Ci fermammo davanti alla vetrina di un negozio. Un posto che vendeva croci messe insieme con materiali di scarto: mozziconi di matite, pile consumate, gusci di noce, polvere di marmo. C’erano piercing a forma di croce e croci espressioniste, insanguinate, con il volto del Cristo orrendamente sfigurato dal dolore. JD mi confessò di sognare la croce quasi ogni notte. Si profilava su uno sfondo cupo, appena tratteggiata, e mentre la guardava provava il desiderio di addentare, strappare e ingoiare un pezzo di eternità. Detto questo, si lanciò in mezzo alla strada e costrinse un taxi a una brusca frenata.
PENE DI PORFIRIONE
In collina le siepi di sambuco scorrevano al bordo della strada chiazzate da larghi corimbi color avorio. Dai finestrini del taxi filtravano i suoni di un universo vegetale (lo stormire, il cinguettare), odori di terriccio e linfa fresca. Superammo i tralicci delle antenne radio e le ville dei ragazzi della new economy. Un bosco di carpini, una lunga costruzione senza finestre. Seduta accanto a JD mi sentivo senza peso, un corpo lieve che fluttuava.
Coraggio, sospirai, adesso puoi dirlo alla tua Vera.
Hai un fazzoletto?
Tolsi dal kit un kleenex multistrato, lo spiegai e lo porsi a JD, premurosa e amorevole. Avrei voluto mettermi carponi sul sedile posteriore e succhiargli il lobo di un orecchio, comunicargli la mia ebbrezza, il palpito erotico che mi infiammava.
Quale evento? insistetti.
JD si soffiò il naso e mi restituì il fazzoletto.
Mai sentito parlare dei garden party di Contessa?
Mi sforzai di ricordare. Ero quasi certa di avere indossato un completo da cameriera Contessa a un provino pubblicitario, due o tre anni prima, un abito di latex con i bordi ricamati in pizzo sangallo. Copriva per metà il sedere e per un terzo il seno, un capo davvero alternativo solo come antidoto a un eccesso di anticonformismo. In quella occasione mi ero fatta l’idea che il mondo naturale fosse estraneo al gusto estetico di Contessa, che le sue passerelle si tenessero in una isola sintetica, in una oasi di poliestere con forti umori feticisti. Un’amica che frequentava Les Scandaleuses me lo confermò qualche settimana dopo.Contessa, disse, nascondeva perversioni innominabili. Da come ne parlò sembrava averle sperimentate di persona, senza piacere ma anche senza disagio.
Abbandonammo la strada principale. Il taxi si inerpicò su un pendio falciato, collidendo con il blu della notte. Per un istante vidi le stelle e allora ripensai a John Hoffman nella gola del vulcano, chiedendomi come potesse essere il mio suicidio e quello della gente che conoscevo. Senza dubbio la preferenza del mezzo denotava uno stile, una scelta di gusto, forse persino un disegno estetico. Lava, trementina, overdose di peyote. Ma era ancora possibile essere originali in un addio con spargimento di sangue?
Dimmi della mano, JD.
Lui schioccò la lingua e se la passò sulle labbra.
L’hai vista?
No, ammise, l’azionista di maggioranza la conserva come una reliquia.
Da quanto ricordavo, i fatti erano andati in questo modo. Nell’anno del boom della pornografia online, mentre la casa di moda di Contessa contabilizzava il fatturato più alto della sua storia, il consiglio di amministrazione si riunì a porte chiuse per discutere un’alternativa finanziabile alla bancarotta fraudolenta. Nell’immediato, le difficoltà dell’azienda risiedevano in un problema di flussi di cassa. Più nello specifico, si trattava del paradosso psico-finanziario di una fragile personalità giuridica. La crisi durò circa ventisette minuti e fu gestita applicando alla lettera le direttive internazionali sulla trasparenza zero. Le ragioni documentate del tracollo, prima ancora di essere analizzate, finirono in una cassetta di sicurezza localizzata approssimativamente tra l’isola Jersey e le Barbados. Questo lasciò campo libero alle voci di corridoio, alle ipotesi mediatiche e alle dichiarazioni di soggetti informati sui fatti. El Pais raccontò di un boicottaggio degli investimenti di Contessa in Malesia e Bangladesh, a cui andava sommata una perdita ingente in obbligazioni spazzatura. Il Sun, nella pagina che seguiva il topless del giorno, sostenne la tesi del coinvolgimento nella bancarotta di una holding che controllava la fetta più redditizia del mercato mondiale della pellicceria. Il danno di immagine fu significativo, perché Contessa si dichiarava un’animalista militante. All’ufficio legale della maison non restò che querelare per diffamazione il quotidiano inglese, dimostrando ai mercati autorevolezza nel gestire la crisi e senso di responsabilità nei confronti della propria missione.
Ma le cose non migliorarono.
