4.
Le finestre dei maestri italiani erano da considerarsi dei belvederi sul paesaggio. Il fatto stesso che fossero puri riquadri senza vetri o imposte sottolineava il loro aspetto mentale: metafore della continuità tra interno ed esterno, strisce di natura applicate come carta moschicida per occhi acuti, dove nel minimo spazio pittorico eccellono le capacità dell’artefice, come quadri essi stessi nel quadro con soggetto diverso; ancora ricerca ponderata, come il buon tiratore che guarda paziente nel mirino, del punto di fuga verso cui tutto converge secondo la nuova scienza della prospettiva che ha reso intellettuale l’artigiano (esempio evidente L’Annunciazione di Lorenzo di Credi).
A tali ritagli di vedute potrebbe corrispondere un altro carattere dell’immobilità, ovvero la decorazione. Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, ci lascia a fine Quattrocento un Sant’Ambrogio in cattedra tra i Santi Gervaso, Satiro, Marcellina e Protaso, conservato alla Certosa di Pavia, nel quale al dorato trono centrale fanno pendant, sul medesimo fondo nero, due impannate diversamente aperte su uguale celestrino, con i vetri e le parti sovrastanti rese tutte con cerchi dorati e cornice rossa.
Qui la finestra non apre ad alcun esterno naturalistico, ma diviene elemento del parallelismo caro alla visione e della decorazione preziosa propria all’interno che avvolge il santo principale come cesellato da un orafo.
Dal punto di vista letterario alla pausa descrittiva si abbina lo svolazzo di stile. Sandro Botticelli, nel Ritratto di Giuliano de’ Medici, pone la parte retrostante del capo, con chioma nera, ricciuta e sinuosa, contro il cielo celeste, sovrapponendola alle battute della finestra ed anche alla spalla di velluto rosso.
L’interno ora nuovaiorchese di Veermer contiene la conversazione tra una ragazza sorridente vista di fronte e il rosso soldato, posto di schiena, che cela la sua espressione presumibilmente arguta e fabulatoria: il gran cappello nero, che domina il centro sinistra alto del dipinto, facendo ala s’interseca con un angolo della vasta carta geografica, mentre la sommità copre il vetro a rettangoli e losanghe della finestra mezzo aperta, sfiora il vano bianco, tagliati in fine dalla tesa inferiore.
La struttura complessa e articolata delle linee intersecate, quasi un altro profilo costiero della carta alla parete, si giova dunque questa volta non tanto della luce quanto degli spigoli degli infissi e della geometria del vetro. La finestra comincia il suo risveglio, seppur ancora sotto forma di linee ben salde nelle mani dell’autore.
Al Tiziano del 1554-56 si deve Il ritratto del doge Francesco Venier, piuttosto smunto e arrossato tra occhi, naso e zigomi; una mano aggronchita sulla stoffa, la destra levata a mezzo, leggermente tremante. Nella striscia di destra un incendio notturno proietta un gran fumo per il cielo della laguna. Un rapporto metaforico, disteso sulla linea della preoccupazione e del pericolo, vincola il responsabile della città all’esterno: per la prima volta scopriamo che fuori, oltre che la natura, può esserci la storia.
Rotta la crosta terrena, il tempo comincia a fluire, sgorga quindi la narrazione. Per esempio la paciosa eppur negli occhi e nella bocca aggrondata Salomè, fredda nei colori, che nel chiuso delle mura domestiche ha decapitato il Battista, nella rappresentazione di Sebastiano del Piombo alla National Gallery, reca la testa su un piatto da portata verso una larga finestra paesistica. Non c’è ancora nessuno, ma si presume ci sarà nell’ostensione che necessariamente reca il fatto dal chiuso del delitto alla trascrizione storica.
Il Seicento degli interni borghesi, ormai gelosamente separati dal fuori, ha molte piccole storie private da raccontare, specie femminili. Lavori domestici, come versare latte da un grosso bricco (Amsterdam), svaghi quali il suonare la spinetta (National Gallery) o posare per un ritratto (Vienna), ragionare su di una lettera con la complicità di una fante (Amsterdam), accadono tutti per forza di luce che fa risplendere cucine, camere, atelier in presenza di una finestra, che diventa anche elemento diretto d’interazione con il movimento del dipinto: la donna del Metropolitan con la destra ne apre una minutamente resa, mentre con l’altra stringe una lucida brocca di metallo brunito; la carta geografica sulla parete di fondo è una seconda finestra sul mondo ormai enormemente ampliato delle esplorazioni oceaniche: fa da natura resa intellettualmente astratta dalla geografia e si contrappone all’interno quotidiano con il profumo dei lunghi viaggi e dell’avventura.
