto, ma che il movimento prodotto fosse il massimo che in quel tardo pomeriggio riuscisse a esprimere.
Mentre girava l’angolo, arrivò Erin.
«Scusa per il ritardo, i soliti casini» disse, rimettendo il cellulare in borsa.
«Un attimo prima e avresti visto un Flamingo disperato».
«Immagino. È uscito dal Centro di salute mentale?» fece, con una rapida espressione di perplessità.
«Volevo proprio chiederti qualcosa».
«Sì, è per la figlia. Ora però dobbiamo sbrigarci perché devo passare all’Everyday Beauty prima che chiuda».
La figlia di Flamingo, mi disse Erin, era problematica. Una storia lunga. Nei primi anni di liceo aveva mostrato una tendenza all’autolesionismo; i genitori speravano che potesse superare questi episodi anche in virtù di un’amicizia imprevedibilmente stretta con Rossana, una compagna di classe che frequentava tutti i pomeriggi e che continuò a frequentare anche negli anni successivi. Quando però Rossana in quarta si trovò un ragazzo, Federica – ecco il suo nome – precipitò in uno stato di prostrazione quasi invariabile. Rimase a lungo assente e anche in seguito, nella rimanente parte dell’anno, si rifiutò di incontrare i suoi compagni nelle occasioni pomeridiane. Già mangiava poco, qui cominciò a star peggio. I suoi la portarono da un analista e poi da un altro. Ci furono un paio di incontri con i genitori di Rossana, ma non servirono. Comunque, l’anno successivo riuscì a diplomarsi.
A quel punto, Erin entrò in negozioe io, fatto in breve il giro della profumeria – che evidentemente non aveva ancora colto l’opportunità di dedicare un vero settore ai prodotti da uomo – decisi di aspettarla all’uscita.
Come è noto, l’adolescenza ha una sorte difficile. Pensando a un paio di esempi colti fra i miei parenti mi spingerei a sostenere che un’indole tendenzialmente ostile, magari di primo acchito liquidabile come passeggera e tipica di quella determinata fase della vita, se non trova adeguata espressione né qualcosa che la incoraggi a dispiegarsi (qualcosa che le si opponga o che la sostenga, il risultato non cambia purché si instauri un minimo di dialogo), il più delle volte finisce in un vuoto inesplicabile. Le ossessioni diventano ingombranti; l’abitudine, poi, fa il resto. Ciò che sembra riservatezza si traduce col tempo nell’immagine del pensionato che la domenica poco dopo mezzogiorno mendica in strada un passaggio per andare a vedere la partita col cuscino della sua squadra infilato sotto il braccio.
Erin uscì dal negozio e incominciammo a scendere a piedi verso il parco.
«Eravamo su Federica».
«Sì,» riprese, «sai già quello che Flamingo pensa della scuola. Puoi immaginarti quanto ci tenesse che sua figlia andasse all’università. Avrebbe fatto qualsiasi sacrificio. E alla fine ci andò, a studiare Scienze della formazione. A suo dire sembrava la cosa migliore da fare. Se in passato aveva mostrato qualche problema affettivo, all’università sembrava filasse tutto per il meglio. Anzi, aveva cominciato a uscire con un ricercatore di etnomusicologia o una cosa del genere, uno un po’ più grande di lei. Ma dato che la sua è una di quelle storie in cui succede sempre qualcosa, successe qualcosa, ossia rimase incinta. Non è tanto il fatto in sé – poteva capitare, è chiaro – ma è che questo successe proprio alla vigilia di un concorso a cui si era iscritto il suo compagno, un concorso all’università di Firenze. Per questo – non so bene i dettagli – lui la lasciò. Lei decise di andare avanti, figurati se Flamingo e Miuccia non le avrebbero dato una mano: ebbe una gravidanza molto complicata alla fine della quale nacque la piccola Lucia. Purtroppo, però, Federica non riusciva a riprendersi e finì in depressione. In quel periodo anche Miuccia stava poco bene, il padre si rifece vivo per vedere la bambina e lei glielo negò. Fu ricoverata in una clinica. In pratica – non so bene la faccenda fra avvocati e Servizi sociali – la piccola venne data in affidamento».
Quattro ragazzi giocavano a basket nel campetto vicino.
«Beh, ce n’è quasi abbastanza», dissi.
«Già. Queste cose per lo più le so da Rita».
«Ora lei è al centro?»
«Entra ed esce» disse Erin, sempre guardando verso il campetto, «ma quando esce non torna a casa, la maggior parte delle volte va a stare in un’altra struttura in periferia, gestita da una cooperativa sociale».
