(da Il diavolo sulle colline)
Cap. 3
La sera non vennero né Pieretto né Oreste. Io, quell’anno, quando restavo solo passavo brutti quarti d’ora. Rientrare in casa per studiare non aveva nessun senso; ero troppo avvezzo a vivere e discorrere con Pieretto e girare le strade; c’era nell’aria, nel movimento, nel buio stesso dei viali più cose che non potessi capire e godermi. Ero sempre sul punto di accostare una ragazza o ficcarmi in una bettola equivoca oppure decidere di mettermi su un viale e andare andare fino a giorno, per ritrovarmi chissà dove. Invece giravo le solite strade, passavo e ripassavo i crocicchi e le insegne, rivedevo le facce. A volte mi piantavo irresoluto in un angolo e ci stavo delle mezz’ore, infuriato con me stesso.
Cap. 6
Andai a casa e mi buttai sul letto. Sentivo mia madre aggirarsi nel corridoio e rimandavo il momento dell’incontro. Non volevo dormire, soltanto riprendermi. Nella stanchezza mi riusciva facile non pensare alla notte, ai disordini, ai singhiozzi di Rosalba, e sprofondavo in quel cielo che avevo sognato nel dormiveglia sotto la luce fresca, indugiavo nelle viuzze del paese, guardavo all’insù. Li conoscevo questi borghi ammucchiati nelle campagne. Conoscevo l’orto estivo nella casa dei vecchi dove i miei mi mandavano a far campagna da ragazzo, un paese in pianura, tra rogge e siepi d’alberi, dai vicoli con i portici bassi e fette di cielo altissime. Della mia infanzia non mi restava altro che l’estate. Le vie strette che sbucavano nei campi da ogni parte, di giorno e di sera, erano i cancelli della vita e del mondo. Gran meraviglia se un’automobile strombettante, giunta da chissà dove, traversasse il paese sulla strada maestra e dileguasse chissà dove verso nuove città, verso il mare, sconvolgendo ragazzi e polvere.
Cap. 7
In quell’estate andavo in Po, un’ora o due, al mattino. Mi piaceva sudare al remo e poi cacciarmi nell’acqua fredda, ancora buia, che entra negli occhi e li lava. Andavo quasi sempre solo, perché Pieretto a quell’ora se ne dormiva. Se veniva anche lui, mi governava la barca quando io nuotavo. Si risaliva a forza di remo la corrente sotto i ponti, lungo le rive murate, e si sbucava tra gli argini e le piante, sotto il fianco della collina. La collina sovrastante era bella al ritorno, fumando la prima pipa, e per quanto fosse ancora giugno, a quell’ora la velava ancora un’umidità, un fiato fresco di radici. Fu sulle tavole di quella barca che presi gusto all’aria aperta e capii che il gusto dell’acqua e della terra continua di là dall’infanzia, di là da un orto e da un frutteto. Tutta la vita, pensavo in quei mattini, è come un gioco sotto il sole.
“Non c’è niente che sappia di morte” continuò “più del sole d’estate, della gran luce, della natura esuberante. Tu fiuti l’aria e senti il bosco, e ti accorgi che piante e bestie se ne infischiano di te. Tutto vive e si macera in se stesso. La natura è la morte”
Cap. 19
Quell’idea che nei boschi il gran sole d’estate sappia di morte, era vera. Qui nessuno rompeva la terra per cavarne qualcosa, nessuno ci viveva; un tempo avevano provato e poi smesso.
Pieretto disse a Gabriella: “Non capisco perché voi due non ci passiate l’inverno in questo chiosco. Mangereste radici. Trovereste la pace dei sensi. D’estate la campagna è disgustosa, è un’orgia sessuale di polpa e di succhi. Soltanto l’inverno è la stagione dell’anima”.
Cap. 20
Oreste, avanti, cianciava di una volta ch’era stato a cavallo. E Poli, dietro, discuteva con Pieretto. “C’è un valore nella vita del senso, nel peccato. Pochi uomini sanno i confini della propria sensualità…sanno che è un mare. Ci vuole coraggio, e uno può liberarsi soltanto toccandone il fondo”.
“Ma non ha fondo”
“È qualcosa che trasporta oltre la morte” diceva Poli.