Presiden arsitek/ 35

Era la bambinaia che a volte quasi senza svegliarla sollevava Sarahs dal divano e la portava nell’altra camera, dove le finestre e le tende erano sempre chiuse. Quando nel sogno Sarahs si avvicinava alla vetrinetta vedeva farsi sempre più grandi i volti della bambinaia e della strega riflessi nello specchio che faceva da parete di fondo della vetrinetta.

di in: Presiden arsitek

Il profumo della strega la faceva piangere, schiacciandola sotto il peso setoso di un gigantesco fiore nero. L’aveva incontrata per la prima volta da bambina, dopo essere tornata dal suo primo viaggio a Venezia, viaggio che per lungo tempo sarebbe anche rimasto l’unico.

***

– Cosa vuol dire, tutti i sistemi di sorveglianza.

– Sì.

– Sì, cosa.

– Andati.

– Andati, andati come, andati distrutti?

– No, andati.

– Allora abbiamo qualcosa, hanno registrato qualcosa?

– No, tutti i sist––

– Agente Della Rovere.

– Sissignore.

– Parli con me.

– Sissignore.

– Lasciamo stare i sistemi, d’accordo?

– Chiedo scusa signore, ma le mie domande all’agente Della Rover––

– Sono contento di trovarci tutti e tre concordi. Dunque a lei, agente. Esponga i fatti, così come li ha potuti ricostruire con la sua sagacia.

– Signorsì.

– La sua ostinazione.

– Vero.

– La sua incorruttibile ostinazione.

– Questo devo ricordarmelo per quando mi sento giù.

– La situazione è grave. È terribile. I media e i metamedia e i paramedia e quel che è –– ormai chi ci capisce è bravo, ma siano quello che sono, sono già là a sciamare in mezzo al sangue.

– Sissignore.

– Il sangue austroamazzonico.

– Già. Tremendo. No. Terribile. Chiedo scusa. Agente Della Rovere, tornando all’attent––

– Non è l’attentato in sé: sono i morti. Su questo siamo tutti e tre concordi. Con i morti c’è tutta un’altra qualità di tragedia, è un gradino che––.

– Sissignore, stiamo ancora raccogliendo i pezzi dall’atrio della stazione per capire cosa è di chi e chi è di cosa.

– I sistemi di sicurezza non hanno registrato niente.

– È questo che––

– Tutti andati.

– Mi state dicendo che non si tratta di un malfunzionamento, un’infiltrazione salmastra nei circuiti, un velo di ghiaccio attorno ai rivestimenti, un nido di gabbiano sull’antenna sbagliata…

– Difficile. Così dicono i tecnici, unanimemente se il termine può valere in questo caso dato che la metà di loro è di origine artificiale, e con loro trova difficoltà a credere ad un semplice guasto anche mi perdoni il più urbano buonsenso: più dell’80% dei visitatori di Venezia era registrato sulla piattaforma Psyche®––

– Ah, e allora è fatta. Non dovrebbe essere difficile risalire a chi tra le vittime aveva acconsentito all’accesso ai propri metaocchi da parte del Corpo––

– Ecco perché è così difficile credere a un guasto.

– Mi state dicendo che non c’era nemmeno una, dico una sola Psyche®––

– Nei casi di emergenza come lei mi insegna non sarebbe neanche necessario che una Psyche® abbia dato l’assenso alla propria momentanea conversione in porzione dell’Apparato di Tutela Pubblica.

– Non sono sicuro di––

– Tutti i sistemi di sorveglianza, primari come secondari e giù giù fino ai sistemi di sorveglianza occasionali, involontari e catavolontari…

– Tutti…

– Andati.

– Tutti. Tutte quelle Psyche®

– Andate, sì, signore.

– Dio. Dio mio. Ma come hanno fatto a disattivarle tutte, la provenienza delle vittime…

– Ancora non sappiamo. No. I tecnici ancora non sanno. Sicuramente si tratta di qualcosa legato al funzionamento del “treno” “FIAT”. È rimasto solo…

– Cosa? Cosa è rimasto?

– Sono stati trovati dei pezzi di latta di origine ignota.

– Ma era latta.

– Sissignore.

– Lasciamo stare la latta, cosa c’entra la latta.

– Non ha origine, è per questo che––

– Va bene, va bene, è giusto. Raccogliete e catalogate e passate il testimone al funzionario davanti a voi.

– Signorsì.

– Nient’altro? Agente Della Rovere, possiamo congedarla?

– Forse c’è un testimone, signore.

– Un sopravvissuto?

– Una testimonianza. Non il testimone ma la testimonianza. Dei fogli.

