Enrico De Vivo
Vorrei iniziare questo dialogo chiedendoti di spiegare come è nato e come è strutturato Erin e gli altri. Conosco alcuni racconti del ciclo, pubblicati qui su «Zibaldoni» o su «Nazione Indiana». C’è un rapporto fra le due sezioni del libro? Un congedo sembra alludere a un allontanamento, non si sa se definitivo, da una vita precedente e dai suoi relativi problemi. Il ciclo di Erin realizza questa transizione?
Walter Nardon
Mentre cercavo di pubblicare Un congedo, ho cominciato a scrivere le storie di Erin, che poi per me sono diventate sempre più importanti. Così, pur essendo un lavoro organico, il libro ora è diviso in due parti: nella prima si trovano queste storie, con personaggi che ritornano di racconto in racconto e avvenimenti quotidiani che si intrecciano. Nella seconda, che si intitola appunto Un congedo e che ha un ritmo più veloce, un uomo racconta invece la sua avventura alle Officine August, mentre svolge un incarico da impiegato in tuta da lavoro, il “jolly” che dalla scrivania in breve può passare al reparto operativo. È una vicenda singolare: ha accettato il lavoro per svolgere un’indagine personale sulle ragioni che tengono unite le persone in un’impresa. Rifiutando ogni teoria sui rapporti di forza e su quelli di produzione, cerca un’interpretazione alternativa a ciò che in un contesto simile permette alle persone di invecchiare fianco a fianco (è una sorta di fenomenologo pratico). In realtà, come sappiamo dalla sorella che è sempre sulle sue tracce, si tratta di un uomo che, pur avendo ogni dote per insegnare, se n’è andato dalla scuola per proseguire le sue ricerche. Credo che in alcuni brani il lettore possa intuire le ragioni di questo congedo. Poi, naturalmente, contano i rapporti con i suoi colleghi, e soprattutto la sua relazione con un’ispettrice. Questa seconda parte ha un po’ a che fare col mio libro precedente, Sibber, anche lì un narratore un po’ ossessivo rifiutava l’evidenza della realtà.
Non avevo pensato alle storie di Erin come al concretizzarsi di una transizione, ossia allo svolgersi degli eventi che accadono dopo la fase di congedo, ma la trovo un’interpretazione persuasiva.
E. D. V.
Spesso i protagonisti dei tuoi racconti sono accesi come da un fuoco improvviso, che li illumina spingendoli verso imprese dalle connotazioni misteriose. Altrettanto misterioso è il narratore che li introduce, molto sapiente ma anche discreto, quasi un deus ex machina che però non sciorina verità ma solo indicazioni di percorso. Penso al narratore di Sibber, ma anche a quello di Erin. È come se questi personaggi avessero una vaga memoria, più che una consapevolezza, di qualcosa di necessario, che bisogna fare assolutamente. Li anima una specie di etica immaginaria. Somigliano moltissimo a qualcuno che continua a fare il proprio dovere e le proprie acute analisi in un mondo in cui sono finite le ideologie, le religioni e le concezioni dell’arte, e in cui domina la superficialità.
W. N.
Il narratore del Congedo, come quello di Sibber, interviene nelle vicende che racconta. Quello delle storie di Erin lo fa solo in parte: in alcuni episodi si limita a raccontare e a riflettere e questo contribuisce ad approfondire il contesto delle storie. Sì, forse in tutti e tre la fatica di andare avanti è anche il risultato del dovere di interpretare autenticamente ciò che li circonda. Nel caso delle storie di Erin, al narratore è successo qualcosa, una sconfitta dopo la quale, rispetto agli altri due, appare meno concentrato su se stesso e più disposto a rivolgersi agli altri. Con un passo concreto va anche incontro a un numero inferiore di malintesi. Del resto, se nelle indagini del narratore del Congedo si avverte forse il residuo di un agonismo intellettuale, nel narratore di Erin l’attenzione è tutta rivolta ai personaggi, che svolgono mestieri umili senza cercare di trasfigurarli in qualcos’altro. Sotto le loro vicende si avverte una radiazione misteriosa. E poi ci sono proprio loro, i personaggi; e c’è Erin, ragioniera ed estetista che non ricorrerebbe mai alle citazioni ma che, se posso scherzare, potrebbe senza alcun problema riferire a sé e alle sue amiche una frase di Flaubert: «Perché voler essere qualcosa, quando si può essere qualcuno?».