Ancor più attivo il ruolo della finestra ne La fanciulla che legge un libro di Dresda. Allo spettatore, cui Vermeer offre il profilo della protagonista, il vetro smerigliato permette un fantasmatico raddoppio di fronte. Dalla semplice interazione la finestra partecipa alla narrazione: con il suo rettangolo dorato sgocciola la luce in tutto l’interno – tendaggio, vesti e parete, natura morta sul tappeto – permettendo alla fanciulla di leggere e contemporaneamente le fa da specchio.
Nel triangolo tra il capo reclino e lo sguardo concentrato, la lettera in basso tra le mani, e risalendo, il riflesso nel vetro, vengono a galla molte suggestioni. Un’intera tradizione letteraria ci forza a pensare ad una lettera d’amore (ricevuta ,e non scritta e riletta nel momento fermato, come è chiaro dalla postura psicologica). Dalla carta già consumata in buona parte con la lettura intenta, parte uno stimolo verso mente e cuore della ragazza che si effondono poi come leggeri suffumigi, e che appannano il vetro.
La finestra torna immobile, anzi spenta e inerte, quando resta solo se stessa o retaggio della tradizione. Ovvero quando deve stare nel dipinto o perché c’era nei dipinti passati o viceversa perché vi si trova effettivamente nella realtà. Per dire Giuseppe De Nittis, affermato artista a Parigi, si ritrae discosto e poggiato a una finestra, lasciando che l’ospite entri con lo sguardo in casa propria fino, in prospettiva, alla finestra finale rischiarante un confortevole salottino. O Munch, ampio utilizzatore del modulo in ogni variante (tra cui un bacio blu alla finestra che mostra di sotto gli amanti e nel contempo li cela con la tenda), certo più inquieto ma con una finestra che è soltanto una finestra. Laddove quello del 1940 mostra in facile simbolismo se stesso anziano accanto ad un esterno innevato.
“- Ma com’è, signor Rail, com’è andare veloci? – […] – Non si può raccontare, non è possibile… bisogna provare… è un po’ come se il mondo vi girasse attorno vorticosamente… in continuazione… ecco è un po’ come se… se voi provate a girare su voi stessi, così, girate più veloci che potete tenendo gli occhi aperti… così…” (Baricco)
A fronte della nuova e sconvolgente visione della bestia umana in corsa che dispiega e spappola il paesaggio, il finestrino può darsi semplicemente come un elemento presente ed indifferente del vagone: conta più l’umanità in viaggio (Daumier) o l’atmosfera notturna della donna che legge e non osserva lo sfondo che pure Hopper classicamente mette a disposizione. Anche quest’ultimo re delle finestre, sul quale torneremo più avanti, a volte mette finestre che sono soltanto doverosa e ignorata architettura.
Imprevedibilmente però l’essenza bruta della finestra, quando sfruttata, si anima a vita narrativa. Hogarth dipinge Mariage à la mode (scena V), dove al centro stanno la moglie in deliquio e il marito ferito, mentre alla loro sinistra irrompono dalla porta alcuni armati e a destra se la batte dalla finestra l’amante feritore.
“Passando da un vicolo dietro alla Rue Morgue l’attenzione della bestia fu attirata dalla luce che usciva dalla finestra aperta della camera di madame L’ Espanaye, al quarto piano della sua casa. Correndo verso lo stabile, vide la corda del parafulmine, vi si arrampicò con un’agilità inconcepibile, afferrò la persiana che era spinta completamente verso il muro e tenendosi a quella si lanciò direttamente sulla spalliera del letto.” (Poe)
Il fraudolento uso della finestra da parte di ladri, amanti e assassini, la riporta però alla sua funzione di transito. Molti dei dipinti già citati, per esempio quelli di Vermeer, sottolineano l’ovvio e strutturale ruolo di fonte di luce. Dobbiamo quindi individuare un sotto insieme che enfatizza tale tipologia di finestre; e non si può che pensare subito a Caravaggio.
