Dispotismo dell’Attuale, sospesi nell’attesa di definizione, affanno planetario, quanto dura un’emergenza? Un anno, cinque, venti? Quando potremo finalmente sciogliere il ghiaccio e vedere come siamo diventati?
Intanto questo lungo tempo morto rivela il cadavere d’un occidente in avanzato stato di decomposizione; gli abiti che lo vestivano a festa irrimediabilmente caduti, tutti insieme e contemporaneamente, di fronte ai nostri occhi, eccola qua, nudità raccapricciante.
Tra le molteplici epifanie messe a nudo una mi ha colpito particolarmente: la facilità – attenzione, non la necessità, non l’opportunità – con la quale è stato assecondato il passaggio dalla presenza incarnata alla distanza virtualizzata. In ogni ambito, scuola compresa. Un adeguamento così immediato, diffusamente accolto senza troppe resistenze, da non poter essere sbrigativamente archiviato come mero atto condiviso di civismo responsabile; c’è nel fondo una questione che interroga antropologicamente la coscienza collettiva che siamo.
Un’inquietudine questa che nutro da anni, molto ben alimentata quindi di letture e vissuti: e se fosse avvenuta, qui come altrove, ostinato e perseverante lavorio culturale, la rimozione dello spazio pubblico?
Non mi riferisco tanto a quello esterno, che semmai è un riverbero, ma a quello interno.
Quanto spazio pubblico c’è dentro di noi? Quanta disponibilità ad accogliere l’Altro nella sua peculiarità e complessità?
E poi, che cosa rappresenta questo Altro per noi? Gli riconosciamo un ruolo costitutivo della nostra essenza o è solo un accessorio completamente estraneo al nostro destino? Consideriamo la relazione con l’Altro condizione imprescindibile per lo sviluppo armonico della persona umana o lo percepiamo solo nei termini mercantilistici della convenienza?
È un’astratta divagazione, apparentemente intangibile, che tuttavia investe nel concreto il senso profondo della scuola pubblica. Lo investe nel duplice significato di investire, lo corona o lo distrugge, perché il presupposto fondante della scuola pubblica è altamente politico e sociale: la realizzazione individuale non può prescindere da processi di conoscenza, convivenza e emancipazione collettivi.
Pubblica non significa solamente gratuita ma indica uno spazio dove si incontrano le pluralità eterogenee di un medesimo paese, pluralità intergenerazionali che non si scelgono, un luogo di mediazione del conflitto dove si impara a convivere con l’Altro, dentro e fuori di noi, nella sua peculiarità e complessità.
Pubblica racchiude in sé il principio costituzionale della giustizia sociale, un progetto ambizioso di scuola democratica.
Tuttavia, se è avvenuta tale irrimediabile rimozione antropologica, se questo tipo umano dell’Attuale non avverte più alcuna urgenza ontologica di rappresentarsi in seno a un’alterità storicamente e culturalmente definita, la scuola pubblica ne è investita nel significato distruttivo del termine, crolla l’architettura simbolica che la sosteneva.
Se la dimensione politica e sociale non è più interiorizzata come fondamento della persona umana, per quale motivo dovremmo difendere questa malandata scuola pubblica?
Se ci percepiamo esistenti solo come individui, se riteniamo che la nostra fioritura sia completamente indifferente al terreno socioculturale nel quale siamo seminati, allora è comprensibile e addirittura auspicabile che ogni famiglia scelga la scuola ideale per i propri figli. Pluralismo educativo, lo chiamano. La direzione è questa e – dopo aver rotto il ghiaccio e visto con chiarezza quello che siamo diventati – è pure quella giusta.