Quasi ogni giorno, o comunque ogni volta che torna ubriaco dal bar scozzese che si trova proprio all’angolo di uno dei quattro incroci che contornano il condominio in cui abitiamo, mio figlio poco prima di accasciarsi sul divano letto dove di solito dorme mi grida che le sue ginocchia si stanno incollando, e che solo per il fatto di infischiarmene completamente io non merito di essere chiamata sua madre. Merito dice, come se fosse poi chissà quale merito aver messo al mondo un pupazzo con le ginocchia di pastafrolla capace solo di ubriacarsi e gridare e piangere davanti a sua madre quando se c’è qualcuno che dovrebbe gridare e piangere quella sono io, se solo sapesse come è venuto al mondo e tutto quello che ho dovuto soffrire da quando è nato smetterebbe di lamentarsi delle sue ginocchia. Invece tutte le volte che si ubriaca, quando sta per buttarsi sul divano o nel mio letto senza che io gliene abbia dato il permesso, subito prima di cadere si abbassa i pantaloni rimanendo così dondolando in mutande davanti al divano o al mio letto, e nel momento in cui si vede le gambe gli torna sempre in mente il fatto delle ginocchia, e allora comincia a piangere e a gridare che con tutto che sono sua madre non gli ho nemmeno chiesto “Come va”, nemmeno una volta da quando è entrato berciando e sbattendo contro le pareti come un gatto investito, neanche un “Come va” mentre ad esempio picchia la testa contro una delle pareti del corridoio che dall’ingresso dell’appartamento porta al bagno e alla mia camera da letto, un semplice “Come va” non si nega nemmeno ad un estraneo, non si nega nemmeno a un cane, è un dato oggettivo mi grida mio figlio con la voce impastata di lacrime e anche se non ricordo di aver mai visto nessuno chiedere a un cane “Come va” preferisco non rispondere e ascoltare il disco rotto di mio figlio che mi fischia e mi rifischia che invece io che sono sua madre non mi sogno nemmeno di chiedergli come sta, al suo stesso figlio, e come stanno le sue ginocchia, come se lui stesso non facesse altro che ripetermelo un giorno dopo l’altro, fin da quando apre gli occhi al mattino non fa che rovesciarmi addosso i suoi lamenti e piangere e agitarsi perché non gli chiedo come va, ma se lo sanno anche i sassi nei muri come va, come vuoi che vada a uno che sale le scale strisciando dopo essersi ubriacato di liquori scozzesi da quattro soldi, lo so già come sta, lo so già che le sue ginocchia si stanno incollando eccetera. Mio figlio si mette a barcollare su e giù per la sala da pranzo dove ha anche il suo letto, tenendo le gambe dritte e rigide come fossero le zampe di un elefante, guarda, mi dice, guarda, guarda, e barcolla con le gambe dritte come tronchi, tutto perché sia chiaro al di là di ogni possibile dubbio che le ginocchia gli si stanno incollando e che presto non sarà più in nessun modo in grado di piegare le gambe “Nemmeno per andare a cagare”, così dice, ma questo è già un altro paio di maniche, direi, un problema per volta.
Come vorrei che mio fratello fosse qui.
***
Io e mio fratello passeggiavamo insieme sugli argini e i canali che il fiume Congo in una specie di infezione geometrica dirama lungo il proprio corpo, vomitando sui campi e nelle vie la sudicia luce della foresta. Mio fratello mi raccontava ogni sorta di storie mentre camminavamo lungo le acque del Congo tenendoci per mano. Capitava di vedere animali morti trascinati dalla corrente, e anche le carogne a volte diventavano delle storie. Persino una pantera, una volta. Pappagalli sbattuti contro il fango e calpestati dai maiali e dalle capre che scendevano a bere. Bisce ingrigite dall’acqua e dalla morte. Mio fratello rimestava con un bastoncino in quella broda putrida di vecchie ossa e mi raccontava di quando un giorno mescolando in quello stesso modo il fango del fiume aveva trovato una pietra magica che gli aveva permesso di imparare il linguaggio dei serpenti e di venire così accolto, solo tra tutti gli uomini (così aveva creduto non appena aveva trovato la pietra), nella Città dei Serpenti.
La Città dei Serpenti è dappertutto, come il nero del cielo di notte, ma per vederla davvero devi venire accolto dai suoi abitanti, e allora imparerai a riconoscerne gli ingressi e i contorti corridoi, ti inchinerai davanti agli ambasciatori della città mentre si inarcano sulla sabbia e muoiono, e quando tutto tace saprai dove appoggiare l’orecchio per scovare l’andirivieni sospirante e flautato dei cittadini su e giù per i passaggi che si sono scavati sottoterra e attraverso i muri di quella che ti ostini a chiamare la tua casa. Volevo vedere la pietra dei serpenti, e allora mio fratello bastonando svogliatamente il fango mi diceva che aveva dovuto liberarsene perché un giorno si era accorto che la pelle della schiena gli si stava staccando, tutta intera, come una specie di molle piastra di cartapecora, e allora i serpenti della Città dei Serpenti gli avevano spiegato che quello era il prezzo da pagare se si voleva entrare nella loro Città: piano piano, a furia di parlarne la lingua, ci si sarebbe trasformati in serpenti, e alcuni di loro a quel punto avevano confessato a mio fratello di essere stati uomini e donne del nostro villaggio che per un motivo o per l’altro erano incappati in quella stessa pietra che mio fratello aveva trovato nel fango, e che c’era voluto un po’ prima che riuscissero a capire che la pietra era stata in effetti impastata nelle fornaci di un villaggio nemico del nostro da uno stregone molto potente. A ripensarci era ovvio: solo dei serpenti che prima fossero stati uomini, mi spiegava mio fratello mentre il fiume Congo srotolava la sua interminabile lingua di ferro sopra di noi, solo umani poi diventati serpenti avrebbero potuto avere l’idea di una città per i serpenti, una gigantesca e sotterranea pelle di serpente verde di fiamme che si arrotola come un tappeto sopra coloro che sono restati umani, emergendo dalla terra e dalle pareti e infettandoli coi suoi denti gonfi di veleno, e questo era quello che sarebbe dovuto accadere al nostro villaggio… ma l’incantesimo dello stregone e la pietra stregata stavano per rivoltarsi contro il loro stesso fattore.
