A Lior Rajchenberg
“L’ombra prepara lo sguardo alla luce” (Giordano Bruno)
Caro Enrico,
in questi ultimi mesi sono tornato spesso a rileggere Verso la foce di Gianni Celati. Nel primo dei quattro racconti d’osservazione (così li definisce lo stesso Celati) che compongono il libro, seguiamo i passi del narratore attraverso le campagne cremonesi, nei giorni che seguono lo scoppio della centrale nucleare di Černobyl’. C’è un tema che viene introdotto in questo primo racconto e che viene ripreso e rielaborato anche negli altri e cioè che le informazioni, quando sono trasmesse come dati bruti (e forse la forma più bruta di quei dati, proprio perché la più astratta, sono i numeri, e di numeri, in questi ultimi mesi, ne stiamo dando parecchi) sono mute e “ognuno colma il mutismo delle informazioni con le fantasie che gli vengono in mente”. Fantasie come quella del fungo atomico che funzionerebbe da ombrello così da essere “l’unico posto al sicuro dalle ceneri radioattive che il vento sparpaglia”.
Immagino che anche a te sarà successo di ascoltare le più diverse fantasie sulla pandemia del Covid-19, come quella dell’uso eccessivo della mascherina che fa venire i tumori o la mia preferita, quella delle nanomacchine iniettate con i vaccini e attivate con la rete 5G per il controllo a distanza della popolazione (che mi sembra una variante più elaborata del vecchio e fedele guinzaglio per i cani; sarà forse una fantasia tecnosadomasochista?). Molte di queste fantasie s’intrecciano tra loro e danno vita a fantasie più complesse (anche se si tratta di una complessità apparente, vorrei dire: superficiale) come le teorie complottiste e negazioniste.
All’inizio tutte queste fantasie mi facevano venire il malumore, ma è stato rileggendo Verso la foce che il malumore se n’è andato e ha lasciato spazio alla meraviglia. Meraviglia che è nata da questa domanda: non sono forse queste fantasie un modo per dare un senso a delle informazioni che non dicono nulla alla nostra immaginazione?
Ma è difficile dare un senso con la fantasia a tutte le informazioni che ci circondano e si accumulano e che a volte si contraddicono; ci si trova a correre dietro alle informazioni più recenti, una “paccottiglia che appena usata non serve più: non può diventare memoria”, scrive Celati; e se non ci si tiene aggiornati, ci può capitare, come al narratore di Verso la foce, di trovarsi a parlare con qualcuno e sentirsi sperduti “come se fossi rimasto in ritardo sul corso della storia, mi è venuta una piccola vertigine per vuoto d’opinioni (come essere d’un tratto un pallone sgonfiato)”. E così ognuno di noi, come il narratore di Verso la foce, deve confrontarsi con questa contraddizione: le informazioni tentano incessantemente di definire qualcosa che continuamente cambia.
Le teorie complottiste sono una risposta a questa contraddizione, risposta che può essere riassunta in questo modo: negare la stessa contraddizione. E come fanno a negarla? Facendo delle informazioni, a favore o no della teoria complottista, parte della teoria complottista. Ovvero, le prove che negano il complotto, sono prove a favore del complotto. Un esempio: gli scienziati che confutano, con studi e numerose prove scientifiche, che la rete 5G ha una qualche correlazione sullo sviluppo e la diffusione del Covid-19, sono scienziati che sono a favore del Nuovo Ordine Mondiale (un’oligarchia segreta che cerca di prendere il controllo del mondo).
Si tratta di teorie che non hanno un carattere scientifico, perché non sono “suscettibili”, come scrive Karl Popper, “di essere smontate dai fatti dell’esperienza”. Non c’è spazio all’errore, alla prova, e cioè all’esperienza. Tutto le giustifica, niente le nega. Basano la loro validità sulle informazioni, informazioni che data la loro costante e rapida proliferazione a cui segue un consumo altrettanto costante e rapido, non hanno il tempo di dar vita a nuove fantasie che possano poi ripetersi tra le persone e, ripetendosi, variare. Il sentito dire ha lasciato il posto all’ovvietà ed è proprio sull’ovvietà delle informazioni che le teorie complottiste mettono radici.