Così, quando al suono di parole come “sexual roleplaying” o “french maid uniform” l’umore delle borse si guastò promettendo perdite insostenibili, Contessa bussò alle porte di una clinica di Konolfingen, nella Svizzera tedesca. L’istituto terapeutico, come lo definì l’ufficio stampa della casa di moda nei sui comunicati, era immerso in una vegetazione lussureggiante. L’architettura dell’edificio aveva qualità mimetiche e peculiarità labirintiche, al punto che lo spostamento dei pazienti richiedeva l’assistenza di un infermiere con il filo d’Arianna. A parte questo, la clinica aveva una qualità insostituibile. Era il primo ospedale del Vecchio Continente con sale operatorie allestite per la diretta televisiva sui canali finanziari. In questo clima favorevole Contessa si fece amputare la mano sinistra. Un collezionista coreano acquistò l’arto e lo dichiarò patrimonio societario. La bad company, con il suo carico di debiti, affondò come Atlantide. La mossa spiazzò gli addetti ai lavori ed esaltò le borse. Del fatto si occuparono i quotidiani economici, un ministro nel question time durante la settimana della moda, la Santa Sede e i mercati azionari di mezzo mondo. L’arto amputato diventò argomento di dibattito casalingo e il feticismo dilagò in strati sempre più ampi della popolazione. I gruppi di discussione in rete restarono attivi per mesi. Le vendite di abbigliamento e accessori Contessa quintuplicarono.
Quel come si chiama, dissi, scuotendo la testa, quell’imprenditore coreano non ha mai nascosto le sue perversioni. Colleziona cadaveri, lo sapevi? Lo puoi incontrare al Taj Mahal Intercontinental Hotel di Bombay almeno un paio di volte l’anno.
Un uomo macabro, ammise JD. Sono d’accordo. Ma la perversione è nella natura del sistema produttivo avanzato. Come direbbe Elvis, il libero mercato cospira con lo Shylock che è dentro di noi.
Le luci della pianura balenavano tra il fogliame, disegnando strade e quartieri dove la vita tubava e si riproduceva.
Che ne ha fatto della mano? domandai.
La conserva nel suo riad di Marrakech, in una teca refrigerata. Naturalmente vive con l’incubo che salti la corrente. La mano di Contessa è anche il logo dell’azienda. Sarebbe un peccato doverla buttare.
La stazione radio sintonizzata male trasmetteva musica d’ambiente che si accompagnava ai rivestimenti della macchina e all’oscillazione dei piani. Scariche di interferenza elettrostatica. Il taxi cambiò ancora una volta direzione, zigzagando in modo vivace.
Di punto in bianco avanzavamo nel traffico. Me ne accorgevo malgrado fossi accovacciata nella parte inferiore dello schienale. Assistevo alla giaculatoria della notte, al muto spettacolo delle ombre e del vento. Grosse berline erano parcheggiate sotto rami di tiglio e pergolati di glicine. Il taxi procedeva a passo d’uomo. Ammirai in slow-motion la fisicità taurina di un ragazzo della sicurezza, l’espressione minacciosa che rispondeva a una funzione operativa. Non è facile mettere a fuoco gli uomini di potere, pensai. Più la serietà che manifestano è immotivata, più il sistema in cui operano sembra riempirla di significato.
Fermiamoci, ordinò JD.
Qui? chiese il tassista.
Davanti alle scale.
Raccolsi il telefono illuminato che era sgusciato dalla borsa. Aveva l’aspetto di un’apparizione miracolosa, un lampo di fantascienza su un sedile di cuoio medievale. JD era già uscito dall’auto e mi affrettai a seguirlo. Registrai l’intermittenza stressata delle luci degli stop, il tonfo di bagagliai che si chiudevano. L’aria si addensava sopra i cofani. Salimmo i gradini che conducevano a una facciata trapuntata di oblò di tek sbiancato. Cercai il baricentro della bio-architettura, trovando almeno una dozzina di candidati possibili. Notai che il tetto teneva conto più della forza dell’immaginazione che di quella gravitazionale.
Infine vidi l’edificio per quello che era. Una villa a forma di arca arenata. Un transatlantico, per l’esattezza, almeno a giudicare dalle dimensioni dell’atrio, uno spazio vuoto e inutilmente vasto che si apriva su un giardino. Isolavo nel mio petto un senso di inquietudine, l’effetto di una forza respingente che aveva a che fare con le alte sfere della premonizione.
Ed ecco il giardino con le sue querce e le sue straordinarie varietà di abiti e gesti. Le cupole dei gazebo, i bracieri e i loro fumi, ceste traboccanti di fronzoli, un brulichio di esseri stonati, non tutti necessariamente appartenenti al genere umano. Fantasmagorie e vibrazioni. In sottofondo, il canto d’amore delle megattere a sostituire il DJ set.