Come ogni cantastorie purosangue fin dalla notte dei tempi, una volta raccolto un qualsiasi rametto dal fango mio fratello non lo abbandonava più fino a quando non avesse finito di raccontare.
Lo stregone aveva impastato la pietra nelle fornaci bianche del villaggio nemico del nostro perché i guerrieri del villaggio nemico erano anche degli abilissimi cacciatori di serpenti, perciò una volta che tutti gli abitanti del villaggio fossero diventati serpenti sarebbe stato facilissimo sterminarli tutti. Quello che lo stregone del villaggio nemico però non aveva compreso fino in fondo era che negli uomini trasformati in serpenti sarebbe comunque rimasta memoria del loro essere uomini (nella sua cieca sete di morte lo stregone aveva anzi ritenuto che proprio nella memoria sarebbe consistita una maggiore pena), e che pertanto, ritrovandosi ad essere una moltitudine con tutti gli altri serpenti della foresta intorno al nostro villaggio, gli abitanti diventati serpenti avrebbero dato vita ad una città, una città che manco a farlo apposta era più grande dei due villaggi messi insieme, il nostro e quello nemico, e si poteva anzi dire che i nostri due villaggi erano ormai di fatto due rioni della Città dei Serpenti.
Quando mio fratello si era reso conto che la piastra di pelle staccatasi dalla sua schiena era un segno che anche lui si stava tramutando in serpente aveva cercato di liberarsi della pietra magica, ma i serpenti ex abitanti del nostro villaggio gli avevano spiegato che non importava quanto lontano mio fratello avrebbe gettato quella pietra, questo sarebbe forse servito a rallentare la maledizione, ma non a cancellarla. L’unico modo per fermare la maledizione sarebbe stato, naturalmente, quello di uccidere lo stregone e bruciarne il corpo insieme alla pietra dentro le fornaci bianche del villaggio nemico. Gli abitanti del villaggio, mi raccontava mio fratello mentre camminavamo sugli stretti sentieri che dividono i campi e i canali che si diramano dal fiume Congo, e intanto con il bastone che aveva raccolto da terra decapitava le rose carnivore che si specchiavano sulle acque grigie del Congo, gli abitanti del villaggio si erano trasformati in serpenti diversi tra loro forse in base alla grandezza del loro cuore o della loro pura e semplice ferocia, comunque sia il serpente più maestoso di tutti era risultato essere una delle donne più anziane del villaggio, una vecchietta che aveva messo al mondo più di dieci figli e tutti li aveva visti morire, una vecchietta pelle e ossa buona ormai solo per cantare vecchie canzoni davanti al fuoco, talmente magra e rinsecchita che quando era ancora un essere umano e si alzava dal suo posto davanti al fuoco dove stava sempre accoccolata, le fiamme la rendevano quasi trasparente, quasi le potevi vedere lo scheletro e lo stomaco e il cuore attraverso la pelle illuminata dal fuoco del falò, e alla fine era stato proprio così che tutti gli abitanti avevano visto, una sera quando come tutte le sere la vecchia si era avvicinata al fuoco per sistemarsi nella sua buca e cominciare a cantare, avevano visto attraverso la sua pelle consumata come tela lisa quello che stava succedendo dentro al suo corpo, ma non avevano detto nulla alla vecchia perché ormai non c’era nulla da fare, e la vecchia aveva cominciato a cantare una delle sue vecchie canzoni e aveva continuato a cantare fino a che la sua voce si era ridotta a un sibilo, e la mattina gli abitanti del villaggio avevano trovato intorno alle braci del falò della notte prima un serpente di lunghezza mai vista, che con il corpo circondava l’intero perimetro del falò, le scaglie come disegni di guerrieri che danzavano palpitando per il respiro dell’anaconda. Dopo essersi scaldata ai primi raggi del sole l’anaconda si era srotolata e inabissata con i suoi guerrieri nei “palazzi” della Città dei Serpenti più vicini al centro della terra, e la canzone che la vecchia anaconda aveva cantato prima di diventare serpente parlava di un uomo che impazzito di gelosia e di un amore contro natura per la propria sorella l’aveva fatta mordere da un serpente e le aveva strappato il cuore ancora palpitante e gonfio di veleno, e aveva offerto il cuore della sorella a un demone della notte perché gli insegnasse le arti della magia nera, e il demone era apparso nel punto più luminoso di una delle bianche fornaci del villaggio e spalancando un’accecante bocca di iena aveva chiesto all’uomo di fargli ingoiare il cuore della sorella, e quando il fuoco si era spento e il demone iena era tornato a dissolversi nel cielo l’uomo rovistando tra la cenere della fornace bianca aveva trovato una pietra… La storia non finiva mai, e se mio fratello fosse qui con i pappagalli morti e le pantere raccoglierebbe un bastoncino e riprenderebbe ancora una volta il racconto, da un punto qualsiasi, come faceva sempre quando eravamo in Africa.
Non esisteva niente, in realtà, che potessimo chiamare “nostro villaggio” o “villaggio nemico”, dato che io e mio fratello vivevamo in un garage in uno dei palazzi della città, ma quando camminavamo accanto alla corrente del Congo io e mio fratello tornavamo ad essere i bambini preistorici di prima di ogni città, di quando i serpenti ricordavano ancora il linguaggio dell’uomo e la luce del fuoco passava attraverso la tua pelle come attraverso una tenda il sole. Quando camminavamo lungo il fiume Congo tenendoci per mano mio fratello mi spiegava come fare per costruire una zattera usando le liane e certi tronchi che volta per volta mi indicava, e mi spiegava che sulla nostra zattera io e lui saremmo potuti scendere lungo il fiume e arrivare fino all’Atlantico, Atlantico, ripeteva mio fratello, per lui era una parola magica, anzi due parole, zattera e Atlantico, come se da quelle due parole fiorissero tutte le storie che mi raccontava quando mi portava a camminare lungo il fiume, e sulla zattera avremmo mangiato pesci e serpenti e coccodrilli, mio fratello avrebbe imparato ad ucciderli, poi si accucciava con me sulla sponda di sabbia molliccia e con una mano si portava alla bocca un po’ dell’acqua del Congo e mi diceva di sentire il sapore dell’oro e dell’argento, e non mi guardava negli occhi come sempre quando voleva dirmi qualcosa di importante, guardava il fiume come se quello fossero i miei occhi e mi diceva che il fiume era pieno d’oro e d’argento, e ci sarebbe bastato gettare delle reti dalla nostra zattera e facendo attenzione ci avremmo trovato, oltre ai pesci e i serpenti di mare e i coccodrilli con cui sfamarci, della polvere d’argento e forse delle pepite d’oro, delle perle e dei diamanti, e quando fossimo arrivati all’Atlantico saremmo sembrati due principi, tutti coperti d’oro e d’argento e conchiglie e becchi d’uccello, la zattera decorata con i denti dei coccodrilli uccisi da mio fratello durante il viaggio, e la vecchia anaconda avrebbe srotolato la propria pelle come un tappeto infuocato, la pelle dell’anaconda si sarebbe sollevata dalla savana in fiamme dell’Atlantico accartocciandosi sui guerrieri del villaggio nemico e sul vecchio stregone, uccidendoli tutti e liberando finalmente il nostro villaggio dalla maledizione, e tutti i serpenti che prima erano uomini avrebbero fatto ritorno nelle loro capanne. Ma noi vivevamo in un garage ai piedi di uno degli ultimi palazzi della città.