«E Lucia?»
«Sembra che il padre si sia riavvicinato. A Firenze vive con una nuova compagna: forse la affideranno a lui».
Arrivai a sovrapporre a Federica l’immagine di una mia vecchia compagna di classe che dopo essere stata abbandonata era uscita male dal divorzio in cui si era vista negare la custodia delle due figlie e il cui viso, tempo dopo, avrei trovato in un’inserzione a pagamento su un sito di incontri.
«Dai, non fare quella faccia» disse Erin, «pensa invece al posto in cui devi portarmi a cena».
Arrivò un messaggio di Sandra: Che regalo compriamo per la maturità di Enrico in modo che Rita non se la prenda (e che a Fabrizio non sembri una sciocchezza)?
Sull’angolo del parco, Via Rosmini era occupata quasi per intero da una serie di macchine d’epoca in sosta, in uno di quegli incomprensibili gran tour che spesso d’estate si distendono in un lungo giro interregionale fino ai passi dolomitici: erano per lo più Lancia Fulvia – una quindicina – seguite in coda da un paio di Delta integrale e addirittura da una Lancia Delta S4.
«Tutte molto colorate» disse Erin, osservando quattro donne in tuta che si erano tolte il casco e parlavano davanti a una Lancia Fulvia verde col tettuccio nero. Un gruppo più folto era radunato con gli organizzatori in fondo alla strada per le indispensabili comunicazioni.
«Non è il tuo sport, mi pare», disse Erin.
«No, direi di no».
Nell’aspetto di due eleganti donne pilota (in realtà co-pilota) si scorgeva l’impronta di un atteggiamento liquidatorio verso l’ambiente circostante e insieme un uso superbo di lacca per capelli, ancora mossi e luminosi nonostante il sacrificio offerto sotto il casco da gara.
Tornai per un istante sul discorso «Scusa. E com’era, Federica, in una stagione normale?»
«Non lo so» rispose Erin, «l’ho conosciuta tardi. Una ragazza minuta, secondo Rita un po’ chiusa. Sensibile, mi verrebbe da dire. Ma credo sia stata male troppo a lungo».
D’un tratto si mosse verso di noi una quarantenne con in testa una cuffia color tortora e sul corpo una serie irregolare di scampoli di tessuto fra il viola e il grigio. Ai piedi, sandali di ordinanza. Voleva sapere dove fosse Via Algarotti.
Erin le rispose.
«Beh, ti ringrazio» disse lei, «Mi avevano detto che qui da voi sono tutti cortesi», aggiunse sorridendo in modo preoccupante.
Erin la osservò allontanarsi con sguardo comprensivo. Stava insieme a due amiche vestite allo stesso modo. Io cercavo di guardare a terra.
«Lo so», fece Erin, «lo so».
Stavamo attraversando la strada quando nella via occupata dalle Lancia Fulvia, a cinquanta metri da noi, accompagnato da uno dei commissari di gara e con al collo un tesserino di accreditamento, scorgemmo il nostro Flamingo, o per meglio dire un altro Flamingo, privo di occhiali da sole e di berretto, e soprattutto atleta dalla falcata pressoché esemplare. Ogni segno di cedimento biomeccanico in lui era scomparso, camminava meglio di me. Decidemmo di fermarci a salutarlo, ma ci riconobbe, o diede a vedere di averci riconosciuto, solo a circa dieci metri da noi.
Arrivò un altro vocale di Sandra, che Erin mi fece ascoltare divertita: Senti, e se alla fine gli prendessimo uno smartwatch? Di quelli che costano poco, chiaramente, mica posso ammazzarmi per un regalo così. Flamingo cominciò a parlarci della gara.
Quando cominciò a illustrare il percorso fui preso da un leggero turbamento che proveniva dal ricordo di un episodio di tre anni prima, anzi, più che dall’episodio, dallo stato d’animo di apprensione angosciosa che avevo colto nella simulazione dell’euforia da parte di un collega, Bernardo Tosi, a fine contratto: anch’io in quei giorni avevo dovuto simulare una tranquillità impossibile, assecondando le battute degli altri con un’autoironia che li facesse sentire a loro agio (e che quindi potesse far risalire i miei punti in vista di un possibile rinnovo: «Hai visto? Non si lamenta mai»), ma qui, davanti allo strazio di Flamingo, così dettagliato nel ricordare a me e a Erin i punti di controllo disseminati lungo il percorso del gran tour, ero arrivato a pensare che anche il suo legame con i ricordi del liceo non fosse che uno dei pochi punti d’attracco per una disperazione altrimenti priva di rimedi. Forse stavo esagerando; in effetti, dopo anni di convivenza con le condizioni altalenanti della figlia, doveva pure aver trovato un suo equilibrio.