Guardati in giro, dissi a JD. Non ti sembra strano? Tutta questa enfasi, questa stravaganza, tutta questa iperbole visiva, a che cosa servono? Che fine ha fatto l’erotismo? Non manca a nessuno? Che cosa ci stiamo perdendo tutti quanti? Dov’è lo scambio di dare e ricevere tipico di un’arte? Che fine ha fatto la bellezza?
Che c’entra adesso la bellezza? protestò JD. Questi posti sono una benedizione per chi cerca sesso e approvazione sociale.
Accennai a tornare indietro, ma lui mi trattenne. Niente panico, mi dissi. Di JD ti puoi fidare.
Ti fidi di me, Vera?
Sì, che domanda, ammisi intimorita.
Al punto da riconoscere che i messaggi in segreteria telefonica non erano ventidue? Che nelle tue lenzuola non si infilano broker né amanti occasionali?
Quella sua prescienza era erotica quanto una costola rotta o il gonfiore addominale.
Questo non mi piace, dissi.
Lacrime, sola rugiada della notte.
Non mi piace, esclamai e tentai inutilmente di divincolarmi.
JD mi piegò il braccio. La mucosa della bocca spalancata si riempì di sfumature liquide. Lui pretese che confessassi.
Ne ho ricevuti due, gridai. Due, due!
Due messaggi, Vera, non ventidue!
Smisi di opporre resistenza e fui trascinata nel giardino. Mi sentivo sola e spaventata.
Sola e spaventata, ripeté JD. Ma guardati, come puoi permetterti di non essere mondana?
La vecchia ferita al piede si fece risentire. Planai su un fondo cedevole, tra due ali di folla. JD cominciava ad accusare la fatica del trascinamento. Lo capivo dalla riduzione della forza di spinta. Dopo qualche metro si fermò e riprese fiato.
Finalmente potei flettere il braccio e ne fui sollevata. Ma non durò a lungo. Un molestatore mi spinse a cambiare posizione. Le labbra alitavano la profumazione di un gloss fortemente pigmentato, il sogghigno gli scopriva i denti e le loro costellazioni di riflessi. Anatomia vistosa, incombente. Make-up elettrico. Sembrava vittima di un dolore sordo. Mi chiesi: volto o maschera? E pensai: forse un’espressione di lutto per la scomparsa dell’era punk.
I suoni che producevano le mani del molestatore mi piacquero ancora meno della sua faccia. Mi imprigionò il polso in una manetta foderata di pelliccia. Dentro l’altro anello ci finì la mano di JD.
Con gli omaggi della casa, disse il punk che ci aveva ammanettati.
Lui è Mini Manson, lo presentò JD. Si occupa della linea accessori di Contessa.
È pelliccia naturale, ci tenne a precisare Mini, accarezzando le manette. Pelo pubico di adolescenti di entrambi i sessi, direttamente dal vivaio di Contessa nel sud-est asiatico. La materia prima è raccolta principalmente a Yangon, nei punti raccolta dei villaggi intorno a Vientiane. In qualità di responsabile mi occupo della selezione e della tosatura.
Non lo trovate disgustoso? mi azzardai a dire.
La musica di sottofondo cambiò e io seguii Mini Manson che si allontanava sobbalzando come Bianconiglio al ritmo di un techno hip-hop.
Da quella parte gli invitati si protendevano verso un abbeveratoio presidiato da un gruppo di puttini animati. La fonte zampillava dai lombi di una statua di Poseidone. Riconobbi la divinità dalle minuscole corna arrotondate sulla fronte e da un corto tridente, simile a un’arma da battaglia spaziale. Se escludevo quegli attributi, il dio assomigliava a un teenager dal corpo atletico e dalla virilità spenta.
JD ricominciò a trascinarmi. Attraversammo in un ruvido corpo a corpo la folla accalcata. Chi indossava succinti perizoma da lottatori di sumo, chi riproduzioni di divise militari dell’esercito napoleonico. Ragazze in uno stato di serena autocontemplazione accentavano il ritmo delle percussioni con movimenti del bacino. Dovunque mi voltassi qualcuno sollevava coppe di liquido ematico. I camerieri distribuivano salsicce vegetali.
Si infilò in bocca un soffio caldo, nell’aria fiutai tracce di feromone. Mini Manson mi abbracciava alle spalle, premendo una lattina gelata sul costato.
Fuori la lingua, disse.
Gli offrii l’intero organo del gusto che lui dapprima ammirò e poi irrorò.
Il sapore non mentiva. Era Yellow Pit Bull. Mini conosceva i miei gusti. Con quei suoi modi delicati e tutte quelle attenzioni era il genere di maschio che non potevo permettermi di ignorare. E anche se il suo aspetto era solidamente tenebroso, in una classifica di morbidezza il carattere poteva ragionevolmente collocarsi tra la piuma e il borotalco.