La foresta, il bosco, la giungla o come volete chiamarla non era lontana, e poco più in là dei confini della città c’era in effetti un villaggio dove i turisti venivano portati per vedere i “veri selvaggi” dell’età della pietra. Uno di quei “selvaggi” che “vivevano” nel “villaggio” nel “cuore” dell’età della pietra era davvero uno stregone, ma nessuna guida saliva mai fino alla sua capanna per portarci i turisti. Però su di lui esistevano storie terrificanti e i bianchi vogliono sempre sentire storie terribili, bruciano anche loro di sete di morte e così un giorno una troupe di bianchi era salita fino in cima alla montagnola di fango e ossa fuori dal villaggio per intervistare lo stregone, e durante l’intervista lo stregone aveva ucciso un gallo facendogli ascoltare un certo ritmo su un tamburo, poi si era offerto di intrappolare uno dei bambini che teneva sempre con sé, bloccarlo dentro il copertone di un’automobile e poi dargli fuoco. Posso uccidere un bambino per te, aveva detto al bianco. Questo è tutto quello che i bianchi in realtà vogliono dall’Africa, le miniere e i safari e le guerre sono solo una finta, e lo stregone lo aveva capito. Aveva guardato negli occhi il bianco che era venuto per intervistarlo e gli aveva detto che il suo cuore era avvelenato e che non avrebbe trovato pace fino a che non avesse portato ovunque intorno a sé la morte che aveva dentro e gli infettava il sangue. “Your heart”, aveva detto l’interprete all’uomo con il microfono e la telecamera, e aveva sputato in terra.
Mio fratello mi portava nei punti lungo il fiume Congo dove spuntano e crescono i fiori più belli. Li conosceva tutti, e per quelli che non conosceva inventava dei nomi. Ne strappava uno per sé e uno per me, da metterci dietro le orecchie.
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Quando nacque mio figlio l’ospedale venne colpito da un fulmine, e per parecchio tempo restammo senza luce; annaspavo nel buio pazza di paura e di dolore e mi sembrava di vedere ovunque dei globi spettrali ritagliare tenebra dalla tenebra per fissarsi su di me, ed erano occhi di iena, il dio Iena che era venuto a prendermi a cavalcioni del raggio grigio del fulmine, liquefattosi infine nella tenebra della stanza d’ospedale dove avevo messo al mondo mio figlio, un muso di iena grigia vasto come il cielo, i globi neri dei suoi occhi tristi e famelici che pendevano sopra di me, la sua risata di fantasma che svaniva nei cigolii delle porte dell’ospedale. Annaspavo, poi la luce era tornata e da un punto in fondo al letto che non riuscivo a vedere avevo sentito qualcosa lamentarsi e quando avevano sollevato il corpo per pulirlo dal sangue io aveva pensato che la Iena fosse riuscita a coagulare della tenebra in un piccolo demone di sangue, ero talmente impazzita per il dolore e per la paura del fulmine e del buio che non mi ero nemmeno resa conto che quel grumo di sangue che si lamentava con una dolce voce di gallina era mio figlio. Mi chiesero quale fosse il suo nome e io dissi il nome di mio fratello, poi mio figlio cominciò a piangere. Teneva sempre gli occhi chiusi e li aveva aperti solo dopo due giorni se non si conta quando glieli avevo aperti io a forza, ancora spaventata dalla Iena e temendo che avesse rubato gli occhi di mio figlio per costruire il suo demone di sangue. Piangeva piano come una piccola gallinella, e giurai che non l’avrei mai lasciato andare via da me.
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L’appartamento al settimo piano in cui abitiamo io e mio figlio è perfetto per osservare i fulmini, così dice mio figlio, è anzi la prima cosa che ha detto quando ha visto il nostro appartamento, “Perfetto per osservare i fulmini”, e io non capivo se lo dicesse con gioia o fastidio. L’intero condominio a forma di sghembo prisma rettangolare è stato sistemato proprio in un punto della città al confine con i campi e più oltre i falò, e da queste parti ogni volta che c’è un temporale cadono in effetti sempre moltissimi fulmini, quasi per ubbidire ai desideri di mio figlio. In più le finestre della specie di torre in cui abitiamo da ormai non so più quanti anni sono quadrate e molto grandi, e permettono allo sguardo di spaziare lungo tutto l’orizzonte occidentale fino alle montagne. La notte i fulmini cadono attraverso il riflesso parziale mio e di mio figlio seduti davanti alla finestra, cadono attraverso la libreria e le fotografie di famiglia, nel riflesso parziale dei vetri delle grandi finestre quadrate del nostro appartamento e così tutto, i mobili le pareti e persino noi stessi sembriamo sospesi là fuori, traversati dalla pioggia e da fulmini che a volte cadono così fitti da far sembrare la città una specie di giardino fantascientifico, con le scariche elettriche al posto dei tronchi e dei rami e le radici che si aggrappano disperatamente di traverso alle nuvole.