– Dei fogli? Intende––

– Fogli di carta.

– No scusa aspetta anzi aspetti. Qualcuno ha lasciato prima di morire dei fogli di carta con la descrizione dell’attentato?

– Non è proprio una descrizione, anche se doveva descrivere, ma forse ci sono alcuni dettagli che––

– Chi gira con dei fogli di carta? Non se ne vedono praticamente più dal 20––

– Agente Della Rovere, sia un po’ più chiaro: cosa vuol dire che doveva descrivere?

– Sembra che si trattasse di un’installazione artistica forse sfuggita al radar dei terroristi. Il regista e chi ha scritto i fogli risultano irreperibili. Parte dell’installazione prevedeva la presenza di una persona su un piccolo palco. La persona doveva sedere a un tavolino con un’antica macchina da scrivere elettronica e una pila di fogli bianchi. La macchina da scrivere elettronica doveva essere utilizzata da questa persona, cosa che è effettivamente avvenuta, per descrivere sui fogli bianchi tutto quello che vedeva dal suo tavolino. Il contenuto delle frasi veniva inoltre proiettato contro una delle pareti dell’atrio della stazione perché i viaggiatori potessero rendersi conto di cosa stava succedendo, anche se non capisco perché dovrebbe essere artistico––

– Lasci stare l’arte, qui stiamo parlando di morti.

– E della distruzione di un inestimabile patrimonio di Psyche®.

– Sissignore. Dato che l’installazione era itinerante sul tavolino c’era anche una seconda pila di fogli già scritti provenienti dalle altre stazioni in cui l’installazione artistica era stata effettuata. Abbiamo isolato i fogli in cui vengono descritti i momenti precedenti all’attentato, ma a quanto pare proprio in quel momento devono essere insorti dei problemi tra la persona addetta alla macchina da scrivere e il regista, quindi la descrizione di quei momenti è particolarmente confusa.

– Bene, tenetemi aggiornato. Ottimo lavoro, agente Della Rovere.

– Grazie signore.

– E non creda mi sia sfuggito quel “forse”. Lei ha la stoffa dell’investigatore. Voglio essere informato su ogni possibile dettaglio riguardo ai movimenti di quell’installazione artistica, i luoghi per cui è passata e soprattutto i nomi di ciascun componente, a qualsiasi titolo, dell’opera. Inoltri il plico di fogli non attinenti all’attentato al Reparto Sorgenti, sottosezione Controllo e Verifica.

– Sissignore.

– Sissignore.

– Dio.

– Sissignore.

– Sissignore

– Dio mio.

– Sissignore.

– Sissignore

– Una cosa del genere per funzionare doveva per forza essere coordinata al nanosecondo. Ci sono notizie sul segnale di sincorniz–– di sincronizzazione?

– Non è possibile saperlo con esattezza, ma dal testo dell’installazione è ragionevole supporre che abbiano utilizzato uno degli armonici di una sezione dell’aria della Regina della Notte di Mozart, ma non abbiamo idea né di quale sezione né della registraz––

(L’improvviso ronzio nella psicomunicazione – realizzazione spettrale e crudelmente efficiente della telepatia – tra le Psyche® dei due ufficiali e del loro superiore fa da preludio alla rapida quanto catastrofica dissociazione linguistica dei tre software psichici, dissociazione la cui matrice terroristica non è in alcun modo dubitabile e che risulta nel deragliamento verbale che segue e infine nell’interruzione di ogni funzione delle tre Psyche®)

– ––rimento sulla percezione dei campi magnetici nelle formiche: con l’applicazione di campi indotti le formiche sono portate a camminare a quinconce e in reggimenti che ricordano gli appunti di Machiavelli per l’Arte della guerra.

– Il Vronvo, un leone azzurro (forse per ossidazione) con testa quasi umana e riccioli biondi da timido eroe romano.

– E allora quello che risulta è un vaffanculo al rallentatore talmente lento da confondersi con lo stormire del vento tra le piante.

– Sulla strada ciclabile le persone saltano fuori da un paravento in foglie di banana secche, provocando non pochi incidenti nella popolazione a due ruoooooooooooooooooooooo (ad infinitum, con quasi istantaneo inserimento in unisono delle altre due Psyche®; tra i funzionari che hanno ascoltato il suono emesso dalle tre Psyche® sabotate c’è stato chi vi ha riconosciuto una certa somiglianza con il ronzio di certi monasteri orientali).