Mi chiesi se fosse eterosessuale o, quantomeno, un bisessuale monogamo. Formulai la domanda ad alta voce. Alle mie spalle registrai l’irrigidimento dei suoi muscoli addominali, una esitazione brevissima che colsi con la spina dorsale. Mini afferrò un bicchiere e lo riempì con il contenuto avanzato nella lattina. Aggiunse altri ingredienti presi qua e là, e li mescolò. Infine mi invitò a bere.
Studiai la sua immagine attraverso il bicchiere. Nel farlo ero mossa da simpatia carnale per quel volto che si confondeva con il mondo circostante nella curvatura del vetro.
Chiusi gli occhi e assaporai l’elisir.
Quando li riaprii Mini se n’era andato. I colori del giardino avevano toni più accesi, le fonti luminose erano meno radianti. La frequenza dei bassi acustici ripeteva all’infinito la parola tumulto. Misi da parte il bicchiere e cominciai a muovermi a un ritmo letargico, assecondando il tempo dei tamburi. Il braccio libero scostava l’aria stagnante. La folla si districava con moti anfibi nel groviglio delle percussioni. L’oscillazione delle teste generava un effetto di movimento globale, ascensionale e discensionale. Le ragazze immagine di un rum cubano fremevano sotto i getti d’acqua di un sistema antincendio.
Su uno schermo aereo era in corso una diretta televisiva. Le immagini in bianco e nero divennero a colori quando una navicella spaziale rosso-giallo stellata attraversò lo schermo in diagonale. Un modulo lunare rimbalzò su un suolo lattiginoso, sollevando sassi e polvere, mentre l’astronave restò sospesa a un’altezza indefinibile, imbragata e legata a un cavo, come un cane al guinzaglio. Parte della folla cominciò ad applaudire.
Interrogai JD con lo sguardo. Nella mia percezione della realtà era intervenuto un fattore critico, una perdita sostanziale di concretezza.
Uomini sulla luna, disse lui stancamente.
Lo vedo. Ma in che cosa consiste la novità?
Dev’esserci per forza una novità?
Non lo so, JD. Credo di sì.
La novità è che sono cinesi. O forse che sono bambini. Bambini cinesi. Un’astronave pilotata da mocciosi che interagiscono con i sistemi di bordo grazie a un’affinità innata uomo-macchina, che non richiede maestri né apprendimento.
Percepii un brusio e riconobbi la voce di Mini. Tentai di metterlo a fuoco, ma il congegno biologico che sovrintendeva alla vista era ingovernabile. Riflettei sul fenomeno, trovando almeno un paio di cause che non prevedessero una diagnosi fatale. Nel frattempo, mi sforzai di mantenere inquadrato il volto di Mini al centro del campo visivo, come in un mirino telescopico.
Che cosa ti è successo alla faccia? gli chiesi, trovandolo meno spettrale.
Lui mi rivolse uno sguardo denso di sottintesi.
Quel cavo, disse, indicando lo schermo e la fune a cui l’astronave era legata.
Quel cavo, Mini?
Non capisci? È lo sponsor!
Osservò in silenzio e con solennità il mio imbarazzo. Afferrai un bicchiere a portata di mano e, senza farmi domande, vuotai il contenuto blue curaçao che schiumava come birra. Infine non trovai niente di meglio che stringere il viso di Mini tra le mani e schiacciare la fronte contro la sua. Nella testa, dentro l’involucro della scatola cranica, nel punto mediano, splendeva una luce.
Dimmi cosa, gli chiesi.
Ti dirò cosa, fece lui, senza staccarsi. La cosa è la sponsorizzazione del secolo. La cosa è il Nastrolunare in missione sulla luna.
Una fettuccia da pacchi, risi.
Non una fettuccia qualsiasi.
Una fibra commestibile!
E c’è dell’altro.
Resiste al calore e non si strappa.
È un nastro lungo, così lungo da non farti temere una deriva cosmica. L’estensione di un oggetto nello spazio-tempo infonde nell’anima un senso di elevazione e di poesia delle cose. È per questo che l’azienda produttrice ha finanziato la missione dei bambini cinesi. Un capo è fissato all’astronave, l’altro ai piedi della rampa di lancio, a Shanghai o a Macao, non ricordo. Un unico cavo lungo trecentosessantaquattromila chilometri, un cordone ombelicale tra la Madre Terra e il suo satellite. Non è sorprendente?
JD si chinò, costringendomi a piegare le ginocchia. La schiena si scoprì, l’incarnato rivelò un colore poco invitante. Gli anelli vertebrali si tesero sotto pelle. Ricordavano una collana aborigena fatta di ossicini dalla provenienza sospetta. La depressione che incavava la parte inferiore del dorso conduceva lo sguardo alla cima del coccige, istantaneamente e senza ragione. Si rialzò, tenendo in mano un elfo domestico. Guardò l’elfo e guardò me con una espressione di vulnerabilità indotta dai muscoli orbicolari, rassegnato e infelice.