Meravigliosa contraddizione (un’altra): un dubitare che afferma lo stesso dubbio; un dubitare sul posto (come correndo sul tapis roulant) che non porta da nessuna parte, perché l’arrivo corrisponde al punto di partenza. Quando tutto è ovvio, non c’è più ragione di farsi delle domande, di mettere in dubbio se stessi e ciò che ci circonda; non c’è ragione di guardarsi attorno e di avvicinarsi o allontanarsi per cambiare il nostro punto di vista sulle cose. L’ovvietà allora, non solo ci immobilizza, ci rende anche incapaci di vedere. Quando tutto è ovvio, privo di equivoci, non ha più bisogno di essere visto: come un quadro appeso sulla parete di un corridoio, che con il tempo non distinguiamo più dalla parete stessa, finché un bel giorno, aiutato dalla forza di gravità e da un chiodo fissato male, cade a terra. L’ovvietà ci rende ciechi e immobili, e quando sentiamo il ronzare di un dubbio, prendiamo il primo giornale che abbiamo a disposizione e iniziamo a menarlo a destra e a sinistra cercando di ammazzarlo come una mosca.
Ma se invece di ucciderla quella mosca, la lasciassimo volare? E se poi ci fossimo sbagliati, se non si trattasse di una mosca, ma di una farfalla, cosa faremmo? Forse lasceremmo cadere a terra il giornale e inizieremmo a seguirla per le stanze di casa, fino ad aprirgli una finestra e liberarla. Magari ci verrebbe anche voglia di seguirla, almeno per un po’, là fuori, per il mondo. Sono le domande, i dubbi, che ci mettono in movimento, mentre le risposte ci fissano da qualche parte. “Mi vengono in mente quelli che sistemano tutto con la loro saputezza”, scrive Celati, “credono solo a ciò che hanno letto nei loro libri e giornali, e trattano tutto questo mondo con sufficienza perché odiano sentirsi smarriti, esposti alle casualità delle apparenze. Se hai la sensazione di capire tutto, passa la voglia di osservare”.
In un altro libro di Celati, Narratori delle pianure, c’è un racconto intitolato Come fa il mondo ad andare avanti, dove Celati, esplorando attraverso dei personaggi le diverse disposizioni che abbiamo nei confronti del dubbio, torna a parlare di come cerchiamo di dare un senso alle informazioni che riceviamo.
Il protagonista del racconto è un vecchio tipografo che ha deciso di scrivere un memoriale; “il suo memoriale avrebbe dovuto trattare di questo argomento: come fa il mondo ad andare avanti”. Questo argomento, potremmo chiamarlo anche problema o domanda, porta il vecchio a spostarsi continuamente per la città in sella al suo motorino e leggere tutte le scritte che vede. La lettura, per lui, non è solo piacere, è anche un modo per capire com’è che fa il mondo ad andare avanti; ma un giorno scopre che ci sono troppe parole da leggere: vede sempre più parole stampate, sempre più manifesti, scritte pubblicitarie ovunque sposti gli occhi. Così gli viene in mente un’altra domanda: perché le parole in giro aumentano sempre? Inizia allora a parlare con un grossista di carni, con studenti e professori, per cercare di capire cosa sta succedendo. Parlandone con la nipote, anche lei s’interessa al problema e gli suggerisce di parlare con il suo professore di scienze. I tre si ritrovano allora a cercare insieme una risposta, ma invece di una risposta, scoprono altre domande, domande che li portano a leggere dei libri e fare degli esperimenti e a farsi altre domande ancora e “alla fine capiscono di non capire niente di quello che succede”.
Se il vecchio non avesse dei dubbi e delle domande, non salirebbe sul motorino per andare in giro a leggere le scritte e parlare con le persone. Il vecchio ignora come fa il mondo ad andare avanti, quest’ignoranza lo porta allora a cercare di darsi delle risposte e questo cercare lo porta ad errare e a commettere degli errori. “La Curiosità” scrive Giambattista Vico, “proprietà connaturale dell’uomo, figliuola dell’ignoranza, che partorisce la Scienza, all’aprire, che fa della nostra mente la Meraviglia, porta questo costume; ch’ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio, o stella di mezzo dì, subito domanda, che tal cosa voglia dire, o significare”.
