Negli ultimi anni ho frequentato la casa dei miei genitori con una spavalderia inedita. Ho imbracciato il mio aiuto come un forcone, e ho spostato, riordinato, chiesto e cercato. “Papà, guarda che queste ricevute non servono più, le puoi buttare…”, “mamma non ti ricordi proprio dove hai nascosto la collana?” permettendomi gesti inconsueti del quale mi era rimasto il sapore del tabù, fin dai tempi dell’infanzia. Frugare nei cassetti proibiti della scrivania, fra la biancheria (“eccola la collana, mamma, stava fra i reggiseni!”), nel sancta sanctorum degli oggetti intoccabili: la cassetta di legno con cui mio padre era partito militare, a diciott’anni appena compiuti.
La vecchiaia, l’affidarsi ai figli, ha fatto calare le sue difese: “Guardate pure,” ha concesso a me e i miei ragazzi, e noi abbiamo tirato fuori cimeli come la gavetta dell’esercito italiano, una pistola lanciarazzi americana, una cintura della Wehrmacht. Il racconto di come queste cose potessero essere contenute in un unico baule è andato avanti finché mio padre è vissuto, mentre i miei figli scoprivano poco a poco il significato di partire senza volerlo per la guerra, e poi cercare di scappare, sempre e comunque, da chiunque ti obbligasse a indossare una divisa (praticamente tutte le forze dell’Asse e quelle alleate). E come papà, ragazzo, si fosse fatto uomo subito, nel giro di pochi mesi.
“Visto quante decorazioni? Sono tutte di mio padre, della prima guerra mondiale. Io, quando hanno provato a mandarmi a combattere, sono sempre scappato: due volte renitente alla leva, nell’esercito italiano. Poi, il giorno dopo l’Armistizio, sono arrivati i tedeschi e si sono messi a comandare loro. Mi hanno dato la divisa della Wehrmacht, e gli stivali di un morto. Ci stavo bene, era roba comoda rispetto a quella italiana. Ma mentre facevamo i pattugliamenti morivo di paura: era pieno di partigiani, da quelle parti. Poi, quando sono scappato anche da lì, erano i contadini che avevano paura di me: biondo, con gli occhi azzurri… mi prendevano tutti per un soldato tedesco! E io avevo paura di loro, che uno mi tirasse addosso un forcone… ‘Sono italiano, sono come voi’, dicevo, e lo dicevo con l’accento fiorentino, così capivano che era vero.”
“Avevo un permesso finto, me lo ero fatto fare in fureria, pagando. I soldi me li aveva spediti il babbo insieme a una lettera in cui mi faceva capire che era il momento di tornare a Firenze. Ero a Bassano del Grappa e lui mi scrisse: ‘Il nemico è ormai alle porte…’ per farmi capire che i tedeschi stavano perdendo, e che gli alleati erano vicini… allora ho comprato il permesso falso, in fureria, e mi sono messo in viaggio, a piedi, verso Firenze. A un certo punto ho trovato un signore gentile, che mi ha dato un passaggio. Aveva una bella macchina comoda, grande, e io ero stanco… mi sono addormentato, e mi sono svegliato con quel signore che mi scuoteva, che mi diceva che dovevo scendere. L’ho ringraziato e sono sceso… e quello mi aveva scaricato davanti alle SS! Mi hanno chiesto i documenti: ‘Papieren!’ mi hanno urlato, e mi tremavano le mani. Ma per fortuna i documenti erano fatti bene, c’erano i timbri rubati, e sembravano veri, allora mi hanno lasciato andare. Ho battuto i tacchi e ho proseguito.”
“A un certo punto ho trovato una colonna di camion che dal nord andavano proprio a Firenze. Mi hanno lasciato salire su uno, era coperto da una rete e mi ci sono aggrappato per ore… sotto c’era l’esplosivo. L’ho capito solo dopo del tempo cos’era: era l’esplosivo con cui i tedeschi hanno fatto saltare i ponti, a Firenze, per cercare di fermare gli alleati…”.
“Ero quasi a casa, finalmente, ma c’erano soldati tedeschi dappertutto; il mio permesso era scaduto da giorni, e se mi avessero fermato… ti fucilavano lì dove stavi, ormai. Nemmeno il processo, ti facevano. Disertore: bum! Allora sono passato sotto un treno in partenza, per non farmi notare. Si muoveva sempre più forte, ma non potevo andarmene, sennò mi vedevano… sono strisciato, sulla pancia, sempre più veloce, e poi sono sbucato di là e non mi hanno visto, sono scappato via!”