Gli elfi erano usciti a centinaia dalle cucine solo pochi minuti prima. Ogni passo fatto nel giardino comportava, in linea di principio, la possibilità di calpestarli. Se non succedeva era perché si muovevano a balzi, con rapidità, come se indossassero delle scarpe a molla. Ciascuno di loro trasportava una madeleine per i rinfreschi dei gazebo. Sulle spalle quei dolcetti avevano un aspetto doloroso. Pesavano come pietre, conservando un’apparenza antica, anche se quell’anno erano tornati di moda insieme alla lingerie del primo Novecento.
L’elfo sul palmo di JD si distingueva per le mascelle forti, gli occhi scuri, i capelli con treccine e ricami in rasatura. Quegli esserini erano creature lillipuziane, alte quanto una matita, uomini in miniatura, una sintesi estetica di immagini di culto e linee di tendenza, capaci di simulare una illusione di unicità.
Sentii la terra vibrare. La musica era ricominciata e il popolo della notte si dimenava a un ritmo forsennato. Percossi l’aria con la testa. Una, due, tre volte. La testa percuoteva, percuoteva l’aria. La testa percuoteva l’aria come una mazza da tamburo, senza spezzare la membrana del reale.
Mini salì su un tavolo e sollevò un braccio. Il gesto fu tanto scenografico da non indurmi a pensare che si trattasse di un segnale.
JD lasciò andare l’elfo e indicò Contessa che sgusciava dalla folla, regina nera, superba, con gambe da gru e tronco felino. Indossava una gonna aderente e un corpetto di rubber rosa. Un collare con fibbie e anelli era assicurato a un’asola ricavata nella pelle del sottomento. Due guanti dall’ala rigida rivestivano l’avambraccio, sulla protesi i diamanti si confondevano con i bagliori del latex. Il suono dei passi sfibrava il ritmo della musica. Quello che restava immobile si manteneva rumoroso.
Mini la seguiva con docilità. JD, invece, sfoggiò una espressione fiera, perentoria, l’aria di limpido e sacro distacco di una popstar sotto i riflettori.
Contessa mi chiamò per nome. Gridò il mio nome. Lo ripeté due, tre, quattro volte. Il mio nome gonfiò di piacere le sue guance scarne. Rise con sfarzo e sregolatezza. Il popolo della notte emetteva i versi caratteristici dell’attesa. Uno stridio penetrante, il suono delle grandi foreste. Contessa, che aveva il dono di stupire, mi baciò sulle labbra.
Chiusi gli occhi al primo segno di contatto e mi misi in ascolto. Pesi, contrappesi, aromi, sapori, la consistenza d’ostrica della lingua. In bocca scivolò una capsula elastica che premetti sul palato, mettendone alla prova la resistenza. Conclusi che di lì a un istante sarebbe scoppiata.
La piccola deflagrazione mi spalancò la bocca. Mini aveva l’aspetto di un guscio vuoto, liberato da ogni sentimento controverso. Al primo battito di palpebre il prato si tinse di ocra, al secondo l’ocra si trasformò in blu. Cominciai a battere le palpebre regolarmente, provando sei varianti di colore, per poi ritornare a quella originale. Ripercorsi il cerchio cromatico altre due volte alla ricerca di un filtro adatto all’umore del momento, senza trovarlo.
La faccia di JD era viola. Contessa si avvicinò, una macchia liquida in tinta con l’insieme. Chiamò JD ragazzaccio. Gli sollevò la T-shirt e con il mignolo della protesi stuzzicò lo scorpione che cominciò a dibattersi. Ai piedi di JD si erano ammassati centinaia di elfi dei dolci. Migliaia di dita guizzavano, graffiavano, scalavano le cosce della popstar. Uno di quegli esserini evitò l’aculeo dello scorpione, raggiunse il rubino e lo sfilò dalla chela. Lo colse e strappò via. Lo fece schizzare in aria.
Quello che accadde dopo posso soltanto ricostruirlo. Le fibre muscolari di JD collassarono nel sacco della pelle. La mano si sfilò dalla manetta, il corpo si sollevò sotto la spinta di una pressione interna, sgonfiandosi e torcendosi. L’implosione ricordava un quadro astratto, dove potevo riconoscere le gambe e, a partire da quelle, ricostruire l’intera scena.
La popstar superò in volo la folla, collise con lo schermo aereo e, indirettamente, con il modulo lunare, e dopo una parabola discendente scomparve alle spalle del set fotografico.
Desideravo soltanto ritornare alla modalità di visione naturale. Ma le palpebre continuavano a sbattere in modo indipendente dalla mia volontà. Filtro porpora. Filtro verde. Filtro grigio. All’ocra Contessa schiacciò con la scarpa un elfo domestico. Lo fece con noncuranza, fissando un punto lontano, indeterminato, un altrove vago. La moltitudine guardò a terra. Qualcuno imitò il gesto della donna. Tutti sollevarono il piede, lasciandolo ricadere con un colpo secco.