Erin mi rimproverò bonariamente.
In poche parole, in gioventù Flamingo era stato anche un pilota.
«Non un grande pilota. Sono arrivato a disputare qualche gara in Formula Libera, con piazzamenti non disprezzabili: un terzo e un quarto posto a Perugia, ad esempio», lo diceva con un entusiasmo un po’ fiacco, «ero più che altro un regolarista, non uno da giro veloce, ma mi lasciavo indietro tanti che pensavano solo ad andare forte». Lo sguardo si venava di una soddisfazione immaginaria «che vuoi, anche qui, un po’ come in tutte le cose, ci vuole senso della misura».
«E stai ancora in questo mondo?» chiese Erin per cortesia, accennando alle macchine.
«Beh, in un paio di gare di auto d’epoca do una mano all’organizzazione. Questa qui di oggi, ad esempio, la tappa serale, mi piace sempre. Nella media è tutta gente in gamba».
Mentre con la mano ci indicava le coppie che prendevano posto nelle Lancia Fulvia, gli cadde il borsello in finta pelle, rovesciando sull’asfalto un mazzo di chiavi, un pacchetto di caramelle alle erbe, il portafoglio e un foulard femminile giallo canarino (il berretto rosso si intravedeva dalla cerniera del borsello capovolto).
«Scusate», disse Flamingo, «sono proprio sbadato».
Sul foulard, prima che lo riagguantasse, riuscii a leggere «Miuccia», scritto a penna. Una di quelle povere cose che non riescono a nascondere l’umiltà di chi le ha prodotte, né l’incertezza della mano all’opera sul tavolo del laboratorio.
«Ma voi, siete sempre a spasso?» ci chiese per cambiare discorso, mentre finiva di riordinare le cose.
«No,» fece Erin, «è che abbiamo una piccola ricorrenza da festeggiare e questo qui mi deve portare fuori a cena».
«Una cosa semplice», mi affrettai ad aggiungere, «non vorrei che poi si montasse la testa».
Erin sorrise e così Flamingo. In effetti, la pausa aperitivo, che avevo pensato di prevedere perché sapevo che a Erin sarebbe piaciuta, stava scivolando pian piano nell’impossibile.
Qualcuno lo chiamò dalle auto più sotto, un pilota basso, col casco bianco senza mentoniera da cui usciva il microfono. Aveva un problema col numero sulla fiancata.
«Scusate», disse lui, «devo proprio andare».
Se ne andò di corsa, tenendo la mano sulla tracolla del borsello, ma tre metri più avanti inciampando quasi non finì lui stesso a terra, con i suoi segreti.
La settimana seguente, spinto da un’urgenza che aveva a che fare tanto con la mia curiosità quanto con il ricordo della mia compagna di classe (o per meglio dire con il ricordo della passione che in un certo momento della mia vita avevo provato per lei), passando davanti all’agenzia di Rita mi fermai a chiederle qualche dettaglio in più sulla storia di Federica. Non che sia riuscito a trarne un ritratto per intero, ma qualche elemento in più sono venuto a saperlo. Uno, ad esempio, è questo: alle scuole medie Federica si era innamorata di un compagno di classe che voleva imparare a suonare la chitarra. Fece di tutto perché Flamingo ne comprasse una anche a lei, perché voleva iscriversi al corso insieme al suo amico. La famiglia era preoccupata. Davanti alla promessa che si sarebbe impegnata a imparare lo strumento comunque fossero andate le cose, Flamingo cedette. Le regalò una chitarra acustica elegante, dalla cassa bordeaux. Federica si iscrisse al corso, che contava in tutto sei partecipanti compreso il suo compagno. Purtroppo, dopo solo due lezioni il maestro si trasferì a Milano, il corso si interruppe e il piano andò a monte. Federica onorò la promessa e dopo un ciclo di lezioni private andò a suonare la chitarra in campeggio. A volte, per evitarle un po’ di fatica mentre lei marciava con i ragazzi, Flamingo le faceva trovare la chitarra al campo base, chiusa nella custodia rigida.