Quanto all’ultima parte della tua osservazione, il contesto in cui ci muoviamo, come tutte le epoche, non è privo di ideologie. Sono tramontate quelle novecentesche, ma ne sono sorte altre. Ad esempio, quelle inerenti al prestigio alimentato dalla cosiddetta “illusione formativa”, che costringe – e che ci ha costretti, perché mi ci metto anch’io – a investire tanto nella formazione, fino ai gradi più alti, inseguendo successivamente mete o “beni posizionali” che per loro natura sono esigui e limitati, quindi poco disponibili, come se il prestigio culturale dovesse per forza dipendere da un ruolo e non da un risultato. Nella maggior parte dei casi l’immissione nel mondo del lavoro è avvenuta in mestieri rimasti poveri di riconoscimento simbolico: bene o male, il cosiddetto capitale simbolico si è eroso in quasi tutti quelli tradizionali. Ecco, nel ciclo di Erin i personaggi vivono al di là di questo fenomeno.
E. D. V.
«Per Lucia la scuola non aveva niente a che vedere con l’avventura, e dove non c’è avventura, non c’è neanche conoscenza». È una frase tratta dal Congedo. Nei tuoi libri la parola “avventura” risuona spesso: la si ritrova in una sorta di versione quotidiana, se così posso dire, nei tuoi racconti, in cui piccole avventure nascondono imprese quasi eroiche. Inoltre, risalta nelle tue riflessioni critiche in riferimento a diversi autori. Quanto è avventuroso il tuo ultimo libro? Che peso ha avuto l’idea di “andare all’avventura” nella stesura di questi racconti?
W. N.
In alcuni interventi e nel libro L’illusione e l’evidenza ho insistito sul tema dell’avventura. Dal punto di vista del racconto, se togli alle cose la loro presunta evidenza, che ti resta in mano se non lo studio come avventura conoscitiva, anche come delirio della realtà? Il congedo appartiene a questo genere di racconto. Devo però dire che con le storie di Erin le cose si sono approfondite, perché a questa disposizione del narratore verso la scoperta si è sovrapposta una maggior consapevolezza della realtà sentimentale, ossia la convinzione che i sentimenti che proviamo nascono e si sviluppano in noi attraverso l’immagine che ci formiamo delle persone e delle cose, un’immagine mobile o più immagini successive che possiamo raccontare, anzi, che possiamo raccontare meglio se sono sviluppate dalla fantasia rispetto a quando ci limitiamo a riprodurre la risposta dei nostri sensi a partire da un soggetto concreto. Quindi, un po’ scopriamo la realtà e un po’ facciamo i conti con ciò che ne pensiamo, o che immaginiamo. Sono cose note e, insieme, sempre nuove conquiste.
E. D. V.
Nel risvolto di copertina del libro sono citati una serie di autori a mo’ di costellazione di riferimento: Kafka, Gombrowicz, Volponi, Beckett e Celati. Potrei chiederti di Celati, che è stato un amico della rivista e in un certo senso anche un maestro; però mi incuriosisce anche capire le sollecitazioni che ti provengono da un autore come Paolo Volponi.
W. N.
A Celati devo molti insegnamenti, ad esempio quello in cui raccomandava di non aver mai paura di scrivere qualcosa che non sia coerente con ciò che – in termini teorici – sembra sia l’indirizzo giusto da seguire. In altre parole, ci si deve lasciar guidare dall’istinto del momento. Se si segue troppo rigidamente la propria opinione sull’arte si comincia a sottovalutare e perfino a trascurare di scrivere ciò che riesce più facilmente (che a volte, dal punto di vista narrativo, significa ciò che ci riesce meglio). Celati ricordava che è un problema attraverso il quale tutti quelli che scrivono devono passare: credo sia un insegnamento prezioso, che sono contento di ricordare e di cui gli sono grato. Quanto a Gombrowicz, è il patrono di chi mette in questione l’evidenza della realtà: Ferdydurke e Cosmo sono libri più noti in Italia di quanto non fossero anche solo vent’anni fa. Non sono invece un esperto di Volponi: posso solo dire che il passo con cui Memoriale è raccontato ha una sicurezza e una resa che impressionano, ma non mi sentirei di aggiungere di più.