Quegli elfi erano il frutto di nanotecnologie applicate all’uso dei polimeri. Non erano veri. Non erano organici. Perciò che male c’era a calpestarli? Ero arrivata a questa conclusione quando mi resi conto che stavo ridendo. Ridevo con il petto e con le viscere. Assistetti all’eccidio degli elfi, togliendomi dalla testa l’immagine di JD che si sgonfiava. Nella modalità di visione a filtro verde distinsi l’erba inumidita da quello che sembrava uno sgocciolio ematico.
Iperrealismo.
Contessa mi prese sottobraccio e si incamminò verso un promontorio, ai margini del prato, dov’era allestito un palco nascosto da un sipario. Mini ci seguiva come un’ombra.
È solo finzione, non è vero? domandai.
Finto, vero, rise Contessa.
Indicai un elfo nascosto dietro un avvallamento erboso e cominciai a pensare a quegli esserini in termini di superamento delle possibilità del reale. Gli elfi svolgevano una funzione ricreativa, la stessa che prima dell’era elettrica era relegata a forme rituali di catarsi. Infliggere la morte senza pagarne il prezzo mi sembrò all’improvviso gradevolissimo, un modo per mettersi in contatto con il trascendente attraverso la feroce innocenza del cervello rettiliano.
Salii la scala sul retro del set fotografico accompagnata da una serenità olimpica. Mi chiesi se dovessi provare una felicità piena e completa o piuttosto un senso di inquietudine dionisiaca. Oltre il sipario, avvertivo la presenza della folla sotto forma di una vibrazione diretta al sistema nervoso parasimpatico.
Questione di attimi e fui spogliata.
Solo allora Mini mi chiese di partecipare alla campagna per il lancio della nuova collezione di Contessa. A quel punto ero praticamente nuda e non avrei saputo come rifiutare. Mi diede da indossare della biancheria intima maschile, la giacca di una uniforme militare aderente, in latex onice nero, e una minigonna. La truccatrice ignorò i capelli e ripassò le ciglia con un mascara a impatto elevato, senza aggiungere un filo di trucco. Ricevetti un frustino e un segno di incoraggiamento, o forse di consolazione. Continuai a guardare a terra, anche quando fui condotta al centro della scena. Intorno a me niente su cui potessi fare affidamento per appoggiarmi e sostenermi. Evitai di alzare lo sguardo, ignorando ancora per un momento l’esistenza dell’oggetto più spettacolare.
A distanza di tempo mi chiedo come potrei descriverlo. A ripensarci, direi il pene sensazionale di un ciclope. Era sospeso a circa un metro da terra, rivolto alla notte, superbo e smisurato. Tre similitudini. Pene dalla forma di cavallo senza arti. Pene come icona, o pittogramma, da affiggere alla porta dei bagni di un circolo studentesco. Pene di diversi colori (giallo, azzurro, rosso), con funzione direzionale, a indicare Kansas City in una litografia di Jim Dine appartenuta a mio padre. Metteva in gioco sentimenti di stupore e suggestione, un senso di idolatria, visioni di tintinnabulum e dimore di antiche divinità silvestri.
Il pene si illuminò, ricordandomi il mappamondo dell’infanzia. Negatelo, se credete, ma ogni fonte di luce porta con sé un senso di confidenza. Quella che proviene dall’interno delle cose anche di semplificazione e di conforto.
Qualcuno mise mano al meccanismo di apertura del sipario. Si formò uno spiraglio, poi uno squarcio, che scoprì una moltitudine di teste in lenta oscillazione, puntiformi e tetre. I muscoli vasto mediale e laterale s’illanguidirono e persi parzialmente il sostegno di un ginocchio. Teste indistinguibili, teste vaghe, ammassate in una condizione di completo anonimato, in uno stato che ricordava l’amalgama, l’immagine globale che avrà la nostra specie vista retrospettivamente dopo la sua estinzione.
Un grido e un’approvazione. Mi chiesi come fosse possibile sopravvivere a un fremito così violento.
– wow wow wow wow wow –
Ero lo spettacolo, il centro di una economia evoluta, la dimensione dell’interscambio assoluto.
Contessa mi sostenne.
È questo l’evento! gridò, sincronizzando il respiro con il ritmo sistolico del pubblico.
Fui sopraffatta da un latrato cupo che sembrava provenire da una unica gola. Il mio nome si ripeté da una parte e dall’altra, in modo intermittente, in modo isolato.
Nel tentativo di trovare l’intimità con la folla il tono di Contessa diventò più privato.
Quanti ne avete uccisi, di quei piccoli bastardi? chiese e adocchiò lo schermo aereo dove compariva una cifra in aggiornamento. Mio Dio, quasi mezzo migliaio di schiacciatine d’elfo! No, voi non siete degli Schiavi, fratelli. Non siete dei Servi. Voi vi meritate il nome di Selvaggi.
Il pubblico approvò con un martellamento da scontri di piazza.
Ascoltate, aggiunse Contessa, ma la voce fu sovrastata dal delirio.