I giorni dei diciott’anni erano stati così pieni di spaventi e di voglia di sopravvivere da contarne altri cento, dentro. Per farlo ritrovare, alla fine, in un mondo di adulto da cui tutto quello che era esistito prima doveva sembrare un luogo lontanissimo, dove non si può più tornare, che non si può più guardare.
E che, invece, è saltato fuori all’improvviso, dentro un libriccino nero. Un’agenda minuscola che mio padre non ricordava. L’agenda dei suoi diciassette anni.
C’erano segnati dei fatti. Oggi mi sono preso uno schiaffo e non ho capito perché… da una fidanzatina di cui tutti ignoravamo l’esistenza. “Ma questa da dove…? Papà, hai conosciuto la mamma subito dopo la guerra!” La risatina, in risposta, celava chissà quali ricordi non detti, e una compiaciuta avventura d’amore, piccola come l’età dei protagonisti.
Stamani bombardamento. Passate tre ore nel rifugio. Nel pomeriggio bagno nell’Arno con Paolo e Giovanni. E via così fra lavoretti, bombardamenti, partite di biliardo, lezioni di violino. Mio padre annotava i fatti, e non commentava mai. Voleva solo essere sicuro che non gli sfuggisse niente, lui che era nato con la propensione alla musica e al disegno. Anche con la fantasia era bravo, scriveva bei temi. Ma non si concedeva molto spazio per queste cose. Non era il tempo giusto.
E poi il suo diario si interrompe dopo l’estate. Nemmeno il tempo di scrivere del compleanno, ha avuto; era già soldato.
Questo ritrovamento mi ha acceso alla memoria l’esistenza di un’altra agenda, mia, che avevo perso di vista tanto tempo prima. Chissà se era ancora in casa.
Altre ricerche, altre intromissioni in spazi e oggetti proibiti. Finché la mia agendina è uscita, da un cassetto, insieme a un mio quaderno di seconda media. Sui suoi fogli, vuoti, erano segnati solo degli orari: 18,41; 18,29; 18,15; 17,59…
Ci ho messo un po’ a capire cosa fossero, lì per lì, ma poi ne ho ricordato il senso: erano appunti con cui cercavo di afferrare la realtà che avevo intorno, a iniziare dalla durata delle giornate. Volevo capire esattamente come cambiava, durante l’anno. Come le ore di sole lunghe, lunghissime d’estate diventavano via via più corte, fino al buio prevalente dell’inverno. Qualcosa a cui non avevo mai fatto molto caso, prima.
E quindi segnavo gli orari nello sforzo di guardarmi intorno vedendo, rendendomi conto, incasellando e ricordando. Uno sforzo di cui non mi ricordavo.
Nemmeno della mia prima infanzia pimpante, ho ricordo. Di quando, secondo i racconti di famiglia, camminavo saltellando; e, nel giardino della casa al mare, cantavo filastrocche senza vergogna al pubblico dei parenti riuniti in cerchio intorno a me, che ridevano e mi battevano le mani.
Quello che ricordo, è di aver trascorso pomeriggi arrampicata sugli alberi. Di sognare di essere a dorso di un elefante, con le gambe a cavalcioni sui rami lisci del grande fico. O di fuggire da un’alluvione sbucciandomi la pelle sulla scorza dell’albicocco, sempre più in alto, fino a vedere le cime degli altri alberi sotto di me. Tutto allagato, e io sola in salvo. Ci passavo quattro mesi l’anno, al mare. Da sola, con mia nonna, in un paesino semideserto, fuori stagione. In un giardino grande e vuoto, che riempivo con le mie fantasie.
Tutti i libri che trovavo in casa transitavano attraverso le mie ore, e si lasciavano dietro infinite avventure. Verne, Kipling, Salgari e Astrid Lindgren depositavano racconti nelle mie giornate. Li raccoglievo e li aprivo, come pagine immense, e mi tuffavo dentro; mi trovavo in situazioni di pericolo, di esplorazione, di battaglia e di magia. Le vivevo tutte nel giardino, d’estate, e poi d’inverno in casa, rovesciando i mobili del salotto e attaccando lenzuola dalle finestre fino al comò per fare fortezze, o percorsi in mezzo alla giungla. Le sedie allineate erano la lunga banchina del molo, che mi serviva per salire sulla nave.