Non tutti i fulmini toccano terra. Alcuni restano sospesi, orizzontali, artigliando le nuvole con un uncino bianco, e poi svaniscono quasi senza rumore, come lunghi gattoserpenti che si dileguano nella polvere dei cantieri di Waltzwaltz. Ogni volta che un temporale passa davanti alle nostre finestre mio figlio prende una macchina fotografica o anche semplicemente il telefono e si pianta lì seduto sopra una sedia davanti a una delle due grandi finestre quadrate del salotto che di solito usa anche come camera da letto e cerca di fotografare i fulmini che cadono. Spesso invece dei fulmini mi capita di fermarmi ad osservare lui, mio figlio, seduto davanti alla finestra tutto proteso e rigido, la bocca semiaperta e i denti scoperti da un lato, in attesa dei fulmini. I fulmini cadono soprattutto prima o dopo la pioggia, o almeno è lì che si riesce a fotografarli, e quando cominciano le prime gocce di pioggia mio figlio aspetta ancora un po’, incastrato in quella posizione che magari ha tenuto per più di un’ora, poi si passa una mano sulla faccia, mette via la macchina fotografica e torna normale, cioè il solito di sempre, tranne che per un po’ quasi si dimentica di urlare, ma è solo perché per un po’ è riuscito a dimenticarsi di me. Ma io sono e sarò sempre qui, con lui.
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Mio figlio deve scattare centinaia di fotografie prima di riuscire a catturare anche un solo fulmine.
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In camera di mio figlio c’è ancora un pupazzo che sembra fatto di stecchi di legno, i piedi simili a due ciottoli. Il pupazzo è disegnato su un foglio, e tanti anni fa mio figlio bambino l’aveva portato a suo padre, mio marito, dicendogli “Questo sei tu, ti ho fatto una fotografia”. Vicino al pupazzo di stecchi di legno che per mio figlio bambino era una fotografia di suo padre c’era anche una specie di gigantesco centopiedi. Mio marito aveva chiesto a mio figlio cosa fosse quella creatura e mio figlio aveva risposto che era un drago che aveva visto in sogno, e allora suo padre lo aveva preso in braccio e gli aveva spiegato che il pupazzo di stecchi di legno non era una fotografia, e che su uno stesso foglio si potevano disegnare sia le cose vere come i nostri genitori che le cose dei sogni come i draghi e farle stare insieme, ma con la fotografia no, a meno di non usare dei trucchi. Quella sera quando ero entrata in camera sua per dargli la buonanotte mi ero accorta che mio figlio stava nascondendo qualcosa sotto le coperte, e quando gli avevo chiesto di mostrarmi cosa stesse nascondendo aveva tirato fuori una vecchia macchina fotografica portatile Kodak. Mio figlio mi aveva detto che quella notte avrebbe dormito con la macchina fotografica e che se avesse sognato qualcosa di interessante lo avrebbe fotografato. “Ma non potrà stare insieme con quel che vedo da sveglio, lo so, perché con la fotografia prendi solo quello che hai davanti quando la fai, e nient’altro”.
Quando mio figlio cerca di fotografare i fulmini, seduto così tutto rattrappito intorno alla macchina fotografica o al telefono, mi torna sempre in mente quella Kodak mezzo rotta nascosta sotto le coperte, e anche oggi ogni volta che mio figlio si accartoccia sulla sedia al suo confronto così piccola da sembrare il sellino di una bicicletta per fotografare i fulmini mi sembra che non sia mai riuscito ad uscire da quella trappola della macchina fotografica sotto le coperte, eccolo lì ancora bloccato sulla sua seggiolina, bambino gigante con la faccia contro la macchina fotografica o vicinissima al telefono quasi volesse mangiarselo, la bocca mezzo aperta in un mezzo ghigno che coi fulmini e tutto gli dà un qualcosa di marinaresco, da pirata quasi, con quei lampi da fuori che lo illuminano e lui che impreca perché il più delle volte non riesce a fotografarli, manca solo che dica “Corpo di mille balene” e ci siamo.
I fulmini passano e ripassano nelle stesse zone del cielo come costellazioni istantanee. Guardando una dopo l’altra le fotografie che mio figlio è riuscito a scattare ai fulmini che nel corso degli anni sono caduti davanti alle grandi finestre quadrate del nostro appartamento si finisce per rendersi conto che i fulmini tornano e ritornano sempre sugli stessi punti, ogni volta variando solo di un pochettino il percorso precedente, come avessero anche loro i loro viali e le loro piazze, o come le persone che continuano per tutta la vita a ripetere le stesse parole e pur continuando a ripeterle riescono, grazie a piccoli spostamenti o veri e propri scossoni ad ogni ripetizione, ad avere l’illusione, col tempo, di essere riuscite a dire qualcosa di diverso, magari perfino a rivelare un segreto. I fulmini strisciano velocissimi sopra la smorfia da corsaro di mio figlio ingobbito e quasi arrotolato intorno alla macchina fotografica o al telefono, pronto per fotografarli, inchiodato da sotto a quella seggiolina che nel buio della sala da pranzo sembra quasi sul punto di sparirgli su per il culo, e nessuno me compresa vedrebbe mai la smorfia e la posizione rattrappita di mio figlio se i fulmini non la illuminassero, perché ogni volta che durante un temporale mio figlio cerca di fotografare i fulmini dobbiamo per forza di cose spegnere tutte le luci del salotto, altrimenti nella fotografia si vedrebbe il riflesso parziale del nostro appartamento come se fosse sospeso sotto le nuvole fuori dalla finestra, e questo è un caso in cui come con un sogno verrebbe fotografato ciò che si vede ma non ciò che c’è, dato che naturalmente fuori dalla nostra finestra al settimo piano di questa torre grigia non c’è nessun appartamento. Tanti anni fa avevo visto un film in cui una bambina riusciva a passare attraverso uno specchio ritrovandosi in un mondo tutto al contrario, pieno di esseri che non facevano che cantare e suggerirle scemenze, ma se la bambina di quel film provasse ad attraversare il mezzo specchio della nostra della finestra si ritroverebbe in un appartamento semitrasparente del tutto inadatto a sostenere il peso di una bambina, perché una finestra non è uno specchio ma quasi uno specchio, è questo il bello delle finestre ed è quello che però anche ti frega. Oppure lei stessa, la bambina, passando dall’altra parte diventerebbe semitrasparente come un’anima dell’inferno lasciando da questa parte la sua carne scorticata e insomma o si sfracellerebbe sette piani più sotto o lascerebbe qui una specie di pupazzo di sangue folle di rabbia mentre lei vivrebbe stupide avventure semitrasparenti nell’appartamento riflesso nel vetro della nostra finestra, e magari di avventura in avventura la bambina finirebbe per raggiungere Schwarzschwarz e i suoi falò, ma uno non so se nemmeno Schwarzschwarz sia il luogo adatto per una bambina e due a me e mio figlio basterebbe spegnere la luce per far sparire lei e tutto il resto e mandare la favola a gambe all’aria.
