Gettando uno sguardo indietro alla quadrilogia imperfetta di Emanuele Trevi – il seminale Senza verso (2004), Qualcosa di scritto (2012) fortemente innervato sull’interpretazione di Petrolio di Pasolini, e i più omogenei Sogni e favole (2018) e Due vite (2021) – affiora la tematica centrale e ripetuta del tempo. La sua declinazione più evidente consiste nel recupero del passato, dato che i protagonisti sono maestri o compagni di strada dell’autore/narratore: Pietro Tripodo, Pasolini e Laura Betti, Arturo Patten, Amelia Rosselli e Cesare Garboli, Rocco Carbone e Pia Pera. Questa “laboriosa spedizione nel regno dei morti” investe la forma stessa dei testi, dando vita a una variante particolare di autofiction, nella quale Trevi è presente come personaggio a partire dai suoi anni d’università per “tentare un ibrido tra il saggio letterario e la seduta spiritica: due nobili arti passate di moda”. La postura risulta quindi testimoniale ed elegiaca, ma anche critica. Si conferma che sì, sono vissuti degli artisti dalla personalità spiccatissima, tutta dentro il proprio destino di fotografi, poeti e romanzieri, critici: “ciò che nelle leggende medioevali rappresentavano i martiri cristiani, gli asceti, i grandi peccatori illuminati dalla grazia, adesso era incarnato da individui altrettanto eccezionali”. I bagliori retrospettivi di tali vite bruciate nella vocazione configurano un “lento crepuscolo del Novecento”, in cui “la vita non era un pettegolezzo, una delle tante variabili mercantili della celebrità, un’altra carriera mondana”. Anche Trevi, come Pasolini, sembra mostrare, all’interno di una mutazione “radicale e irreversibile”, la fine di un’epoca, quella degli artisti appunto e, ovviamente, delle loro opere, poiché per esempio nell’epoca dello storytelling d’intrattenimento e delle scritture ben calibrate per la digestione, “di libri così”, come Petrolio, “non se ne fanno più. Sono cose diventate incomprensibili alla stragrande maggioranza del mondo”. Lo stesso per i film lenti e visionari di Tarkovskij, che penetrano fino alle lacrime Patten, condannati all’irrisione e alla sonnolenza, simboli del cinema stesso che ha perso il suo potere d’incantamento; perfino nelle arti popolari si assiste al medesimo fenomeno: “il Novecento stava finendo davvero, dopo ci sarebbe stata della musica rock ovviamente, ma mai più nulla come i Nirvana, così come già non c’era più nulla come i quadri di Pollock o i libri di Pasolini o Artaud o Mishima”.
Trevi s’incarica allora, come l’amico Patten, di una serie di ritratti, “tra tutte le arti umane […] la più ostinata nella ricerca della verità”. La posta è altissima e tenta la saldatura tra la soggettività profonda e irripetibile e la forma capace “di durata, di resistenza, di inattualità”: basta un attimo per finire nell’aneddoto, tavola per i surfisti della superficialità, o nell’ipostatizzazione che crea una perfetta eterogenesi dei fini come per la statua ottocentesca di Metastasio, piantata nello spazio pubblico e “immagine eloquente della dimenticanza”. Ancora l’esito può essere la “prostituzione emotiva”, come sostenuto da Patten quanto alle foto di Patti Smith scattate da Mapplethorpe; bisogna inoltre trovare la giusta distanza, perché “Più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri.” Il ritratto deve essere dunque mosso; e Trevi opera perciò un montaggio delle diapositive memoriali e saggistiche via via più fluido negli ultimi due suoi testi. Si tratta di fermare il movimento, seguendo il passare del tempo e il trapassare umano, dato che “Tutti gli esseri umani, lo vogliano o meno, ci pensino sopra o meno, sono dei trapassanti, dei metastàsi, noi non facciamo che trapassare, possiamo illuderci di essere qui per qualcosa d’altro, uno scopo o un colpo di fortuna o un ideale, ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo”. Illuminante a tal proposito il contrapporsi alla narrazione, che a tutta prima pare la forma più mimetica del trapasso, ma che lo tradisce con la sua vettorialità compassata e costruita e ambisce, per mezzo di editor ed editori, a “trasformare tutta intera la letteratura in narrativa”. Ecco quindi pure il deambulare casuale dentro Roma (altra assoluta protagonista dei quattro libri in questione) che serve, secondo nobile tradizione, al depistaggio.
