Questa volta lo sguardo si spinge dall’Europa centrale fin verso l’Asia centrale perché il libro (bellissimo) di Giorgio Messori, Nella città del pane e dei postini (Diabasis, Reggio Emilia – la prima edizione è del 2005), trascina fin lì la voglia di scriverne.
In qualche modo Messori ha avuto a che fare con l’Europa centrale, avendo egli imparato il tedesco soprattutto durante il suo soggiorno a Zurigo, avendo tradotto e pubblicato in italiano Peter Bichsel e poiché il tedesco ritorna nel libro in questione – ma la ragione più vera per cui ne scrivo qui è che si tratta di un’opera dall’identità indefinibile e per questo affascinante, densa e nello stesso tempo aerea, innervata da una libertà del pensiero e dei sentimenti che raramente è dato leggere, come se l’umana e penetrante sagacia leopardiana, il senso del particolare e della profonda svagatezza walseriana si continuassero nella scrittura messoriana.
Ci sono arrivato leggendo un altro libro a sua volta straordinario, Morte di un amico che guardava (Ad Est dell’Equatore, Napoli 2019) di Rocco Brindisi, ma era già qualche anno che desideravo avvicinarmi alla scrittura di Giorgio Messori, avendone letto proprio qui su Zibaldoni molti testi e avendone sentito parlare con accorato affetto da Beppe Sebaste in Il libro dei maestri (Luca Sossella Editore, Roma 2010).
Giorgio Messori giunge a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, un po’ per caso e un po’ no: bisognoso di un cambiamento radicale nella vita privata e professionale sostiene un concorso per poter insegnare italiano all’estero e così accetta un incarico presso l’Università delle Lingue mondiali di Tashkent (la capitale uzbeka era stata la sua penultima scelta in una lunga lista di altre città che la precedevano nell’ordine delle preferenze espresse dal candidato).
Nella città del pane e dei postini nasce già nei primi appunti del diario che Giorgio tiene nelle case che in successione abita a Tashkent e si sviluppa come un libro che, pur conservando l’impianto e l’intonazione del diario, permette alla scrittura quelle metamorfosi che la rendono capace di superare i generi precostituiti, di partire dalle esperienze dell’io senza essere narcisistica né egocentrica, diventando invece lo sguardo che esplora e comprende.
Non a caso Giorgio Messori è stato amico fraterno e complice di Luigi Ghirri e di Vittore Fossati. Non a caso è esistita una prossimità con Gianni Celati – e con scrittori come, appunto, Rocco Brindisi e Beppe Sebaste.
Il libro racconta Messori che cerca, nell’altrove di Tashkent e dell’Uzbekistan (lui originario della provincia di Reggio nell’Emilia), una quotidianità finalmente abitabile e accogliente, racconta un nomade (che infatti comprende e ama l’ancestrale nomadismo delle genti dell’Asia centrale) che cerca e trova una casa fatta di affetti, di lenta costruzione di sé: Nella città del pane e dei postini è anche una storia d’amore (Ljuda, l’allieva di cui Giorgio s’innamorerà e che diventerà sua moglie, è da subito uno dei soli attorno ai quali ruota la vita e la scrittura di Messori), è racconto delle esplorazioni delle sterminate regioni uzbeke, è affettuosa narrazione dei legami amicali che nascono e si stringono nel corso del tempo.
In un suo breve, intenso ricordo di Giorgio Messori, Gianni Celati parla di “sguardo assente-presente”, di “letargia delle parole” capace di far percorrere al lettore un sentiero silenzioso e riflessivo: ed è proprio così – la Tashkent del libro è, per esempio, città in cui si prepara un pane d’eccezionale bontà (la lipioška che ha forma di soffice ruota schiacciata al centro e insaporita dai semi di sesamo)ed era stata un tempo anche “città dei postini” i quali, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica, sembrano del tutto scomparsi ed è anche città d’indimenticabili notturni e di ripetuti vagabondaggi: l’intero libro oscilla infatti con moto pendolare tra passato e presente che congiunge, di volta in volta, l’infanzia e il presente dello scrittore, il passato sovietico della città e il suo presente, ma il tempo è dilatato, rallentato, volutamente sottratto a ogni possibile deformazione utilitaristica e mercantile.
La città e le persone si dischiudono poco a poco allo sguardo dello scrittore: Messori accumula pagine nelle quali i paesaggi interiori volentieri s’immergono in quelli esterni, come se egli ripetesse i passi lenti ma inesorabili di Robert Walser, il paziente ascolto dei propri personaggi da parte della scrittura čekhoviana, l’estrema sensibilità nei confronti della lingua italiana di Leopardi, la capacità immaginativa di “viaggiatore immobile” di Kafka (tutti autori da lui citati e amati); si profilano così i grandi viali della città, la barriera artificiale che difende e occulta il palazzo del Presidente, il labirintico groviglio di vicoli nella città antica, il fiume, i giardini privati nascosti alla vista, le steppe, i laghi, i valichi montani, gli alberghi e i teatri avanzi dell’era sovietica…
Lo sguardo di Messori volentieri indugia sulla gentilezza e sull’inscalfibile, sacro senso dell’ospitalità delle persone che incontra, privo di qualsiasi pregiudizio e alieno da qualunque esotismo ed è sguardo che già aveva accompagnato i sondaggi fotografici lungo la Via Emilia di Ghirri e quelli condotti per diverse regioni d’Europa di Fossati, sguardo-scrittura d’eccezionale sensibilità che, immergendosi negli occhi chiari di Ljuda (gli occhi dell’amore) e nel variare delle stagioni a Tashkent, è lenta esplorazione (persino fare la spesa, scrive Messori, è, a differenza del nevrotico affrettarsi e accumulare che caratterizza il fare la spesa in Occidente, proprio “lenta esplorazione” del negozio o del grande magazzino o della bottega).
L’altrove cercato da Giorgio Messori si materializza in una scrittura mobilissima e cordiale, in una serie di esplorazioni intimamente connesse a una sempre rinnovata attesa dell’incontro e della scoperta, così che proprio la forma diaristica di partenza diventa sguardo su paesaggi interiori ed esterni e l’abitare la città del pane e dei postini diventa abitare, tramite la scrittura, gli spazi dilatantesi della mente.
La foto che illustra l’articolo è di Vittore Fossati
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