E. D. V.
Io colgo sempre una sottile ironia nei tuoi testi, un umorismo bonario, ma in qualche punto perfino sinistro, che più che un’autodifesa sembra un a-fondo verso la società e le istituzioni. Questi non sembrano tempi particolarmente adatti a chi cerca con l’ironia il lato oscuro delle cose, magari attraverso la messa in discussione delle certezze consolidate. Sono tempi in cui il discorso pubblico esige quasi il conformismo. Cosa ne pensi?
W. N.
Credo che l’umorismo sia essenziale in un certo tipo di avventura perché coinvolge interamente la voce narrante. Dalle storie di Erin emerge a volte una nota sinistra: forse in Un figlio sano o in Un profilo pubblico si sente di più, ma pensandoci mi accorgo che si può notare anche in altri racconti. Non si tratta, però, di questioni di cui oggi si discute, quanto di atteggiamenti in merito al sapere o meno qualcosa, oppure al volerla insegnare a tutti i costi.
In generale, invece, credo che oggi il problema dell’umorismo, come di tutti gli usi traslati della lingua, sia quello del contesto. Un tempo si diceva che attraverso la forma ogni testo scritto dovrebbe introiettare il contesto dettando le condizioni di lettura. Questo processo oggi incontra varie difficoltà. La prima nasce dal fatto che con i dispositivi digitali l’esercizio della lettura e della scrittura in media si è fatto più sbrigativo: si fa meno attenzione alla forma, si colgono meno le sottigliezze (e l’ironia e l’umorismo sono fatti di sottigliezze). Inoltre, dato che non si è mai sicuri che il destinatario capisca che si sta scherzando, si aggiunge un’emoticon per essere più chiari (a danno dell’effetto). La seconda difficoltà è data dalla comunicazione nei vari siti in rete, soprattutto sui social, che per una convinzione curiosa vengono interpretati come se si trattasse dello stesso contesto, per così dire, o della stessa circostanza di enunciazione. Per un paradosso molto rischioso, il massimo grado di dislocazione della comunicazione viene percepito come il massimo della concentrazione comunicativa nello stesso luogo. Naturalmente, anche se il mezzo che si usa è lo stesso, non si tratta di un unico luogo, ma poiché questi diversi luoghi digitali sono pubblici la risposta a un’infrazione e perfino la risposta a una semplice uscita inopportuna vengono accolte col massimo livello di guardia, assimilando la rete all’aula di un tribunale, quando a volte basterebbe invece una reazione morale, non giudiziaria: in certi casi basterebbe sottolineare che si tratta di un’uscita di cattivo gusto.
Quest’ultimo fenomeno si è intrecciato a quello della rivendicazione di alcuni diritti, nato da nobili intenti, che ha promosso la definizione di condotte comunicative, perfino grammaticali, tendenzialmente prescrittive nella speranza che, tutelando la parola, si arrivi poi – contrariamente a quanto sostiene una tradizione filosofica – a tutelare la cosa, o la persona. Ne è derivata una certa tendenza alla suscettibilità.
E. D. V.
In che rapporto si trova Erin e gli altri con il tuo primo libro di racconti, Il ritardo (QuiEdit, 2009)? Pensi di aver seguito una traiettoria coerente o nella tua scrittura sono cambiate molte cose rispetto ad allora?
W. N.
Pubblicare il mio primo libro di racconti nella collana promossa da «Zibaldoni» mi ha fatto piacere: un tempo era comune scrivere per una rivista e poi esordire nella collana che la rivista curava. Il mondo di quei racconti era ridotto al minimo: i personaggi facevano fatica a muoversi, tanto il quotidiano era diventato difficile, ma ce n’era uno, La fiducia nei giorni feriali, che mostrava una soluzione più vivace. In questi anni credo di aver guadagnato una maggiore libertà di movimento e, soprattutto nel ciclo di Erin, una migliore comprensione dei personaggi: sono sempre degli “io sperimentali”, come vuole una definizione fortunata, ma ora sono usciti dal laboratorio.