Papà rientrava dal lavoro, la sera, e se non era oppresso dalla giornata e in vena di borbottii si toglieva l’abito e mi raggiungeva. Mi caricava sulle braccia, applaudito come l’uomo più forte del mondo sotto il tendone del circo. O spiava la mia presenza oltre gli angoli delle pareti, mentre dava la caccia ai pellerossa sul suo territorio. Erano le penne che mi ero legata alla testa con una fascia, a tradirmi. E i fulminanti del fucile sparavano fumo e rumore, ma facevano comunque meno confusione della sua voce: “Ti ho beccato, sporco indiano!”.
“Ah no, di giocare non son capace,” dicevano mia nonna e mia mamma, ma assecondavano i miei giochi fornendo tovaglie, bastoni e bracciali, con cui realizzare travestimenti. E rispettando lo straboccare delle immagini che avevo in testa sui mobili e le suppellettili di casa. Dandomi risme di fogli, e matite con cui potevo continuare a giocare, quando ero stanca, disegnando le storie, o scrivendole.
La macchina da scrivere era stato il regalo più desiderato, e poi il gioco preferito su cui inanellare i pomeriggi invernali. Uno dopo l’altro, li decoravo con il ticchettio della macchina. E la fantasia era il foglio dove le lettere battevano e si imprimevano, una per una. Veloci, poi lente, poi in una fuga inarrestabile. Le seguivo a fatica, a volte, con le mie dita piccole e poco allenate. E poi leggevo dentro la testa quello che ne era venuto fuori. Quelle storie con immagini di pericoli e soluzioni, coraggio e portenti. Le leggevo con stupore, perché non avevo fatto in tempo, prima, a vedere di cosa le lettere parlavano.
Buona, silenziosa; una bambina che borbotta chissà cosa mentre gioca da sola, che disegna concentrata sui fogli, o che pigia sui tasti della macchina da scrivere. Così mi ricordo io. Con la testa persa dietro a cose inesistenti.
E quindi l’elenco degli orari, sul quaderno di seconda media era questo: un arginare la fantasia, lo sforzo di porre un rimedio. E tentare una presa sulla realtà, dandomi conto del presente.
L’anno prima mia nonna era sparita. Una malattia l’aveva trascinata in ospedale e non la lasciava tornare. Solo mia mamma riusciva a raggiungerla tutti i giorni e a passarci l’intera giornata. Ci raccontava di cosa aveva fatto e cosa aveva detto, se stava meglio, se i medici le avevano dato nuove cure… ma io sapevo che mia nonna non c’era più. Al suo posto, nel letto d’ospedale, c’era una signora vecchia, che colava un po’ dalla bocca, e che non mi pettinava i capelli, non mi porgeva la merenda, non guardava più i miei disegni dicendo: “Oh… ma guarda che bello!”.
Per nove mesi mia mamma era stata in ospedale, e io avevo trascorso le ore dopo la scuola in turni pomeridiani a rotazione, fra i nonni paterni e gli zii. Non potevo leggere, a casa loro, e nemmeno montare foreste di lenzuola nei salotti. I giochi con i cuginetti erano intensi come l’emozione di trovarmi in compagnia; però è quello il periodo in cui sono sparite le avventure coi travestimenti e coi mobili di casa. Sono spariti i fogli e i ticchettii. I fucili con i fulminanti, il circo e le grida nei corridoi di casa.
Poi anche il padre di mio padre si è ammalato, ed è scomparso. Velocemente questa volta. La malattia era diventata rapace, prendeva e non lasciava tempo, ti abituava subito alla perdita. Di un parente, un altro e un altro ancora. La sorella di mio nonno. Un cugino di mio padre, sua madre, suo padre. E nessun modo per capire i cambiamenti, per immaginare i pomeriggi della domenica senza quelle visite dove ognuno di loro era gentile e mi sorrideva, mi regalava caramelle, mi ringraziava per essere passata.
Mia nonna invece è morta durante l’estate e la malattia si è saziata, ci ha lasciati con la pace dei vari lutti. E la tristezza di mia mamma.
Sua madre era una parte di lei, un organo che le era cresciuto dentro per far fronte alla guerra, per darle la forza di scappare nei rifugi con i fratellini per mano, e altri bambini raccolti in giro nel quartiere, mentre mia nonna e le altre donne erano al lavoro.
Mi nonna era dentro di lei, un organo che pompava forza per sopportare la perdita del padre.