Dopo aver scritto una lettera al sindaco, dove i tre raccontano dei loro fallimenti, l’assessore della cultura organizza una conferenza dove viene invitato un conferenziere “che va in giro a far conferenze su tutto”. Rapidamente, davanti al pubblico, il conferenziere risolve il problema di come fa il mondo ad andare avanti e, conclusa la conferenza, “il pubblico applaude contentissimo di sentire che là fuori c’è un mondo così facile da spiegare che uno se la può cavare in mezz’ora”. Poi tutti escono dalla sala e tornano alla loro vita, dimenticando immediatamente conferenza e conferenziere, e “l’indomani nessuno ricorda neanche più il titolo della conferenza”.
Perché dimenticare immediatamente? Forse perchè nessuno del pubblico è salito su un motorino ed è andato in giro a fare delle domande, ma è rimasto seduto su una poltrona ad ascoltare un conferenziere che gli diceva com’è che funziona il mondo. Un conferenziere, un politico, o uno dei tanti grafomani che hanno la penna sempre in mano e sono pronti a scrivere come sono le cose; cambia la maschera, ma la presunzione è la stessa, così come è la stessa l’indolenza di chi cambia canale alla televisione o di chi, sfogliando un giornale, ha come l’impressione che se non fosse per i risultati calcistici, penserebbe che sono anni che sta leggendo lo stesso giornale.
Le informazioni si accumulano e si dimenticano, si consumano e si defecano; non è attraverso il loro accumulo che possiamo conoscere il mondo, ma è attraverso l’immaginazione, la fantasia. “Nihil potest homo intelligere sine phantasmata”. Non si può conoscere nulla senza fantasmi. C’è una differenza tra le fantasie che ascoltava il narratore di Celati e quelle che ho ascoltato io in questi mesi: queste ultime, infatti, sono fantasie che non sopportano alcun dialogo, che nascono dalla certezza e non dall’ignoranza; più che fantasie, sono ovvietà; ovvietà che vengono dalla poltrona e non da un giro in motorino; non nascono dal dialogo con un fantasma, ma, continuando la stessa metafora, fanno del fantasma la scusa per darsi a lunghi monologhi che, utilizzando la massa di dati e informazioni a disposizione, sorreggono le nostre idee di come va il mondo (e le pandemie): il fantasma è lì che ci ascolta in silenzio mentre parliamo da soli e ci diamo ragione.
Ma cosa sono i fantasmi? È stato rileggendo il racconto di Kafka, Esseri infelici, che ho trovato una risposta a questa mia domanda.
Una sera, il protagonista del racconto incontra nel suo appartamento un fantasma. Dopo un breve dialogo, l’uomo decide di uscire e sulle scale incontra l’inquilino di un altro appartamento a cui racconta del suo incontro. A spaventarlo, dirà, non è tanto l’apparire del fantasma, “quella è la paura secondaria. Il vero spavento è quello per l’origine dell’apparizione.” E quando l’inquilino gli dice allora di domandare al fantasma le ragioni del suo apparire, il protagonista risponde: “Si vede chiaramente che lei non ha ancora mai parlato con un fantasma. Non si riesce mai ad avere da loro un’informazione chiara. È un tira e molla. Questi fantasmi sembra che abbiano più dubbi sulla loro esistenza di noi, il che, tra l’altro, non sorprende data la loro precarietà.”
Il fantasma è una presenza incerta, precaria, e ciò che di lui spaventa, come ci fa scoprire Kafka, è la ragione del suo apparire, perché è proprio questa ragione che mette in discussione la nostra realtà; come ha scritto Massimo Rizzante: “Una realtà popolata da fantasmi è una realtà analogica, poetica, metamorfica”.