Cosa gli era successo? Cosa aveva trasformato il pilota nel funzionario la cui diligenza era diventata un abito così rigido da sostituirsi alla vita? Non vorrei produrmi troppo in congetture, ma credo che la somma delle delusioni lo avesse abbattuto in una condizione dalla quale si era ripreso solo a patto di fare della prudenza una disciplina interiore che non avrebbe più abbandonato. Se prima era stato un regolarista, poi lo sarebbe diventato al punto da sognare un’onorificenza per chi sapesse ricordare Il Secretum o Il velo delle Grazie. Insomma, si era fatto tanto conforme alla norma da coltivare l’ambizione di una cultura monumentale e sterile e da rompere l’anima su questo a chiunque avesse a tiro. Forse questi propositi erano l’espressione di un’esigenza che il succedersi di varie stagioni severe non aveva soddisfatto, quella di un mondo in cui la buona volontà e l’equilibrio, e in altre parole lo studio – che evidentemente a lui dovevano essere costati più di quanto non si intuisse a prima vista – ottenevano il giusto riconoscimento materiale (ciò a lui era mancato). L’insistenza con la quale portava la chitarra alla figlia mi sembrava invece lo specchio di un altro malinteso: mentre pensava che la musica avrebbe contribuito a tenerle alto il morale – perché la musica, come tutte le opere d’arte, ha anche una funzione consolatoria – avrebbe fatto invece meglio a lasciare andare Federica per la sua strada, a perdersi in mezzo al bosco con i compagni.
Le macchine partirono. Restammo a vedere passare le prime tre, con le coppie che salutavano il pubblico con la mano, come da rito.
Sfumato l’aperitivo. In cinque minuti arrivammo al ristorante.
A tavola, Erin mi prese in contropiede:
«Devi finirla con questa storia di Flamingo», disse, mentre si sistemava il tovagliolo, «mi sembra che te la sia presa troppo. Prima di tutto, non era un campione. Ha fatto qualche piazzamento, lo sapevo già – come sapevo che gli faceva piacere ricordarlo –, ma nel suo caso non si è trattato di una carriera interrotta, non c’era niente da interrompere. Non ha sfondato, come tanti, anzi come quasi tutti quelli che fanno sport. Il fatto è che lui forse non l’ha capito fino in fondo e ha continuato a raccontare a sé stesso che con un po’ di fortuna in più le cose sarebbero potute andare diversamente. Forse è anche vero, ma di qui a pensare che sarebbe diventato un campione ce ne passa. Finito di correre, quei tre anni che ha corso, si è dovuto trovare un lavoro. E ha avuto fortuna, perché col solo liceo in tasca frequentato dai salesiani ha fatto una carriera di lusso: oggi per fare ciò che ha fatto lui uno dovrebbe studiare il doppio, se non il triplo. Visto però che a scuola era bravo e che il suo lavoro non lo appassionava, si è messo a lodare quelle tre cose di letteratura che ha imparato, sempre le stesse, come se invece che leggere libri avesse continuato a leggere il manuale del liceo. E non lo dico tanto per dire, so per certo che lo ha fatto, me lo ha detto Miuccia».
Si fermò un istante per bere un sorso d’acqua:
«E a proposito, Miuccia è stata la sua vera fortuna, dovrebbe esserle grato giorno e notte: una donna sveglia, ha saputo affrontare la faccenda della figlia molto meglio di lui. Miuccia segue costantemente la situazione di Federica ma si fa vedere al centro solo quando i medici le dicono che è il caso. Bisogna che Federica ritrovi una sua autonomia, per quanto possibile. Flamingo è una brava persona che però tende a prendere un po’ troppo sul serio tutto ciò che fa, a partire dai suoi passatempi, come i progetti per le vacanze, che lo tengono occupato tre mesi all’anno».
Stavo ruotando il mio bicchiere sul suo asse.
«Cosa c’è? Hai qualcosa da dire?»
Sorrisi: «No, figurati, cos’altro potrei dirti?»
«Su Flamingo, niente. Potresti farmi qualche complimento, invece».
Arrivò un altro messaggio di Sandra: Scusa, ho finito adesso. Ma siamo proprio sicure di fargli un regalo vero? Non è che poi ci prende per due zie e a ogni occasione si aspetta qualcosa? Uno schianto di zie, fra l’altro.
Erin si sistemò i capelli tenendo il fermaglio in bocca. Mi lanciò un’occhiata d’intesa, contenta davanti al Menu che il cameriere le aveva messo davanti.
«Ordiniamo?» mi chiese.
«Certo. Cosa dici?»
«Che c’è, mi lasci parlare per prima perché vuoi dei consigli?»
«Beh, io prenderei primo e secondo».
Alzò lo sguardo verso di me, temperando il suo slancio in un tono più moderato:
«No, dai», sorrise, «L’antipasto lo prendiamo sicuramente. Poi, direi, o un primo o un secondo».