Il carrozzonesco bushido del wrestling messicano prescrive che, una volta rivelato in pubblico il proprio volto, un luchador non possa più rimettersi la propria maschera. Blue Demon Jr., tra i più famosi luchadores del Messico, vorrebbe per questo candidarsi tenendo il proprio volto coperto. L’identità di Blue Demon Jr. è avvolta in nebbie ulteriori: il primo Blue Demon è stato suo padre Alejandro Muñoz Moreno, scomparso alla fine dello scorso millennio (nella foto in apertura figlio e padre sono ritratti insieme; per non farci venire una priapite alla parentesi lasciamo al lettore ogni freud-/jung-/lacan-/iana considerazione intorno all’immagine). In effetti, però, Blue Demon Jr. è figlio adottivo di Moreno: ovvero è probabile che, anche quando tornato a casa si toglie la maschera e si guarda allo specchio, la vera identità di Blue Demon Jr. resti per lui stesso inafferrabile.
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O forse anche quando è in casa Blue Demon Jr. non si toglie mai la maschera, come il fumettistico El Borbah di Burns. La maschera di Blue Demon Jr. cioè travalica l’esercito di pupazzetti luchadores che popola gli schermi da Batman in giù, tutti quanti incancreniti nel ridicolo e spasmodico desiderio di dare spessore alla “persona che c’è dietro la maschera” attraverso uno speculare esercito di tormenti, vendette, armi e amori del tutto posticci in quanto, appunto, meri riflessi della maschera. È Bruce Wayne, in realtà, la maschera di Batman, ovvero: non esiste nient’altro che la maschera. Se Blue Demon Jr. se la togliesse, non sarebbe più nessuno. La sua carne serve solo a tenere in piedi il costume di Blue Demon Jr.
La nostra lingua, anche lei (come ogni lingua) figlia adottiva, e orfana, ha archiviato questo snodo psichico nel proprio tessuto lessicale: il nostro persona deriva da un’antica parola etrusca il cui significato originario era, appunto, maschera. Questo non significa che la persona è una finzione: significa viceversa che la maschera è qualcosa di vivo. L’etimologia va sempre decifrata a rebours.
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La maschera serve ancora una volta per svelare più che per occultare: nel gesto di Blue Demon Jr. si riconosce una trasparente allegoria della politica come teatro di volti nascosti. Quali candidati si presentano effettivamente agli elettori con il loro “vero volto”? Anzi: esiste più in loro un qualcosa che si possa chiamare “vero volto”?
Altri ancora, immergendosi tra le lame e le colle della chirurgia estetica, hanno creduto di tagliare così il nodo gordiano che vincola maschera e persona, facendosi – questa la loro infantile speranza – essi stessi maschera…
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(Il fatto che oggi tutti indossino una mascherina ci sembra solo una buffa coincidenza, su cui sapremmo intavolare solo buffe osservazioni… Per nostra incapacità. Nessuna coincidenza tuttavia andrebbe mai passata sotto silenzio: si agita dietro di lei lo spettro angelico di un’armonia sempre di là da venire.)
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Che il potere si occulti, si dirà, è risaputo almeno fin dal Principe: «… non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile…»; e torna in mente anche certa meteorologia politica di Guicciardini: «spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta, o uno muro sì grosso, che non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa, o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India; e però si empie facilmente el mondo di opinione erronee e vane». Si vedrà però come oggimai, alzandosi la nebbia, o attraversandola, nulla ci sarà rivelato: se non altra nebbia.
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L’immagine del politico come luchador dischiude cioè una piega ulteriore: quanta di quella che chiamiamo politica è oggi di fatto mera coreografia, non troppo dissimile da un incontro di wrestling? Coreografia in quanto non si finge più di far qualcosa mentre la manovra eseguita in realtà è un’altra: ora si finge di far qualcosa, e basta.
Di questo generale depotenziamento della politica si è avuto un assaggio nell’assalto a Washington che ha aperto il 2021: ecco uno dei governi più potenti al mondo reso vulnerabile da un attacco di wrestlers, in quanto tale governo per primo non si manifesta più altrimenti che come wrestling: nessuno trova ridicolo l’ormai tradizionale e a breve folcloristica usanza dei neopresidenti di cancellare in tutta fretta quello che ha fatto il presidente uscente? Esattamente come nel wrestling il lottatore che in un certo momento svolge il ruolo del soccombente subisce ogni sorta di angherie da parte dell’altro, ad uso e consumo del pubblico di sostenitori di ambedue gli avversari (obbligato qui il rimando al saggio di Barthes sul catch).
Da wrestlers erano i copricapi cornuti e i vari ghingheri dei rivoltosi (e il fatto che li si sia presi per abiti sciamanici è un segnale comico e inquietante della cecità generale di fronte a quanto sta accadendo); tipico del wrestling il corredo di sedie sfasciate e porte sfondate da riaggiustare e rassettare finito l’incontro, dopo che il pubblico ha abbandonato la sala; tipica del wrestling, infine, la sproporzionata spettacolarizzazione ed epicizzazione della lotta, direttamente proporzionale alla sua completa inutilità, alla sua perfetta assenza di significato e di efficacia.