(Nel ristorante Soni Toko Yu dove lavoravo prima che mio marito morisse con il cranio fracassato contro il marciapiede da un balordo che la notte si era piantato sotto casa nostra con l’autoradio a tutto volume e che alle proteste di mio marito che era sceso per dirgli di abbassare il volume aveva reagito saltandogli al collo e prendendolo per il bavero e sbattendogli poi la nuca contro il bordo del marciapiede fino a spaccargliela mentre la radio dentro l’automobile strillava
un giorno la incontrai sola sola,
il cuore mi batteva a cento all’ora,
nel ristorante Soni Toko Yu non c’era nemmeno uno specchio. Nemmeno nei gabinetti del ristorante Soni Toko Yu avresti trovato degli specchi. Una volta fattoci caso si finiva prima o poi per accorgersi che nel ristorante Soni Toko Yu era molto difficile trovare anche solo una superficie riflettente. Le stesse posate erano di un metallo opaco, di colore un po’ più scuro di quello del rame. Tutti i vetri delle finestre erano nascosti da tende verdi, e persino i bicchieri erano lavorati a quadrettature rientranti che cancellavano ogni possibile riflesso. A volte mi chiedevo cosa avrebbe fatto la direzione del ristorante Soni Toko Yu se avessi portato di nascosto uno specchio con me, o magari una di quelle bambole di legno che avevo portato con me dal Congo, il ventre delle quali, mezzo nascosto dai chiodi arrugginiti, le ossa, le perline di vetro e i pezzetti di stracci che bucherellavano e decoravano il corpo di legno del demone, il ventre delle quali aveva a volte nel proprio centro uno specchio, forse perché lo specchio significava mangiare, o forse perché mangiare significa rivelare la verità a chi viene mangiato. Ogni specchio è una bocca africana spalancata che ci ha inghiottito tutti, da sempre. Forse avrei dovuto portare con me senza che nessuno la vedesse una di quelle statuine con lo specchio sulla pancia e seppellirla da qualche parte in modo che proprio sotto i piedi della direzione del ristorante Soni Toko Yu ci fosse un demone con uno specchio al posto della pancia, uno specchio in grado di mangiare tutto e contornato di chiodi, collanine, capelli e scaglie di pesce, conchiglie benedette da spruzzi di Lotoko sputati da stregoni usciti come insetti dalla poltiglia verde del Congo per arrivare fino qui con la gola piena dei loro demoni e delle loro risate di iena. Fuori dal ristorante capitavano spesso dei guasti alle strumentazioni elettriche delle automobili, e il ristorante stesso era costruito ai bordi di un parcheggio, una zona vuota della città dove nessuno aveva mai costruito nulla. Oggi naturalmente tutti sanno che il parcheggio ai cui bordi era stato costruito il ristorante Soni Toko Yu era una delle prime insorgenze del villaggio di Waltzwaltz, ma a quei tempi nessuno aveva ancora mai sentito parlare nemmeno del quartiere degli organetti di Barberia o delle sparizioni dei bambini sotto le tavolate durante i pranzi di matrimonio. I guasti alle delicatissime lancette e bolle necessarie per tracciare nell’aria le linee che poi solidificavano in edifici venivano spiegati con vaghi riferimenti all’acqua presente sotto il parcheggio, filtrata nessuno sapeva bene da dove, e forse contaminata di una qualche sostanza il cui elettromagnetismo eccetera eccetera, con spiegazioni quasi altrettanto fumose di quella con cui scienziati e stregoni circondano la cosiddetta nascita del cosmo) [NOTA: Si percepisce chiaramente qui l’influsso delle famose Omelie della Scomunica di padre G. Giorgio intorno all’origine del Mondo, e si divina pertanto un rapporto di confessione tra il padre e la donna].
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Mio marito è scomparso in un incendio provocato dai mozziconi di matita che teneva nel posacenere sul tavolino nel ripostiglio dove ogni notte si rintanava per scrivere i suoi poemi e i suoi romanzi.
Quando i dolori alla testa lo svegliavano nel cuore della notte mio marito si alzava e si chiudeva nel ripostiglio tra scarpe stivali ciabatte carta straccia e insetticidi per scrivere montagne di racconti, poesie e romanzi tutti dal primo all’ultimo ambientati nel luogo in cui lavorava e che si accatastavano in quaderni e pile di fogli sul comodino in un angolo del ripostiglio in fondo al quale mio marito strisciava la notte quando aveva uno dei suoi attacchi di insonnia e lì tra scatole pantofole scope e detersivi si metteva a scrivere i suoi romanzi e poemi ispirati al luogo in cui lavorava e ai suoi colleghi fumando e scrivendo e buttando nello stesso posacenere dato che nel ripostiglio c’era a malapena lo spazio per sbattere le palpebre, come diceva sempre mio marito, scriveva e scriveva buttando nello stesso posacenere i mozziconi di sigarette e i mozziconi delle matite con cui scriveva e scriveva i suoi romanzi impilati uno sopra l’altro sul minuscolo tavolino da campeggio che mio marito usava come scrittoio, romanzi tutti ambientati nel luogo in cui lavorava o nella nostra stessa casa e che finivano tutti con la sua morte per questo o quest’altro incidente, a volte sul luogo di lavoro a volte in casa a volte sotto casa ammazzato da qualcuno, già, tanto che, già, anche quello che sto scrivendo ora io potrebbe essere benissimo uno dei romanzi di mio marito, non mi stupirebbe proprio per nulla, e quella che sembro essere io potrebbe in realtà benissimo essere mio marito che scrive uno dei suoi romanzi chiuso nello sgabuzzino delle pantofole, anzi potrebbe benissimo essere che io non sia mai nemmeno esistita, ecco perché le parole continuano a sfarfallare, e nessuno potrebbe farci un bel niente se venisse fuori che quello che io chiamo “marito” mi avesse in realtà inventata di sana pianta e imprigionata qui tra queste parole che ora sfarfallano senza tregua condannandomi ingiustamente a raccontare e raccontare e raccontare le finte storie della sua morte per sempre, non sarei stupita nemmeno un po’ di trovare qualcosa del genere in mezzo al ciarpame di appunti che ancora sono rimasti dopo l’incendio e che ho raccolto sistemato in una decina di scatole di scarpe perché nessuno potesse dire o anche soltanto pensare che non l’amassi ancora con tutta me stessa. Forse nemmeno mio figlio è mai esistito e non ha mai urlato un bel nulla, questo settimo piano e questa torre grigia potrebbero benissimo essere il parto di uno sconosciuto che non riesce a dormire e si chiude in uno stanzino a immaginare i modi più diversi per finalmente morire, chi dice di no? potrebbe essere tutto finto e nessuno se ne accorgerebbe mai. Ma anche se fosse tutto vero nessuno se ne accorgerebbe mai, e quindi che differenza vuoi che faccia per me e mio figlio, questo è il punto.