***

(Estratto dai Fogli dell’Installazione Anonima afferenti ai momenti precedenti l’attentato alla stazione dei treni di Venezia; il testo completo dei fogli è attualmente sequestrato e sotto esame coordinato da parte delle Procure Austroamazzoniche di Waltzwaltz e di Jakarta. Su concessione del Sottosegretario al Ministero per la Desecretazione della Nazione Austroamazzonica)

«…ma dal palco in cui chi scrive è stata sistemata non è possibile vedere i binari. Nell’atrio c’è molta gente, molti avatar di vario tipo: androidi a psicoimpulsi radiotrasmessi, ologrammi, obsolete radio-Psyche® che scorrono come fantasmi di elfi attraverso i tabelloni pubblicitari e gli annunci per la pubblica sicurezza fino a depositarsi nel dispositivo di destinazione. Un paio di persone si stanno abbracciando da sole. Quando ci si abbraccia in stazione ci si mette sempre in mezzo all’atrio, come se si avesse una specie di responsabilità nei confronti di un qualche arredo degli addii/ritorni, necessario all’anima del luogo [NOTA: Quando una persona in carne ed ossa incontra un ologramma, è buona educazione fare il gesto di abbracciare l’ombra luminosa stringendo infine attorno a sé stessi le braccia vuote; nel caso l’ologramma si presenti con visibilità riservata al solo destinatario, osservatori non autorizzati a visualizzare l’ologramma in questione vedranno la scena un po’ manicomiale di una persona che si ferma, allarga le braccia verso l’invisibile e poi si abbraccia –– gran parte della tecnologia delle comunicazioni è del resto uno sdoganamento di gesti manicomiali nel mondo dei “sani”]. Il padre di chi scrive dormiva sempre in quella posizione, sdraiato su un fianco e abbracciandosi il torace. Chi scrive ritiene, per averla sperimentata su di sé, che quella posizione serva per difendere il dormiente dagli incubi. Ad esempio l’incubo del maglione, che sarebbe troppo lungo da descrivere in questa sede (sede che chi scrive sta cominciando da qualche giorno a considerare piuttosto umiliante, ma è anche vero che chi scrive ha visto di peggio). Dall’altra parte del sito dell’installazione artistica di cui chi scrive è parte integrante in quanto elemento descrittore di tutto ciò che accade nell’atrio della stazione qualcuno si sta sbracciando animatamente in direzione di chi scrive. È il regista, chiamiamolo così, di questa installazione artistica. Per contratto chi scrive non può abbandonarsi né a ricordi né a considerazioni personali, e dato che ha appena violato queste due regole non c’è dubbio che questa sera quanto verrà spenta la baracca se ne sentirà quattro dal regista. Probabilmente anzi se le sentirà già adesso. Il regista sta attraversando a grandi passi il sito dell’installazione artistica, diretto verso la postazione di chi scrive. Quattro persone, tre ragazze e un ragazzo, si sono fermate ad osservare la scena. Una delle ragazze ha notato le scritte proiettate sotto gli orari dei treni e prodotte dalla macchina da scrivere elettrica utilizzata da chi scrive per descrivere quello che sta accadendo nell’atrio della stazione. Leggendo in questo momento sulle scritte proiettate sul muro che chi scrive sta scrivendo di lei, la ragazza si mette a ridere e richiama gli altri tre amici che già si stavano allontanando. Continuano a fissare le scritte. Il ragazzo agita le mani e quando vede la descrizione della sua azione indica divertito la scritta proiettata. La cosa ricorda un po’ le persone che allo stadio si accorgono di essere riprese e inquadrate sul maxischermo. Proprio come chi in quel caso si gira in cerca della telecamera, i quattro fanno girare lo sguardo per l’atrio in cerca di chi scrive. Abbastanza sorprendentemente, la trovano con una certa difficoltà: il primo istinto è stato quello di guardare verso le innumerevoli telecamere e droni di sorveglianza. Una volta avvistata chi scrive le fanno un cenno di saluto che per contratto chi scrive non è tenuta a restituire. Fa però un cenno con la testa e un sorriso senza smettere di scrivere. Il regista (continuiamo a chiamarlo così) ha raggiunto la postazione di chi scrive. I quattro amici osservano la scena continuando di quando in quando a voltarsi verso la sua descrizione proiettata sotto gli orari dei treni. Il regista sta sibilando a chi scrive una serie di richiami all’ordine nel nome dell’Arte. Chi scrive, obbedendo alle clausole del proprio contratto performativo, non risponde e continua a scrivere. Il “regista” chiede piccato a chi scrive il perché della precisazione “chiamiamolo così” posta dopo la sua qualifica. Una delle ragazze che stanno seguendo la scenetta applaude