E. D. V.
Parliamo di scuola, se non ti dispiace. A me, ultimamente, per la verità dispiace molto… ma so che per te la scuola è un ambito concettuale significativo sia a livello simbolico che narrativo. Mentre la scuola è in crisi, tutto nella società diventa sempre più scolastico e didattico, ha osservato qualcuno. Si potrebbe dire che una delle vie di fuga nei tuoi racconti è proprio quella che porta a un allontanamento da tutto ciò che richiama la scuola – o la scolarizzazione – come luogo del castigo dell’esperienza e della scoperta di qualcosa di nuovo?
W. N.
Volendo restare al libro, Il congedo racconta la storia di uno che se ne va dalla scuola, mentre la sorella, che non ci ha mai lavorato, vede la scuola ovunque, anzi la vede come traguardo, al punto da darsi da fare e mettere in piedi una rete di improbabili circoli per gli insegnanti. Nel ciclo di Erin solo un pensionato, Flamingo, continua a rileggere il manuale del liceo; gli altri sembrano aver restituito piena dignità alla conoscenza empirica. Mi sembra che in questo processo ci sia già una possibile risposta.
Forse il problema degli ultimi trent’anni è stato quello di legare il prestigio non più, come accadeva un tempo, ai risultati di un determinato lavoro, ma al conseguimento di un titolo di studio. Un tempo ci si affermava nella professione; in seguito, invece, da una parte con l’aumento delle iscrizioni universitarie e dall’altra con la progressiva precarizzazione del lavoro (che ha reso più difficile affermarsi) la valutazione si è spostata sul conseguimento di titoli sempre più elevati, di curricula radiosi. Mentre in concreto la scuola funzionava sempre meno come ascensore sociale, in termini ideali si è creduto che conferisse quantomeno il prestigio culturale. Questo invece lo avrebbero dovuto attribuire i libri, o altre espressioni. Ma anche queste hanno sofferto: perduto il rilievo materiale, molte si sono scolarizzate. Non riuscendo più a sostenersi, si sono trasformate almeno in parte in corsi di formazione (di scrittura, di pittura, di teatro, di musica, di danza). Così, dato che ogni discorso espressivo doveva passare attraverso un percorso scolastico, l’aspetto didattico ha finito per assumere un peso sproporzionato, lasciando in secondo piano la questione più concreta, quella dell’apprendistato vero e proprio, che continua ad essere irrinunciabile. Questo processo ha recato danno anche alla scuola, a cui oggi si tende ad affidare ogni compito che la società non riesce a svolgere. Come si dice, mentre la scuola si è descolarizzata, si è scolarizzata la società.
E. D. V.
Questo libro esce per l’editore Pendragon nella collana “I chiodi”, diretta da Matteo Marchesini. Con Marchesini dialoghi già da un po’. Sembra una storia d’altri tempi, con un direttore di collana che è un critico e scrittore, e un autore che dialoga con lui.
W. N.
Non so se sia una storia d’altri tempi. Di Matteo Marchesini hanno già scritto in tanti: penso al giudizio eccellente e condivisibile che Alfonso Berardinelli ha dato del suo lavoro critico, che è sotto gli occhi di tutti e che contribuisce a rivedere la letteratura del Novecento. Marchesini è anche un poeta e narratore affermato. Mi stupisco che a volte, soprattutto in rete, alcune voci sembrino chiedergli una maggiore specializzazione, come se l’aspetto espressivo – peraltro già evidente in una prosa critica sontuosa – dovesse necessariamente passare in secondo piano o rimanere confinato in una scrittura di servizio, o servile, tutt’al più nel senso che questo termine aveva nel titolo di un libro di Cesare Garboli. Trovo la sua poesia, anche quella che pubblica in rete, sempre degna di attenzione, mentre in prosa, ad esempio nel recente Miti personali, è riuscito in un’espressione originale, più felice di tante riscritture postmoderne del mito. Che riesca anche a trovare il tempo di dirigere con la stessa dedizione una collana come “I chiodi”, non può che essere un ulteriore merito. Alcuni gli rimproverano giudizi e posizioni troppo perentorie; io credo invece che queste, motivate in modo chiaro, siano feconde anche in chi non le condivide, perché costringono quest’ultimo a controargomentare. Il costume di leggere solo chi la pensa come noi è un po’ troppo diffuso e non è stato prodotto dai social, anzi: negli studi letterari il pregiudizio di conferma ha una tradizione decisamente più lunga.