Meno appariscente ma altrettanto emblematica la recente crisi di governo italiana: un quanto mai sciapo fronteggiarsi di posizioni palesemente svuotate di ogni senso politico, similissimo agli incontri collettivi in cui i wrestlers combattono tutti contro tutti sullo stesso ring capovolgendo alleanze di cartapesta sulla base di calcoli che non hanno bisogno di andare oltre il finto cazzotto successivo. Il presidente infine, brancicando nel parapiglia l’ultimo brandello di potere di origine divina e nascondendosi dietro l’emergenza sanitaria in corso (da quanti mesi ci si ripete che “i prossimi mesi saranno cruciali per sconfiggere il virus o esserne travolti”? ed ecco, in un’estrema allucinazione, il virus stesso farsi evanescente ma fetentissimo wrestler nemico di tutti…), dribbla il fantasma delle elezioni: durante le quali sicuramente il governo uscente e l’opposizione tutta si sarebbero comportati nel più irresponsabile dei modi, e in capo alle quali gli elettori non avrebbero saputo fare altro che passare dalla zuppa al pan bagnato. Meglio allora lasciar perdere la sagra popolare del voto (considerata alla stregua di un assembramento da aperitivo, anzi: meno importante ancora, dato che l’aperitivo, e sia pure entro le 18, non ce lo toglie nessuno); meglio allora spazzare via, almeno per il tempo necessario a fare le cose serie, il castello di stracci dell’attuale Repubblica, ed evocare Draghi (di nuovo una coincidenza da cui non riusciamo a cavare che facezie: Draghi, che nome perfetto per un luchador…)
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Tutto questo non può che significare una cosa: l’azione politica gravita ormai su luoghi diversi dai palazzi del potere e dai parlamenti, i quali di fatto non sono più il cuore, ma la periferia dell’arte del governo. Un po’ come il wrestling si situa alla periferia dell’arte del combattimento. Per tornare allora nel cuore dello Stato bisognerà forse riabbracciare la politica come enigma insolubile e connaturato all’essere umano, non come maschera che da un momento all’altro ci può essere strappata di dosso.
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Dione Cassio nel LV libro della sua Storia romana riferisce che il principe Augusto «rese pubblica tutta la sua casa […] in modo da abitare nello stesso tempo in pubblico e in privato». Agamben chiosa: «È l’auctoritas che egli incarna, e non le magistrature di cui egli è stato investito, a rendere impossibile isolare in lui qualcosa come una vita e una domus private. […] La “vita augustea” non è più definibile, come quella dei comuni cittadini, attraverso l’opposizione pubblico/privato»: bensì attraverso, con Dione, una contemporaneità e coesistenza delle due dimensioni. La vita augustea è pubblica e privata. Disincarnata ogni possibile auctoritas, viceversa l’odierno politico luchador non conosce più i passi che portano alla fusione di tali due dimensioni. Per lui non esiste più nient’altro che la vita pubblica, e la sua è dunque una vita pseudo augusta.
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Coerentemente a un ipotetico e ben lontano dall’essere dimostrato cammino del potere verso il popolo, ecco allora anche i “comuni cittadini” sempre più invogliati a, e anzi loro stessi desiderosi di, fare della loro stessa vita una “vita augusta”: che altro sono infatti i nostri profili social che altrettante “case auguste” dove rendere tutto pubblico, dai piatti che si cucinano ai viaggi che si fanno, ai figli che giocano, su su fino alle armi e agli amori?… Ma di nuovo, l’assenza ossia la vacanza di quell’enigma politico rappresentato dall’auctoritas rende anche questa una vita pseudo augusta: non una coesistenza di privato e pubblico bensì una medusizzazione del privato in forma di maschera pubblica.
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Se la sovranità appartiene al popolo, che ne sarà del popolo una volta che la sovranità non sia più nient’altro che un berretto di lustrini? Sarà inevitabile anche per il cittadino trasformarsi in luchador, e abitare per sempre alla periferia della vita.
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L’enigma dell’auctoritas: enigma spaventoso (come abbiamo già detto altrove, non abbiamo il cuore tenero) e, come ogni vero enigma, insolubile. Augusto decise di incarnarlo: Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXVII, 4) e Svetonio (Aug. 50) danno notizia dei sigilli decorati con una sfinge con cui Ottaviano usava siglare i suoi documenti. Forse atterriti da ciò che quell’enigma può dispiegare nel mondo, noi come dei primitivi abbiamo invece preferito disincarnarlo in un mascherone colorato: mascheroni colorati sono i nostri candidati, e mascheroni colorati ci stiamo facendo anche noi. Niente di tragico o di pirandelliano in tutto ciò, non montiamoci la testa: è tutto soltanto molto molto stupido. Questa insomma non è, come sta diventando sempre più chiaro, una soluzione, e nemmeno un’uscita: nel momento in cui ci siamo sottratti al confronto, l’auctoritas è semplicemente scivolata altrove.
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Che il desiderio di Blue Demon Jr. si realizzi o meno non importa: è già da tempo che, a ben vedere, tutti votiamo per lui.