Nel buio anche morale dei contasoldi dentro la stamberga una luce radente e trasversale, come scaturita dal gesto del cercatore, va ad illuminare Matteo e qualche altro seduto alla tavola; non è la polverosa finestra visibile a far da fonte di luce, rischiarata anch’essa come parte del muro. Si presume però che il raggio soprannaturale provenga da un portone o da un’altra finestra fuori quadro: non solo il punto di vista divino che deve stare fuori dalla portata dello sguardo umano, ma il narratore esterno e onnisciente che entra nel cuore dei personaggi, ne detta il futuro raccontando la storia.
La finestra portatrice di luce naturale, che abbiamo visto incidentalmente nella storia pittorica precedente e che continua – gli interni borghesi di Buocher con altissime e strette invetriate senza paesaggio; il biancore di Signac dietro alla ragazza che fa colazione -, ne La vocazione viene messa tra parentesi dalla sua assenza e si apre così il baratro metafisico che strappa l’individuo richiamato dal gretto contesto mondano.
Finestra sull’anima talvolta più che sul reale. La lunga tradizione del naturalismo ha privilegiato la seconda finestra, secondo quello che Wielhelm Worringer chiamò “impulso di empatia condizionato da un felice rapporto di panteistica fiducia tra l’uomo e i fenomeni del mondo esterno”. La finestra resiste persino, quale residuo o reperto, in Picasso: coloristiche, deformate ma non troppo, le nature morte con paesaggio degli anni Venti, presentano bottiglie stravolte, frutta e strumenti musicali in posizioni impossibili con sfondo di finestra aperta. Le tre danzatrici del 1925 esibiscono il movimento invasato dei loro corpi cubisti e primitivi davanti a una portafinestra che dà sul balcone. Di qui in poi, subentrando anche guerra di Spagna e guerra mondiale, i volti diventano dilacerati e ricombinati in smorfie drammatiche, sovraimposte su uno sfondo serrato.
Ma vi è pure l’impulso di astrazione “conseguenza di una grande inquietudine interiore provata dall’uomo di fronte ad essi [i fenomeni]”. Di qui il gesto del cercatore che isola ed eterna, con una lama di luce incide nell’anima.
5.
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
[…]
O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra
ond’eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. […]
Leopardi e quant’altri mai il poeta delle “ampie finestre”. La clausura degli studi e di Recanati abbisognano di tregue fisiche, che se non sono le più impegnative passeggiate, saranno le frequenti soste alle finestre. La solitudine esterna e presto anche domestica conduce al soliloquio ascoltato dalla natura e dal cielo a cui accostarsi per lo meno aprendo un battente. La maggior parte dei Canti dichiara o si deve immaginare con il poeta alla finestra; certo i malinconici notturni lunari, giovanili e femminei nella querela, e sognanti come nel quadro di Füssli. La finestra avvicina il cosmo e permette l’effusione, se non, poiché pur sempre mantiene un lieve schermo, la fusione (a cui più propizio risulta il colle de L’infinito).
Ne Le ricordanze sopra citata si rivolge quasi singolarmente alle stelle dell’Orsa, come amiche ritrovate nell’identico scenario offerto dalla finestra, che diventa quindi una sorta di fisso e confortevole riquadro memoriale. L’ultima strofa, in corrispondenza della prima, introduce una singola fanciulla, Nerina, a dire del collegamento che la distanza decorosa delle finestre poteva permettere con le immagini d’amore. Dalla dominanza del palazzo avito si occhieggia nella casa, nella vita altrui sognando incontri e parole: quando la finestra è spenta all’interno e solo smarginata dalla luce naturale, diventa “deserta” per sineddoche la casa, la vita appare ormai trascorsa e “la rimembranza acerba”.
Attraverso la strada e la finestra sull’aria risale, penetra tra le carte la sirena di Silvia: porgendo quindi orecchio “d’ in su i veroni” al canto della fanciulla del poeta sgorga a sua volta il canto. Molto spesso la suggestione esterna captata, respirata attraverso la finestra, innesca per associazione il ricordo e la riflessione, dando ai versi leopardiani la loro inimitabile scioltezza. Talvolta appare un vero e proprio spionaggio dell’ignota donna sua, come ne La sera del dì di festa, dove dall’altrui finestra “[…] e pei balconi / rara traluce la notturna lampa” (vv. 5-6), a suggerire un morboso sentire del giovane Giacomo, quasi giustificando la trasformazione estrosa e lupesca immaginata da Michele Mari in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti. Altre ancora viene schizzato il presepe di paese, con artigiani vari vecchierelle e monelli in gruppo, figurette rimpicciolite e viste da lontano lungo la piana, una per una, in prospettiva epica; epos del quotidiano e sguardo dell’eroe da esso emarginato e sconfitto.