Ragazzi. Ragazzi, quelle carogne lillipuziane avevano una manina di platino. Una mano come la mia, fratelli, tale e quale in miniatura. Qualcuno di voi se n’era accorto? Non vedo braccia alzate. Come dite? Sì, fratelli. È un trofeo da Selvaggi. È il vostro trofeo. Con gli omaggi di Contessa.
Il tumulto cambiò nota. Divenne caldo, si arricchì di tinte emotive che non riuscii a interpretare. Tra la folla, quelli che avevano a disposizione lo spazio per accovacciarsi setacciarono l’erba. Si alzarono alcune mani. Tutte brandivano il braccio di un elfo.
Quanto sei bella, mi sussurrò Contessa all’orecchio e sollevandomi il mento, gridò, guardatela, Selvaggi!
La sua mano di metallo non era rigida né dura. Le dita si muovevano con fluidità, caparbiamente. Scattarono e mi strapparono il frustino. Ne provarono il suono. Due variazioni. Sibilo e schiocco.
Sapete, confidò Contessa girandomi intorno, ho disegnato la mia collezione ispirandomi alla parola Oppresso. Alle parole Dipendente e Soggiogato. E mi sono convinta di questo. Gli oggetti escono dall’alfabeto. Alcuni termini sono pieni di vibrazioni. Alcuni termini sono l’utero della creatività. Muoviti, Vera. Agita il corpo. Vera, voglio vederti camminare.
Tanto valeva che dicesse “Zoppica, Vera”.
Parlai con un sussurro.
Non capisco, disse. Alza la voce.
Zoppico, signora.
Vuoi dire che sei una storpia? È questo che ci stai dicendo? e spalancò la bocca in un’enfasi di stupore.
Il frustino schioccò in direzione del pubblico.
Sapete, osservò Contessa, quando in un contesto di grande bellezza un particolare si corrompe, l’insieme perde quasi del tutto il suo valore. Quello che in altre donne passerebbe inosservato, in Vera Plurabelle diventa un difetto. Un leggero zoppicare non è soltanto un disagio motorio. Comporta la necessità di cercare una nuova strada nel mondo. Racconta ai ragazzi come ti guadagni da vivere. Non essere timida.
Rimasi in silenzio.
Contessa gridò: Professione!
Accarezzatrice, risposi.
Sentito? E che cosa accarezzi, bellezza? Dillo ai ragazzi.
Barbe, capelli.
Che meraviglia, accarezzami i piedi!
Scrollai la testa, in segno di rifiuto.
Accarezzami i piedi! ripeté.
No, soffiai, proprio mentre la frusta mi schioccò tra le gambe.
Contessa era scalza. Aveva caviglie sottili e dita tozze. Mi aspettavo che l’umiliazione facesse più male delle frustate, ma non fu così. Caddi in ginocchio e le accarezzai i piedi. Da prima con le punte delle dita, poi con l’intero palmo delle mani, mentre la treccia di cuoio della frusta, afflosciata, mi sfiorava il viso con approvazione.
Lecca le dita, disse Contessa, in un tono che non fu né sprezzante né autoritario. Leccale, Vera.
Mi misi carponi e la guardai con docilità, in un tentativo per me nuovo di suscitare compassione.
Leccale, ripeté lei. O non ti sarai messa in testa di fare la brava ragazza?
Non è questo, dissi.
Allora fai la cagna!
Sì, signora.
Guadagnati l’ingaggio leccando e scodinzolando.
Sì, dissi.
Perché quello che vuoi è stare là in alto, non è così?Sui manifesti, una dea su un piedistallo, immensa, ciclope in una terra di nani.
Sì, ammisi.
Saresti dappertutto, Vera. La gente ti guarderebbe dai finestrini dei taxi, dalle vetrine dei caffè, dalle terrazze panoramiche. Oh sì che ti va, Vera!
Sì, confessai. Sì, che mi va.
E allora lecca, gridò. Lecca, cagna!
Il piede di Contessa nelle mie mani. Consistenti callosità di marmo, tiepide e levigate. Le succhiai le dita a cominciare dal mignolo, a una a una, con pazienza, pretendendo la perfezione. Incontrai granuli di terra e fili d’erba. Assaporai impurità argillose, residui amari di clorofilla. Immaginai lo stato della mia faccia. Decolorata, sbavata, squagliata.
Hai sete? chiese Contessa.
Sì, risposi. Sì, signora.
Contessa scaricò la frusta sulle assi di legno del palco con la furia di una divinità mesopotamica. Mini riempì d’acqua una ciotola per cani e la posò a terra. Raccolsi l’acqua con le mani, fino a quando un nuovo colpo di frusta mi sfiorò le braccia. Da quel momento mi limitai a lappare.