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Quando aveva i suoi attacchi di insonnia mio marito si abbarbicava sul suo tavolino da campeggio dietro le montagne di secchi spazzolini e saponette del ripostiglio e cominciava a scrivere i suoi romanzi fino a cadere addormentato. La mattina quando entravo nel ripostiglio per prendere le scarpe lo trovavo addormentato sui mucchi di fustini e spugne e shampoo e scarponi, quasi mai quando gli venivano i suoi attacchi di insonnia mio marito poi tornava a letto e questo perché, come diceva lui, aveva il terrore di svegliarmi, parlava proprio di “terrore” anche se io non gli avevo mai detto che il fatto che lui tornasse a letto da me nel cuore della notte dopo aver finito di lavorare ed essersi ammazzato sui suoi romanzi, mai nemmeno una volta mi era passato anche solo per l’anticamera del cervello di dirgli che la cosa mi avrebbe dato il benché minimo fastidio, eppure lui, nel tempo e per conto proprio, quasi una specie di contorto hobby personale, aveva sviluppato un sempre più forte terrore per il fatto di potermi svegliare nel sonno (diceva appunto “svegliare nel sonno”, parole che per me non avevano alcun senso) quando tornava dopo essere rimasto a scrivere nello stanzino fino a che, come diceva lui, non gli sembrasse che metà delle cose che scriveva fossero scritte in sogno, arrivava cioè un momento in cui iniziava a scrivere una frase da sveglio e finiva di scriverla in sogno, e quello era il momento in cui mio marito era solito addormentarsi, di solito con la testa sul tavolino, come un ubriacone di un vecchio film in bianco e nero, altre volte allungandosi tra scarpe e scope per quanto ci si poteva allungare dentro quel ripostiglio, ma forse (ah, non mi avesse mai attraversato il pensiero) così come scriveva parte di una frase da sveglio e finiva il resto in sogno, mio marito faceva anche un passo da sveglio verso la camera da letto mentre poi il prossimo lo faceva nel sogno, finendo per accasciarsi tra le scope e i battipanni dove lo trovavo la mattina quando aprivo il ripostiglio per prendere le scarpe e andare al lavoro. Forse era così, un passo nel ripostiglio e un passo nel sonno attraverso le pareti di carta del ripostiglio. Forse le frasi che mio marito, il padre di mio figlio, scriveva in sogno non parlavano del suo luogo di lavoro ma di casa sua ovvero della casa in cui entrava dopo aver fatto l’altro passo, e la moglie descritta nelle frasi dei romanzi che mio marito aveva scritto in sogno era un’altra donna, una donna che non sopportava l’idea di essere svegliata nel cuore della notte da un marito insonne che torna a letto. Chi era quella donna? La notte mi mordevo le mani a sangue e avrei quasi voluto entrare nello stanzino e riprendermi mio marito trascinandolo per un piede fino al letto, che si credeva quella puttana, di poter spadroneggiare così in casa mia, e forse anche quando dopo aver finito di scrivere mio marito si avviava per tornare a letto, il primo passo, quello che faceva da sveglio, lo portava giusto sopra il mucchio di stivali di gomma e sacchetti di carta ammassati in un angolo del ripostiglio, ma il passo successivo, eseguito in sogno, lo portava tra le braccia di quella donna che non sopportava di essere svegliata e che quando lui in sogno la svegliava gli diceva cose talmente terribili che mio marito era ormai pietrificato dalla sola idea di svegliarla, io so com’era fatto, avrebbe preferito tagliarsi la gola con una delle lamette in uno degli armadietti del ripostiglio piuttosto di contrariarla anche solo di un soffio, e devo confessare che a volte quando mio marito era al lavoro io ero entrata di nascosto nel ripostiglio e avevo superato il mucchio di scarpe, scatoloni, stracci, barattoli vuoti al riparo del quale mio marito aveva installato il proprio tavolino e avevo provato a sbirciare tra i suoi romanzi e racconti, nelle opere complete di mio marito per trovare almeno una traccia di quella donna che con le sue formule magiche era riuscita ad allontanare mio marito dal mio no suo no nostro letto, IL NOSTRO LETTO! immaginavo di gridare alla strega dei sogni per spezzare le sua maledizione, muovevo le labbra come se gridassi IL NOSTRO LETTO! con il cuore in fiamme, tuffando la faccia nel cuscino perché magari mi ero svegliata e avevo visto che mio marito non c’era e ero rimasta sveglia a immaginare di entrare pian piano nello stanzino e finalmente di vederla, la donna fantasma che ogni notte succhiava il sangue di mio marito arrotolandosi sopra di lui per impedirgli di tornare da me, e di affrontarla finalmente una volta per tutte, perché se mio marito nonostante le mie rassicurazioni restava terrorizzato dall’idea di svegliarmi voleva dire che ormai il suo cuore apparteneva a quella strega dei sogni che lui, speravo almeno questo, aveva scambiato per me, speravo almeno questo perché allora avrebbe voluto dire che in fondo era ancora me che amava, ed ero ormai così disperata da essere disposta a vivere il resto dei miei giorni come diciamo strega secondaria, strega dei sogni dei sogni. Ah! e se fosse stata proprio lei, la strega, in un sogno molto antico e ormai dimenticato e perciò fuso nella realtà, a suggerire a mio marito di combattere l’insonnia andandosi a barricare nello stanzino delle scarpe incastrandosi nell’angolo tra la catasta di scarpe e il tavolino, avvitandosi sul vecchio sgabello per scrivere sia nella realtà che nel sogno pile e pile di romanzi, poemi e racconti, paralizzato dal terrore di svegliarmi ritornando a letto? Stringevo mio figlio a me fino a svegliarlo e farlo piangere, ma anche così continuavo a stringere.