Nell’immaginario collettivo il fantasma rappresenta l’irrisolto; il suo sostare nel nostro mondo viene dalla sua impossibilità di risolvere ciò che è stato lasciato incompiuto durante la vita. Come in molti film, opere di teatro o romanzi, la risoluzione permette al fantasma di svanire, cioè di passare dal suo stato di precarietà (tra essere vivo ed essere morto), all’essere, finalmente, morto. Senza però la presenza di qualcuno con cui dialogare, i fantasmi non sanno chi o cosa sono, hanno bisogno, per trovare la pace con il mondo e con se stessi, di dialogare, in qualche modo, con i vivi. E ci provano in tutti i modi, come il fantasma del Re che appare fuori dal castello di Elsinore, armato di tutto punto, e si mette a camminare con passo lento e maestoso davanti ai soldati di guardia, prima ancora di incontrare il figlio e raccontargli delle sue sventure; o come il fantasma di Marley, quando appare a Scrooge, il suo vecchio socio in affari, nel racconto di Dickens, Canto di Natale. Cosa vogliono questi fantasmi? Dialogare. E perché vogliono dialogare? Perché vogliono trovare la pace. Ma per trovare la pace, devono risolvere ciò che è rimasto incompiuto e possono farlo solo attraverso l’aiuto dell’altro. E chi è l’altro? L’altro siamo noi.
Le nostre fantasie, come i fantasmi, hanno bisogno di dialogare, di essere raccontate e ascoltate, perché è attraverso il dialogo che tornano ad essere un elemento costitutivo della realtà e non un suo decoro. Così come anche le contraddizioni, che attraverso il dialogo non sono più negate, ma affermate e soltanto così rese partecipi della realtà. “La parola fantasia (phantasia)” scrive Aristotele nel De Anima, “deriva dalla parola luce (pháos) dato che non è possibile vedere senza luce”. Non è possibile dialogare con i fantasmi e con le nostre fantasie, se non ci sono delle ombre, dei dubbi. Se tutto è certo, in piena luce, le fantasie, come i fantasmi, non si vedono più.
Quando c’è troppa luce, non si vede più nulla. E quando ci sono troppe informazioni, uno smette di farsi delle domande: tutto è chiaro, così chiaro da essere incomprensibile. Mi torna in mente il romanzo Cecità di Jose Saramago. Romanzo che inizia con una macchina ferma ad un semaforo ed un uomo, al volante, che è diventato improvvisamente cieco. “Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato mentre lo aiutavano ad uscire dalla macchina e le lacrime, sgorgando, resero più brillanti quegli occhi che lui diceva morti”. In poco tempo la cecità inizia a diffondersi tra le persone: è una pandemia.
Nonostante le misure di sicurezza, la cecità si diffonde: ci sono incidenti, morti, violenze di tutti i tipi e poi un giorno, senza nessuna apparente ragione, le persone, poco a poco, tornano a vedere. Al termine del romanzo c’è un ultimo dialogo tra due dei protagonisti: il medico e sua moglie. Il medico non sa cosa rispondere alla moglie che gli chiede perché siano diventati ciechi; lei gli dice allora quello che ha pensato: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”
Se non riusciamo più a dialogare con i fantasmi, con le nostre fantasie, è perché c’è troppa luce, ci sono troppe informazioni, troppe parole, troppe teorie complottiste (e non) che eliminano le contraddizioni, schiacciano i dubbi con il giornale, ricacciano i fantasmi negli armadi, lasciandoli appesi sulle stampelle. Forse i divani sono diventati troppo comodi o forse siamo affetti da una cecità bianco-lattiginosa, come quella descritta da Saramago: siamo ciechi che, pur vedendo, non vedono. “C’è sempre il vuoto centrale dell’anima da arginare”, scrive Celati, “per quello si seguono immagini viste o sognate, per raccontarle ad altri e respirare un po’ meglio”. Respirare un po’ meglio raccontando le proprie fantasie, come il personaggio di Kafka, che decide poi di non uscire, ma di tornare nell’appartamento sperando che il fantasma sia ancora lì.
Nel libro di Massimo Rizzante, Un dialogo infinito, Saramago, riprendendo un pensiero dello stesso Rizzante, dice: “Rivedere il mondo, rivedere l’uomo, significa nominarli di nuovo”. Questa frase mi ha fatto venire in mente di quando ero in Australia, accampato da qualche parte nel Queensland, vicino all’oceano. Seduto sulla spiaggia, una donna mi racconta che per gli aborigeni il mondo è stato creato dai canti di creature leggendarie, canti che contengono il nome di tutte le cose, e così loro, gli aborigeni, sanno che per non far svanire il mondo, devono tornare, di tanto in tanto, a cantare.
“Anche le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi” (Celati).