Così acquattata mi rendevo conto di due cose. Prima di tutto, il modo di bere degli animali non era scomodo come avevo sempre pensato. Lento, se volete, sorvegliato, forse, ma non scomodo. Di certo, non esisteva alcuna ragione per considerarlo una linea di demarcazione tra l’umano e il bestiale. Questo mi portava alla seconda considerazione. Finché mi trovavo carponi, potevo essere indifferentemente donna, cagna o pantera.
L’occasione per dimostrare quale animale fossi arrivò poco dopo. Contessa provò a cavalcarmi. La privai dell’appoggio di un piede e la scaraventai a terra.
Niente di più odioso di una pantera, disse mentre si rialzava con l’agilità di un acrobata, dando l’impressione di assistere al riaccorpamento di un corpo disseminato da un’esplosione.
Cominciai a muovermi descrivendo ampi cerchi. Provavo un senso di protezione e dominio dello spazio. Nel tentativo di contenermi, Mini prese a frustare il palco alla cieca. Diversamente da Contessa, maneggiava la sferza con entusiasmo dilettantesco, come in un gioco forsennato. Quando un colpo mi sfiorò il viso finsi di essere stata domata.
Contessa mi cavalcò senza enfasi.
Le cosce dure, i talloni callosi strinsero i fianchi. Sfregò a lungo i genitali sulla nuca e sul collo. Un contatto duro, pesante, a tratti gradevole. Che cosa dovevo pensare? A un approccio sessuale? A un marchio olfattivo? La mente girava a vuoto, non ero abbastanza concentrata. Il pensiero aveva un volume caldo e si espandeva. Un calore profondo mi fasciò la testa come un cappello di lana. E presto quella sensazione si risolse in uno sgocciolio tiepido sul collo, in un rigurgito di disgusto.
Ferii quella vacca con un’artigliata. L’incisione si materializzò sui polpacci color ambra, facendola allontanare con un balzo. Era agile, il corpo si riorganizzò all’istante, dote oscura di creature fantastiche. Quando mi voltai a cercarla, lei era sparita.
Potevo considerarmi soddisfatta. Contessa era uscita vittoriosa, ma io restavo sul palco a testa alta. Non mi sentivo una vittima più di quanto non lo fosse chiunque altro in quel giardino. Guardavo Mini e, in prima fila, un gruppo di ragazzi vestiti da soldati americani sul fronte indocinese. Guardavo le tuie che si piegavano al vento, ombre di angeli neri, con ali di fuoco, che accorrevano da ogni punto cardinale. In un certo senso, guardavo anche me stessa. Qualcuno mi sfilò la giacca e la gonna. Mini mi aiutò a salire sul pene. Ed ecco il punto: non avevo mai dubitato di essere destinata a finirci in groppa. Assimilavo il senso dello spettacolo, lo fissavo nell’intimo. Mi assestai in una posizione stabile, accoccolata, ascoltando l’ovazione del pubblico.
Il palco era l’altare e il sacerdote officiava con la macchina fotografica al collo. Io posavo, avvertendo una mancanza, la nota dell’otturatore meccanico, quel suono che ricordava il clak di un metronomo, ritmico e colorato. La meccanica genera fonemi solidi, corporei, l’elettronica ha pulsioni stridule, bip penetranti, i segnali acustici del sonno profondo e dell’estinzione. Così, Vera, diceva il fotografo, un po’ più disperata. Non bastava il trucco sbavato, i capelli sudici, l’espressione inconsolabile? Andiamo, bellezza, diceva, un po’ più inconsolabile. Una lacrima, ripeteva. Una lacrima. E gli diedi la lacrima.
Le braccia pesavano, capii che non avrei retto a lungo.
Chiesi aiuto.
Invocai Mini. Usai le parole “per favore” almeno cento volte. Il fotografo accumulava i suoi scatti silenziosi in archivi di memoria digitale, spostandosi da un lato all’altro del pene. Vera, diceva. Diceva, Vera, da questa parte. Nel farlo mi spingeva a cambiare posizione. Capivo quello che chiedeva l’obiettivo senza bisogno della decodifica del linguaggio. Mi raffigurai le foto. Abbracciata al pene di Porfirione, mentre Eracle scagliava frecce e Zeus saette, una sensazione di indifferenza, l’esilio della coscienza alle periferie della vita, nei bassifondi dell’anima.
D’un tratto mi resi conto che JD assomigliava a David Bowie. Giovane, incompleto, realizzato con tessere di mosaico e colorato con lo spray. Se ne stava tutto solo sotto un cavalcavia ferroviario, su una parete di calcestruzzo, l’omaggio di uno street artist svizzero a Invader. Ricordai che gli facevo compagnia ogni giorno, per qualche minuto, di ritorno a casa dal liceo di Coira. Adesso, il pensiero di non vederlo da tanto tempo mi commosse.
Il cane di JD mi afferrò un piede.
Ancora una, Vera, disse il fotografo.
L’ultima.
E mentre attendevo il clak dell’otturatore crollai dissonantemente sul palco.