Nel volume La terribile lingua tedesca, l’editore Quodlibet ha riunito per la prima volta in italiano, a cura di Dino Baldi, gli scritti che Mark Twain ha dedicato al suo complicato rapporto con questa lingua. Al saggio che dà il titolo al libro seguono una commedia in tre atti, il racconto La signora McWilliams e il fulmine e altri tre brevi passi sul tedesco. Twain è uno scrittore la cui straordinaria competenza narrativa è stata messa a punto – fra il lavoro di battelliere e l’impiego tipografico – soprattutto nel giornalismo. Per quanto abbia accumulato una vasta cultura da autodidatta, non è mai diventato un letterato e ciò costituisce l’interesse e il divertimento di questo libro, perché il suo sguardo sulla realtà linguistica del tedesco nel corso dei ripetuti e vani tentativi di padroneggiarlo – come le sue avventure grammaticali, che gli suggeriscono subito proposte di riforma – resta appunto quello di un narratore e non quello di uno specialista. All’epoca della maggior parte di questi scritti Twain aveva già raggiunto il successo con vari racconti sul Mississippi e soprattutto con la pubblicazione delle Avventure di Tom Sawyer (1875). In quel tempo aveva cominciato a scrivere il suo libro maggiore, Le avventure di Huckleberry Finn, destinato a uscire nel 1884, dopo otto anni di lavoro. Un romanzo di cui è difficile sottovalutare l’importanza, per il quale Huck, come ha scritto T. S. Eliot in un noto saggio introduttivo del 1950, è degno di prendere posto al fianco di Ulisse, di don Chisciotte, di Amleto e «di altre scoperte che l’uomo ha fatto su se stesso», e dunque di assicurare a Twain il merito che gli è dovuto.
Nelle sue mani di umorista anche le parole tedesche assumono la forma di un personaggio (e a quel punto, naturalmente, il gioco è fatto). Ad esempio:
«In Germania una ragazza non ha sesso, mentre una rapa ce l’ha. Questo fa riflettere sulla grande considerazione che i tedeschi hanno per le rape, e sul loro straordinario disprezzo per le giovani donne». [Qui Twain si riferisce al termine Mädchen, che è di genere neutro] (p. 38).
«È vero che in tedesco, per una svista dell’inventore della lingua, una donna è di sesso femminile; ma una moglie (Weiss), non lo è, il che un po’ dispiace» (p. 39).
L’arte sta tutta in quel «il che un po’ dispiace», che illumina l’intero passo. Il termine Weiss, nota opportunamente Dino Baldi, a fine Ottocento era raramente usato per nominare la moglie, ma in questo e in altri esempi il ritmo con cui Twain procede è inarrestabile, anche quando sfoga il suo umore mettendo in risalto le complicazioni grammaticali e sintattiche del tedesco, trasponendone le regole in inglese per mimare l’effetto che fanno su di lui. In questo modo scrive ad esempio il breve aneddoto Storia del pescivendola e della di esso triste storia. Detto in due parole, Twain non ne può più: ce l’ha col dativo, con la costruzione che impone il verbo a fine frase, con l’arbitraria attribuzione dei generi, con i verbi separabili e soprattutto con due aspetti del tedesco che trova infernali: le parentesi che la sintassi permette complicando il periodo a dismisura e le interminabili parole composte. Il suo bilancio, ironicamente, non può che essere questo:
«I miei studi filologici mi hanno dimostrato che una persona dotata è in grado di imparare l’inglese (tolta l’ortografia e la pronuncia) in trenta ore, il francese in trenta giorni e il tedesco in trent’anni: è dunque evidente che si tratta di una lingua che ha bisogno di essere semplificata e rimessa in sesto». (pp. 52-53)
Pur muovendo critiche efficaci volte a semplificare gli eccessi del tedesco, i risultati migliori Twain li raggiunge mantenendosi al di qua della comprensione della realtà linguistica nel suo complesso – o nel suo sviluppo storico – mettendo invece in scena gli episodi minimi e singolari, le incomprensioni di chi tenta di impararla.
La commedia Meisterschaft prende il nome da un metodo funzionale di insegnamento della lingua, creato all’epoca da Richard S. Rosenthal, che si basava sullo studio e l’apprendimento di dialoghi presi da situazioni comuni, lasciando lo studio della grammatica a un momento successivo. L’intuizione letteraria di Twain è magnifica, per quanto superiore all’esecuzione che ne ha poi dato. Un padre fa alloggiare le figlie da un’affittacamere tedesca perché imparino la lingua e se ne stiano alla larga da due pretendenti. Visto che la padrona di casa parla anche inglese e che quindi l’apprendimento non procede nel modo voluto, l’affittacamere propone al padre delle giovani di fingersi malata, lasciandole alle cure della cameriera Gretchen, che non sa una parola d’inglese. Sulle prime sembra che tutto vada per il meglio, sebbene le due ragazze ripetano davanti alla cameriera una serie di frasi tratte dal manuale Meisterschaft quasi tutte fuori contesto, con prevedibili risultati comici. La vicenda cresce di interesse quando arrivano i due pretendenti, anch’essi indotti a esprimersi in tedesco: la comunicazione verbale attraverso le frasi fatte assume una forma irresistibilmente astratta e fine a se stessa, mentre la comunicazione effettiva si svolge sul piano dei gesti, dei movimenti di scena. La lingua diventa così qualcosa di assurdo, in cui le frasi si pronunciano convenzionalmente come in un rito di cui si ignora l’origine (non il fine, che è comicamente volto al vantaggio di tutti).