Il verso cardine di tale iconografia leopardiana viene per interposta figura, quello del passero che canta dall’erma torre: “tu pensoso in disparte il tutto miri”. Sono presenti infatti, ben strette in un unico verso, la separatezza della finestra che induce a fantasticare e ragionare (una specie di endiadi nella poesia del recanatese), e lo sguardo stroboscopico a trecentosessanta gradi sul cielo, gli umani e il paesaggio.
A ribadire la prima visione, separata, fisica e filosofica, i bellissimi versi de La sera del dì di festa: “Tu dormi: io questo ciel che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio / e l’antica natura onnipossente, / che mi fece all’affanno […]”. Ma non sarebbe male concludere sul paesaggio, stilizzato sì secondo tradizione poetica, eppure ben visibile nella dolcezza della campagna e delle colline, come appunto in uno slargato quadro di finestre dei pittori quattro-cinquecenteschi. Magari all’inizio de La quiete dopo la tempesta (vv. 4-7, 19-21), quando appare rinato e fresco come in un dopo diluvio:
Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
[…]
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le valli. Apre i balconi,
apre terrazze e logge la famiglia
6.
Gli uomini, bisogna vederli dall’alto. Spegnevo la luce e mi mettevo alla finestra: essi neppure sospettavano che si potesse osservarli dal disopra. Curano la facciata, qualche volta la parte posteriore, ma tutti i loro effetti son calcolati per spettatori d’un metro e settanta. Chi ha mai riflettuto sulla forma di un cappello duro visto da un sesto piano? Gli uomini dimenticano di difendere spalle e crani con colori vivi e stoffe vistose, non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a ridere: dov’era andato a finire quel famoso «portamento eretto» di cui andavano così orgogliosi: erano spiaccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo rampanti uscivano da sotto le loro spalle.
Sul balcone di un sesto piano: è qui che avrei dovuto passare tutta la vita. Bisogna puntellare le superiorità morali mediante simboli materiali, se no quelle si afflosciano. Ora, di preciso, qual è la mia superiorità sugli uomini? Nient’altro che una superiorità di posizione: io mi sono piazzato al disopra dell’umano che è in me e lo contemplo. Ecco perché mi piacevano le torri di Notre Dame, le piattaforme della torre Eiffel, il Sacro Cuore, il mio sesto piano in via Delambre. Sono simboli eccellenti.
Così ragiona Erostrato nell’omonimo racconto di Sartre prima di avere l’idea di sparare sugli uomini. Sarà certo l’alta finestra, punto di minimizzazione delle figurine sottostanti, a far da mezzo e incitamento; spesso tuttavia essa parallelamente porta con sé l’esclusione forzata da inibizione e l’invidia. Alla finestra stanno poeti, prigionieri, malati e paralitici: sotto brulica la vita infima e finta, ma è pur sempre vita. Sarà un caso che Leopardi dallo stimolo esterno passi alle riflessioni sul male e soprattutto sulla giovinezza che sfugge o è sfuggita? Il privilegio algido della finestra può mutare in sofferenza e rabbia.
Quando vedo una coppia di ragazzi
e penso che lui se la scopa e che lei
prende la pillola o si mette il diaframma,
so che questo è il paradiso
che ogni vecchio ha sognato per tutta la vita
Così l’io poetante in High Windows di Peter Larkin che, dopo aver mostrato in apertura la senile invidia per la nuova facilità sessuale, continua mettendosi nei panni delle generazioni precedenti alla propria, anch’esse ammirative e leggermente astiose, per la libertà avanzata. La chiusa è fulminea ed enigmatica:
[…] E all’improvviso
non una parola viene, ma il pensiero di finestre alte:
il vetro che assorbe il sole,
e, al di là, l’aria azzurra e profonda, che non mostra
nulla, che non è da nessuna parte, che non ha fine.
La finestra che presumibilmente ha consentito di spiare a distanza la giovane coppia all’improvviso soltanto assume e rilascia la luce del sole, acceca facendosi impenetrabile. Oppure affaccia su un’atmosfera smaterializzata, che libera dai passanti e dalle passioni, verso un bianco e azzurro di “quasi misticismo”, capace di annullare ogni determinazione storica portatrice di sofferenza verso un “nirvana sereno e nichilista” (Siti).
[2 – continua]