Trevi, una specie di Sancho o Watson, si descrive fuori fuoco e devitalizzato rispetto ai suoi maggiori, di lato ai suoi pari. In realtà li spia da sotto in su nel loro fulgore di cometa destinata a spegnersi, per esplosione o consunzione, nel buio del nulla: carpirne i contorni individuali della parabola e gustarne la conferma clamorosa di massima vita e massima catastrofe ne accende la passione fredda. Quella “ipertensione del pensiero”, attribuita dalla Rosselli alle onde magnetiche che la CIA le scatenava contro, e che si potrebbe definire con Valery erotismo del pensiero, si palesa come fuoco fatuo attorno ad una idea, si concentra in un dettaglio, fa tremare fin dal primo Novecento la struttura verso il frammento, guarda con una certa distanza, in posa rilassata da dandy e con la luce bianca dell’intelletto e del manierismo, come il Davide di Guido Reni la testa quasi ancor respirante di Golia.
Il ritrattista può essere sedotto (ed esercitarsi di conseguenza) oltre che dalle persone, da luoghi e oggetti, perché ogni spettro ha il proprio spazio elettivo. Ed il primo non è il tavolino del medium ma la pagina bianca: “la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà”. Alcuni spettri, quali quelli di Pasolini, paiono più propensi a installarsi tra gli amici ancor vivi, magari infestandoli come nel caso della Betti, con la propria presenza “ustionante”. O come “il soccombente” Rocco Carbone che s’annida nel sonno del narratore, reclamando ancora attenzione: la curatela del suo romanzo postumo o l’ultimo omaggio nel serrato rispecchiamento delle due vite con Pia Pera. La scenografia di Roma poi, attraversata deambulando, pare assai adatta alla manifestazione dei ritornanti, ricoperta com’è in taluni punti da una patina di tempo che “si stende come una muffa, qualcosa di addirittura palpabile e dotato di un odore particolare.” Altre volte lo sfondo si squarcia all’improvviso come un trabocchetto che mostra profondità ctonie e risucchi fascinosi, cosicché dai palazzi delle vie del centro fuoriesce il richiamo “di non essere nulla, di evaporare, di venire assorbito nell’indistinto”. Anche la saletta del cineclub anni Ottanta su cui si apre Sogni e favole, luogo in via d’estinzione, spalanca all’interno di un normale quartiere borghese lo spazio dell’altrove, caratterizzato da “un tempo speciale che scorreva in maniera tutta sua, come poteva accadere in una fumeria d’oppio, in un padiglione per malati terminali, in un sommergibile”, portando con sé un popolo di esseri dall’incerta esistenza, attraversati dalla luce tremolante e polverosa del proiettore.
Dai luoghi il campo si restringe agli oggetti: la vecchia macchina da presa, scassata o resa inutile dall’evoluzione tecnologica, una giostra come un’epifania in una sera d’inverno, le fotografie che, ancorandosi alla presenza, non rendono immortale il momento ma ce ne ricordano l’inattingibilità e quindi “la nostra transitorietà e futilità”; infine la poltrona nella casa avita di Garboli che fa bella mostra di sé a pagina 132 di Sogni e favole. Qui entriamo nella dimensione decisiva del tempo messa in gioco dal ritrattista Trevi, per il quale “prima o poi, più prima che poi, la storia di un ritratto diventa una storia di spettri”. Allora più della forza del passato che si confronta con il presente, per cui si veda qualche affinità con Michele Mari, o la fine esemplare degli artisti, epigraficamente resa nei libri di Eugenio Baroncelli, con dettagli capaci di eccitare il saggismo come potrebbe succedere per Magrelli, la verità sta nel percorso. L’invecchiamento, “l’usura” della poltrona, sineddoche della casa stessa di Garboli che, a differenza della vita di tutti i giorni e della stragrande maggioranza dell’arte odierna, non viene affannosamente celata, ironicamente imbellettata o trasfigurata. E se “il logorarsi delle cose” è “in fondo così simile al logorarsi umano”, ecco che al vertice del ritratto si collocano le foto di Pasolini nudo, “nient’altro che sé stesso”, e cioè un corpo esposto al tempo, “in carne ed ossa, come un animale, un dio, un condannato a morte”; non dal suo vizio o dalle scottanti scoperte politiche ma dal tempo che è passato su di lui, sui suoi ragazzi e sul suo mondo. Ancor più radicale sarà l’insistito autoritrarsi di Rembrandt: “un essere che invecchia, carne viva che non sa nulla di nulla, ostaggio di un’oscurità più densa e impenetrabile di ogni parola che potrebbe descriverla”. Trevi quindi, come ogni ritrattista onesto e scrittore che fa correre dal bianco al bianco la propria vita in caratteri d’inchiostro, da una parte, come tutti vorremmo credere, ha eternato amici e maestri ma dall’altra li ha consegnati, insieme in primo luogo a se stesso, al processo della nullificazione.