“Lui che non aveva dovuto farla, la guerra, è stato investito sulla sua moto da una camionetta tedesca… eravamo alla fine, i tedeschi stavano scappando, andavano veloci. Non l’hanno visto e, dopo, non si sono fermati. E pensare che eravamo tornati a Firenze da poco… se fossimo rimasti a Roma, chissà.”
“Si amavano tanto, i miei. Da sempre. La mamma ha passato dieci giorni imbambolata su una sedia. Non parlava, non piangeva. Stava ferma, zitta, e io mi sentivo morire. Eravamo ospiti da un fratello della mamma. Pesavamo, in casa. Non che ci volessero male, ma ci facevano sentire di troppo… Io non li conoscevo quasi, ero cresciuta a Roma. Poi un giorno la mamma ha battuto le mani sulle gambe, si è alzata e ha detto: ‘Basta’. È uscita e ha trovato casa, una casa sequestrata a dei fascisti. Lei risultava come una vedova di guerra e ne aveva diritto. Poi ha trovato cibo, un lavoro… è diventata forte: una leonessa che lottava per i cuccioli, sembrava, e mi sono sempre sentita al sicuro.”
Anche durante la scoperta dei debiti da onorare, e lo sforzo di risalire. In una città sconosciuta, in mezzo a una famiglia dimenticata, e un quartiere nuovo. Dove un giorno conobbe un biondo che era appena rientrato dalla guerra, vestito con un giaccone dell’esercito americano.
“Io ero per strada con degli amici. C’era della musica e ballavamo lì, per strada. Poi si è fermata una camionetta americana, ed è saltato giù un ragazzo. Secco secco, col ciuffo… era tutto capelli! Ha messo una mano sul portello ed è saltato giù a piè pari. Ha fatto un cenno con il capo a suo fratello, che era nel mio gruppo, di seguirlo, e sono rientrati a casa. Lavorava per gli americani, faceva un po’ di tutto… ma più che altro si dava un sacco di arie!”
“Di farlo venire a casa mia, quando ci siamo fidanzati, mi vergognavo; la sua era una famiglia rispettabile, il padre incuteva soggezione… noi avevamo una sola pentola, con cui cucinavamo tutti i pasti. Il babbo aveva sempre vissuto sopra le sue possibilità, e poi giocava d’azzardo, faceva regali a destra e manca, si era appena comprato una moto di lusso… ci aveva lasciato con una fila di creditori, davanti alla porta. E la mamma, orgogliosa com’era, aveva voluto ripagare tutti. Una leonessa, e testarda. Non ha mai voluto chiedere niente a nessuno. Però non ci ha mai fatto mancare nulla. Lei si trascurava, ma noi figli eravamo sempre ben nutriti, ben calzati e vestiti meglio di tutti.”
Attraverso tutto questo, mia nonna viveva dentro mia madre. Nel suo respiro, nei suoi pensieri, c’era lei. E adesso quest’organo era sparito.
Dopo la morte di mia nonna viveva come senza cuore, o senza mente, mia mamma. E quell’assenza le impediva di sorridere, le faceva scordare di cantare. La portava lontano da me e da tutto.
Dopo l’estate, quando la scuola era ricominciata, la teneva chissà dove e le faceva dimenticare gli orari dei miei rientri, lasciando il mio sedere e la mia angustia a intorpidire durante lunghissime attese sul pianerottolo di casa.
“Ma da quant’è che aspetti? Vuoi entrare qui da me?”
La vicina si affacciava, a volte, impietosita.
“No, no, non si preoccupi, tra poco arriva,” rispondevo senza crederci, e mi rimettevo ad aspettare.
A vedere la giornata cambiare, nella finestra condominiale. Giù, dietro il vetro opaco, le ore erano un bagliore che andava verso il pomeriggio, con sempre meno luce.
Il sole tramonta alle 17:52 esatte.
Studiao la storia sui libri e la storia in realtà siamo noi ( De Gregori). La storia personale quando è raccontata così diventa, al tempo stesso, commovente, avvincente, inquietante, splendente. La storia come la racconti Fra, è una sceneggiatura fiorita, sceneggiatura biografica, sceneggiatura tangibile. Il “Brava ” classico è riduttivo, perchè oltre la scrittura c’è la bimba , la donna, la madre, che ha assorbito la storia e ce la ridona con i suoi filtri speciali quasi fossimo noi là , un tempo con lei corredati di piume sulla testa. Sei una meraviglia , continua a meravigliarci.