È successo non molto tempo fa, all’inizio di un dicembre freddo; ero uscito per prendere una boccata d’aria in preda a una piccola crisi delle mie che non sono nemmeno crisi in realtà, non sono niente.
Mentre
andavo così con un piede via via più veloce e svagato per una di quelle strade
di bellezza difficile ho sentito qualcuno lamentarsi. Un po’ per intuito un po’
seguendo l’immaginazione, sono andato verso i cassonetti dell’immondizia. Ho
pensato a un neonato di quelli lasciati a gelare o marcire nell’umido o nel
secco. Era un’idea stupida, il lamento (femminile) era disperato, sì, ma di
adulto.
Intorno c’erano solo due file di palazzi, uno più vecchio dell’altro, a un
passo da una spiaggia libera senza stabilimenti, abbandonata da tempo come i
palazzi stessi, su cui al massimo sgambettano dei cani di gioiosa idiozia.
Mi sono avvicinato. La lagna proveniva dal cassonetto della carta. Ho aperto il
coperchio.
C’era una scrittrice… o così mi sembrava.
L’ho tirata fuori con una certa fatica perché faceva mille storie, mi graffiava le mani e le braccia, mi pareva indemoniata. Quando è uscita dal cassonetto, era talmente consunta da pesare pochissimo, che ne so, cinque o sei chili – riporto solo le mie sensazioni. L’ho presa allora in braccio e siamo andati.
Durante il percorso verso casa mia, si è addormentata stringendomi al collo. Mentre passavamo così per la città sentivo la gente che diceva ecco un bravo papà che porta a letto sua figlia che si è addormentata nel cassonetto dell’immondizia.
L’ho deposta sul mio letto e l’ho coperta. Bella era bella, ma di un bello strano, appunto di una donna che torna bambina, però bambina infelice.
Faceva freddo perché era dalla sera prima che non accendevo il fuoco e a casa non c’era anima viva a quell’ora del giorno.
Ho acceso il fuoco del camino e mi sono messo a fissare il vuoto come quando non mi va di concentrarmi troppo sui casi particolari che possono accadere alle persone che non ne vogliono proprio sapere di vivere concretamente.
Quando si è svegliata, le ho preparato una tazza di caffè senza latte né biscotti perché erano finiti.
Ha chiesto educatamente di potersi fare un bagno. Le ho dato l’ultimo asciugamano pulito e lei è andata a lavarsi.
Una volta finito il bagno e bevuto il caffè, è come cresciuta un po’ di peso e altezza, si è ingrossata; si è messa comoda con i vestiti di mia madre che le avevo sistemato sopra al letto e si è venuta a sedere vicino a me, davanti al camino che ormai crepitava come un camino felice.
Parla parla, vengo a sapere che non è propriamente una scrittrice. In gioventù è stata una poetessa. Prima ancora che poetessa però, e ci tiene molto a rimarcalo, è musa.
Le ho chiesto il motivo di tanta disperazione di qualche ora prima dentro a quel cassonetto vecchio della carta straccia. Mi ha detto che ormai le muse come lei sono cadute in disgrazia ed è lì che stanno quasi tutto il giorno. Non ci sono più i boschi di una volta, che per altro non erano nemmeno troppo sicuri a causa delle mire espansionistiche di qualche divinità lussuriosa, ma almeno erano dei luoghi mitici. Nemmeno i laghetti o gli stagni hanno più l’atmosfera di un tempo, per giunta non piove mai. Ninfe nemmeno a parlarne. Quei pochi posti ancora decenti sono affollati come le spiagge balneari d’estate.
Il cassonetto della carta allora è un simbolo, le ho detto.
Lei, un po’ delusa, ha detto sì, tutto è un simbolo.
Già, le ho detto io, lo sapevo, sì.
Bravo il grullo.
Mi ha detto che è molto annoiata. La sua fama presso gli autori è sfumata in modo inesorabile. Pochissimi credono di avere bisogno dei suoi servizi perché le muse sono state sostituite dai corsi di scrittura creativa, dagli editor, dagli editori, dai club di lettura o dai manuali per pettinare i capolavori.
Quelli che ancora la chiamano sono molto noiosi. Sono delle persone con grossi problemi psichiatrici. Sai, quelli che credono di essere Omero o Sofocle, anche se poi fanno finta di essere modesti.
Io non conosco gente così, le ho detto.
Tu non conosci proprio nessuno.
Data la situazione, non fa altro che lagnarsi. Piangere. Protestare.
Ho capito, ho detto, puoi stare qua da me quanto tempo ti pare, anche se la noia non manca nemmeno qua.
Piuttosto, m’ha chiesto, tu come sei messo, hai bisogno di qualche servizio editoriale?
Mah, le ho detto, così su due piedi, sto bene a dire la verità.
Non sei uno che scrive tu?
Sì, sì, non lo nego ma faccio tutto da solo in casa, attualmente non mi serve niente.
Nemmeno una ideuzza da niente?
No no.
Una storia per farci un racconto? O un blog? Che dici?… sennò un sito promozionale. Te lo apro e te lo gestisco io, ti può servire?
Ma no, te l’ho detto, sto bene così.
Va bene, come ti pare, ma non sei mica un granché. Non ti andrebbe di provare a invocarmi anche solo per ridere?
Preferirei di no, le ho detto, non ci vedo niente da ridere, ma l’ho detto senza nessuna presunzione. È che non ci sono tagliato, capito?
No, non ho capito, ma fanno lo stesso cinquanta euro, m’ha detto. Anche le muse si sono imputtanite, ho pensato, ma sono andato lo stesso a prendere i soldi. Ho cercato nel comodino, le ho steso cinquanta euro, se li è messi nella borsetta e ha fatto per uscire. Senza ringraziare né niente. S’è tenuta pure i vestiti di mia madre.
Non mi sono scomposto più di tanto, anzi, mi è sembrato giusto, ho fatto tutto quasi automaticamente, solo che m’ha dato fastidio che si voleva tenere i vestiti di mia madre, perché ci tenevo. Lei aveva avvertito il mio piccolo dispiacere perché m’ha detto di non fare troppo il lagnoso pure io, ché l’arte funziona così. Si prende ciò a cui teniamo, ha aggiunto, delle volte lo drena e lo ripulisce, delle altre lo annienta e lo manda all’aria.
E dopo se n’è andata davvero.