Il testo migliore di questa raccolta e il più divertente è però il racconto La signora McWilliams e il fulmine. Per economia espressiva e sicurezza del passo con cui procede, Twain appare estremamente convincente. La storia è raccontata al narratore dal Signor McWilliams: la signora McWilliams, terrorizzata dal temporale, sveglia il marito e, con l’aiuto di un manuale scritto in tedesco che nella lettura travisa completamente, lo costringe a prendere in mano vari oggetti e ad assumere una posa inverosimile per scongiurare la caduta dei fulmini in una circostanza che – vale la pena di leggerlo – non è affatto quella che appare. Oltre alla trama qui, a fare la differenza, è soprattutto l’istantanea caratterizzazione che Twain raggiunge attraverso i dialoghi dei coniugi.
Questi ripetuti e scomposti omaggi alla lingua tedesca non sono il risultato di una serie di variazioni su un bersaglio troppo facile. Twain apprezzava la cultura tedesca e la trovava più congeniale al suo temperamento rispetto alle raffinatezze francesi, ma non si impegnò mai davvero fino in fondo a padroneggiarne la lingua (mentre Emerson, ad esempio, nella sua comprensione era arrivato più lontano). Il saggio che dà il titolo al libro, che nell’originale suona The Awful German Language, costituisce un capitolo di A Tramp Abroad [Un vagabondo all’estero] pubblicato nel 1880, secondo molti critici il suo miglior libro di viaggi, di cui non esiste in Italia una traduzione integrale. Twain si muove fra il saggio sulla lingua e il racconto umoristico che usa le difficoltà linguistiche come pretesto per parlare della condizione umana e dei suoi limiti. Ogni tanto il gioco non riesce: dove non lo sorregge l’umore affiora un po’ di stanchezza, come nell’esempio sulla parola cane (Hund) al dativo che, assumendo l’uscita in “- s” confonde i gli inglesi suggerendo un acquisto plurale mentre si tratta di un solo cane. Inoltre, per quanto la mia vicenda col tedesco sia ancor più complicata, azzarderei l’ipotesi che il continuo intercalare che Twain trascrive come Also, sia forse da ricondurre ad «Ach, so». Non tutte le parole composte che inventa sono poi divertenti.
Ma è efficace quando illustra le virtù della lingua tedesca, superiore per lui all’inglese nelle parole della vita domestica e della vita all’aria aperta, nei termini che riguardano la natura, nelle espressioni di pathos, più ricco e sentimentale (dove l’inglese risulta invece un po’ rigido). Trattandosi nella maggior parte dei casi di testi di occasione non si può che apprezzarne l’originalità, che quasi sempre emerge oltre il mestiere. In casa, Twain ricorreva spesso a qualche parola tedesca per scherzare, o per creare qualche nomignolo; la adottava come un mezzo privilegiato per esprimere il suo affetto. Aveva assunto una governante tedesca per le figlie, che come la madre parlavano la lingua molto meglio di lui. Il rapporto con la Germania dal punto di vista della tradizione culturale è il più delle volte favorevole. Amava la musica tedesca, Schubert e Wagner, ma soprattutto quella popolare. Così amava Goethe (di cui si era appassionato al Götz von Berlichingen, il dramma sul cavaliere e capitano di ventura dalla mano di ferro) e Schiller, pur senza conoscerne a fondo l’opera. Ebbe l’occasione di incontrare l’imperatore Guglielmo II, che era stato un appassionato lettore di Vita sul Mississippi, e con lui intrattenne alcune conversazioni amichevoli, rimanendo naturalmente un convinto sostenitore della repubblica. Un saggio sul suo rapporto con la Germania sottolinea che trovava la strada per arrivare all’anima tedesca solo in mezzo alla foresta; e questo, in fondo, non può stupire. Era conquistato dal paesaggio. In una lettera scrisse del suo entusiasmo per aver ritrovato lo sfondo di una scena del Guglielmo Tell dopo aver navigato in Svizzera sul Lago dei Quattro Cantoni. Come ricorda Baldi, anche l’epitaffio per la tomba dell’amata moglie Olivia, morta nel 1904 dopo anni tormentati dalla malattia, Twain lo dettò in tedesco: Gott sei Dir gnädig, O meine Wonne («Che Dio abbia misericordia di te, tesoro mio»).