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In base ai miei calcoli quasi un terzo dei romanzi scritti da mio marito è stato scritto in sogno, tra le braccia della strega che si è impadronita della mia pelle per dominare il cuore di mio marito, e di sicuro non è un caso che viceversa io ormai abbia smesso ormai da anni di sognare. Mi sembra siano passati almeno cent’anni dall’ultima volta che ho fatto un sogno. Ora che ci penso credo proprio di aver smesso di sognare da quando mio marito ha cominciato a passare la notte nell’angolo più buio del ripostiglio per scrivere nel sonno romanzi riguardanti il suo lavoro nella fabbrica di solventi industriali. Non ho idea di come una persona possa scrivere romanzi, poesie e poemi su una fabbrica di solventi industriali, ma è anche vero che non sono mai entrata in un posto del genere, né ho la minima idea di come si possa scrivere un romanzo riguardo qualsiasi cosa. Ci vuole immaginazione, mi aveva risposto mio marito quando gli avevo chiesto come avesse fatto a mettere insieme tutte quelle pile di fogli accatastati sotto il tavolino, ma forse già allora sospettavo ci fosse un trucco, nessuno potrebbe mai scrivere nessun romanzo senza usare almeno un trucco che ti dia sì l’impressione di aver letto centinaia di pagine, ma nella realtà tutte quelle pagine le hai lette soltanto in sogno, basta guardare come sono alti certi libri, com’è mai possibile che una persona possa leggere tutte quelle pagine, no, è di certo un trucco, i romanzi vengono sempre quasi per intero letti in sogno, dev’essere questa l’immaginazione di cui parlava mio marito, perché altrimenti non saprei dire quanta immaginazione occorra per raccontare quello che succede in una fabbrica di solventi industriali in cui lavori già, anche se quando gliel’ho chiesto mio marito mi aveva risposto che se ci lavori di immaginazione ce ne vuole ancora di più.
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Gli insetti bianchi sono comparsi quando è morta la donna che abitava esattamente sotto l’appartamento in cui abitiamo io e mio figlio. Guardandoli da vicino hanno come una pelle di pesce, bianca, che ricopre i loro corpi a forma di virgola. Gli insetti bianchi scivolano tra le commessure dei listelli di legno, tra le pagine dei libri, sotto i mobili, quasi esseri bidimensionali semplicemente disegnati sulla superficie del nostro appartamento e messi in moto dalla morte della donna che viveva sotto di noi. A volte mio figlio si mette a gridare contro di me per via degli insetti bianchi sgorgati dalle viscere della donna che è morta soffocata durante il sonno per aver inghiottito la sua stessa lingua, sgorgati dalla donna morta nell’appartamento sotto il nostro e strisciati fin da noi lungo crepe più sottili di un capello, mio figlio grida e grida neanche fossi stata io a arrotolare la lingua di quella povera donna giù per la sua gola. Mio figlio grida perché a volte la notte non oso chiudere gli occhi per paura che uno degli insetti bianchi possa strisciare sotto le mie palpebre e installarmisi dietro l’iride proprio come era successo a suo padre, mio marito, la cui pupilla sinistra era diventata dello stesso bianco sporco di quegli insetti. Lui lo chiamava il verme, ma a me è chiaro come il sole che quello che gli stava mangiando l’occhio dando il via all’infezione che un centimetro dopo l’altro lo avrebbe portato alla tomba era uno degli insetti coagulatisi nella gola della signora che viveva nell’appartamento sotto il nostro, trovata nel suo letto quando era ormai passato non so più quanto tempo dalla sua morte. Aveva i capelli lisci e tinti di nero corvino come quelli di una bambola, e come una bambola sembrava avere in gola un disco rotto che le faceva dire sempre le stesse frasi e cantare e ricantare sempre la stessa canzone camminando avanti e indietro lungo il proprio appartamento, e la canzone era l’aria della Regina della Notte, così si chiamavano le note che la donna continuava a cantare, io lo so perché ormai lo sapevamo tutti nel condominio al cui settimo piano abitiamo io e mio figlio, la Regina della Notte, l’aria della Regina della Notte, dicevano tutti in ascensore o per le scale, e tutti sembravano conoscere quella canzone stridula che la donna che viveva sotto di noi e che hanno trovato morta nel suo letto dopo mesi che aveva smesso di farsi vedere e di cantare cantava con un tono di voce tanto acuto e stravolto da sembrare il lamento di un cane o di un qualche uccello di palude, e finché mio figlio gridando non mi ha spiegato che l’aria della Regina della Notte era una delle parti più famose del Flauto Magico di Mozart e che io ero una zotica ignorante a non sapere nemmeno chi fosse Mozart, io avevo creduto che quella della Regina della Notte fosse una storia di troie e culattoni, altrimenti perché tutti quegli squittii dal piano di sotto, e invece era una parte del Flauto Magico di Mozart, capirai, e quando mio figlio cominciava a gridarmi “Flauto Magico” a due centimetri dalla faccia io dovevo mordermi a sangue le labbra per non parlare e non fare le domande sporche che quel flauto mi faceva venire in mente, insomma che magie puoi far mai con un flauto che non siano delle chiassosissime porcate, sapeva ben lei come farlo fischiare quel flauto, povera donna, domande che di sicuro avrebbero mandato talmente in bestia mio figlio che non avrebbe esitato a spaccarmi la testa a pugni, gridandomi “Flauto Magico” e premendo la mia testa contro la parete e prendendo a pugni prima la parete e poi avvicinando sempre più i colpi al mio volto e infine sfracellandomi la testa di pugni contro la parete della mia camera senza mai smettere di gridare “Flauto Magico”, e allora anche lui alla fine si sarebbe trovato la mano tutta piena di insetti bianchi, e anche i suoi occhi sarebbero diventati bianchi come quelli di suo padre e nell’appartamento e forse nell’intero condominio sarebbe finalmente tornata la pace, e tutto il merito se lo sarebbe preso Mozart.
Un capolavoro assoluto, mio figlio non faceva che ripetere “capolavoro assoluto” gridando a due centimetri dalla mia faccia e dandomi della vecchia rincretinita, ma per me “capolavoro assoluto” voleva dire tanto che “Flauto Magico”, e poi se era così importante perché l’unica persona in tutto il palazzo a squittire con quel flauto infilato non so dove perché chi l’aveva mai sentito il flauto quindi se non lo suonava era ovvio che–– ma chi sono poi io per giudicare, e comunque l’unica in tutto il palazzo a cantare il capolavoro assoluto era la signora che viveva sotto di noi, proprio tra l’appartamento e lo studio dell’avvocato. So ben io che magie faceva, con tutto quello squittire, altro che regina della notte. Con quel capello corvino. A volte mi mordevo le labbra o la lingua così forte che un filo di sangue mi usciva da un lato della bocca e mi colava lungo il collo. Tutto quello che so è che ad un certo punto a furia di girare il disco rotto incastrato nella gola della bambola stregata che viveva nell’appartamento sotto il nostro deve essersi rinsecchito e sbriciolato in miriadi di insetti bianchi che arrampicandosi lungo la gola della vecchia morta e scivolando e filtrando lungo crepe invisibili attraverso il cemento del nostro palazzo sono riusciti ad arrivare nel nostro appartamento, gli insetti del capolavoro assoluto, ed è solo questione di tempo prima che trovino il modo di scavarsi un nido anche nella mia gola per ficcare anche lì un disco rotto col capolavoro assoluto della Regina della Notte.
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Ieri, mentre io e mio figlio eravamo seduti al tavolo del bar scozzese ai piedi del nostro palazzo ho sentito cantare da un altro balcone di un altro palazzo, da un’altra vecchia, quella stessa aria della Regina della Notte. Così gli insetti di Mozart sono arrivati anche lì, ho pensato, forse tendendo ragnatele invisibili tra un fiore e l’altro, di davanzale in davanzale, alcuni ragni volano così, divincolandosi nell’azzurro, li ho visti coi miei occhi, sulle loro corde invisibili o quasi, oppure gli insetti bianchi che sono usciti dal cadavere della signora che viveva sotto di noi sono riusciti a insinuarsi tra le piume degli uccelli, dietro gli artigli dei gatti, moltiplicandosi e prosperando e scivolando giù per i comignoli fino a che tutta la città risuonerà degli striduli cigolii del capolavoro assoluto, una finestra dopo l’altra di Regine della Notte. E poi, come se questo fosse il solo posto da dove sbucano degli insetti. Ne sbucano anche di velenosissimi del terreno in cui sorgeva la fabbrica dove è morto mio marito precipitando da una scala a pioli sulla quale era salito per aiutare un colombo che chissà come era rimasto incastrato in uno degli infiniti tubi che tatuavano la fabbrica come il corpo di uno stregone del Congo. Quel terreno è oggi un parco pubblico, ma non consiglierei a nessuno di farci un picnic. Proprio al centro del parco è stata costruita una serra alla quale nessuno può accedere. È una specie di gigantesca capanna di lastre di vetro dentro la quale un frammento di giungla irreparabilmente contaminato dal vomito di sole attraverso i vetri della serra e dai veleni che la fabbrica in cui mio marito è morto ha lasciato nel terreno. Bruciato vivo, così è morto mio marito, bruciato dall’interno dai gas rimasti sospesi nella cisterna di metallo che doveva pulire. Quando i medici hanno aperto il suo corpo hanno trovato tutto nero, come carbonizzato, mentre la pelle fuori era immacolata: incenerito da dentro, mi hanno detto, e io avevo pensato che sarebbe potuta diventare una nuova pena di morte, un rogo tutto interiore che lasci immacolato il nostro aspetto. Non sarebbe bello? Nei giorni prima di morire mio marito diceva sempre di sentire come un filo o un capello in gola, qualcosa come un capello arrotolato intorno all’ugola. Dopo che l’hanno portato via ormai tutto incenerito, rovistando come una pazza tra le sue carte e le sue montagne di romanzi, scavando a due mani con la furia di un cane che dissotterra un osso, guidata dalla cecità del mio dolore ho trovato una favola senza finale che probabilmente parlava della sua gola e del filo che mio marito ci sentiva sempre dentro, filo che in realtà non era forse che una sottilissima crepa del fuoco senza fiamme che lo stava incenerendo, filo che nella favola diventava una corda sospesa lungo un budello di roccia che scendeva verso il centro della terra e lungo la quale gli abitanti di chissà quale villaggio in superficie si stavano calando da tempo immemorabile, ma non so se tra loro fosse nascosta anche quella donna.
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Un tempo uno dei nostri giochi preferiti, miei e di mio marito quando ancora era vivo e nostro figlio non era ancora nato, era rischiare di fare incidenti mortali per raccogliere dei fiori che io vedevo sul ciglio della strada mentre facevamo uno dei nostri viaggi. Per esempio lungo la costa giavanese annegata nel fango arancione del sole ecco che vedevo balenare una minuscola macchiolina rosa, come il berrettino fuggitivo di un elfo, e gridavo a mio marito, “Frena!” e subito mio marito inchiodava sul posto il motorino o l’automobile o qualunque cosa avessimo noleggiato per attraversare da un capo all’altro l’isola di Giava o qualsiasi altro posto e si avvitava in un testacoda suicida, non importava chi ci stesse dietro o chi stesse arrivando dall’altro lato della strada, e quando l’orizzonte iniziava a vorticarmi intorno fino a farsi una linea tremula di colore io gridavo e ridevo con le lacrime agli occhi pensando ecco la morte, moriremo perché mi è sembrato di vedere il berrettino rosa di un elfo, ecco, tutte le streghe del mondo non potranno mai prenderci perché moriremo nel fango del ciglio della strada di Giava, come il prode Gianni Sherwood contro il Serpente dell’ultima volta.
[continua il 22 luglio]