e, quando vede la descrizione del proprio applauso, non riesce ad evitare di fare uno strillo. La sensazione della coesistenza tra scena e descrizione unita alla consapevolezza di far parte di quella scena e di quella descrizione ha qualcosa di esilarante, e anche chi scrive riconosce di avvertire un sottile e lievemente euforico senso di onnipotenza, quasi il mondo fosse ormai pronto a obbedire ad ogni sua descrizione. È una scemenza e chi scrive lo sa, ma non può evitare di avere quella sensazione. Quando sai che ti stanno descrivendo, tendi a obbedire a quella descrizione. In fondo la legge funziona in un modo molto simile no? La si potrebbe vedere come una sequenza di descrizioni. Il regista invita chi scrive a darci una buona volta un taglio con le considerazioni personali e ringrazia chi scrive per non aver virgolettato il suo titolo. Chi scrive vorrebbe rispondergli che lo ha fatto proprio a seguito di quelle osservazioni personali che le hanno aperto una nuova prospettiva su tutto il senso dell’installazione di cui fa parte, ma il suo contratto come le ha appena ricordato il regista non le permette di fare questa ammissione. I ragazzi iniziano a farsi dei video sotto le scritte che descrivono loro stessi che si fanno dei video, incitando con gesti molto eloquenti chi scrive a darci dentro con scritte divertenti per rendere i loro video ancora più interessanti, ma a questo punto il regista sta minacciando chi scrive di licenziarla in tronco a costo di mandare a gambe all’aria la sua Opera d’Arte, e anche se chi scrive non intende perseguire a lungo questa linea lavorativa (tra l’altro crede che il regista sia segretamente innamorato di lei, e questo non farebbe che rendere le cose più complicate), al momento questo è il suo unico stipendio, quindi decide di non soddisfare le richieste giocose dei quattro amici e di rientrare il più possibile nei ranghi. Dietro i ragazzi, una donna attraversa l’atrio correndo, premendosi una mano sull’occhio destro. A metà strada inciampa e cade in terra. Dato che non ha mai smesso di premersi la mano sull’occhio la caduta è piuttosto rovinosa, ma la donna si alza rapidamente mezzo sgambando a vuoto sul marmo dell’atrio con mosse di cerbiatto neonato, e appena ritrova la posizione eretta riprende a correre verso l’uscita. Il regista ha appoggiato una mano sulla spalla di chi scrive, un gesto che chi scrive sta valutando se considerare sessualmente aggressivo. Il regista ritira la mano e chiede perché chi scrive crede che lui sia segretamente innamorato di lei. I quattro amici probabilmente pensano che la scena sia stata preparata in precedenza, in ogni caso fanno dei fischi e cominciano a gridare Ba-cio ba-cio ba-cio. Il regista sembra confuso, poi prende il coraggio a due mani e chiede a chi scrive e se anche fossi innamorato di te? I quattro amici applaudono e fanno grida da tifosi. Per un qualche motivo questo sembra dare ulteriore coraggio al regista, che propone a chi scrive di fare una pausa per prendere una boccata d’aria davanti al canale che lambisce la stazione dei treni. Chi scrive però ha degli orari ben precisi sul proprio contratto e un esplicito divieto a fare pause durante l’orario di scrittura, quindi non si muove dalla propria postazione, anche se è solo la seconda volta in vita sua che viene a Venezia e avrebbe una gran voglia di uscire una buona volta dalla stazione e smettere di descrivere quello che succede intorno all’installazione artistica, ma sa che tutto questo potrebbe essere un bieco tranello registico per poter avere una giusta causa per licenziarla, quindi tiene duro. All’improvviso gli annunci dei treni si interrompono e al loro posto viene diffusa l’aria della Regina della Notte dal Flauto magico di Mozart. Un po’ tutti – esseri umani, droni, androidi, ologrammi visibili e invisibili e altri esseri o semiesseri – si fermano e guardano verso l’alto e verso i tabelloni. Unico a non far caso alla musica, un uomo piuttosto corpulento e probabilmente ubriaco che passa attraversa barcollando l’atrio diretto verso l’uscita. Sulla soglia l’uomo si gira verso chi scrive e mentre la Regina della Notte si avvia alla celebre sequenza di acuti lancia a chi scrive un cenno bislacco e nello stesso tempo tragico, fissandola con degli occhi che sembrano troppo piccoli per le orbite che li ospitano, e che quasi traballano come quelli delle bambole. Lo sconosciuto sposta lo sguardo alle scritte di chi scrive proiettate sul muro contenenti la sua (dello sconosciuto) descrizione. Qualcosa nella descrizione sembra divertirlo. Ride in un modo che chi scrive non ha mai visto prima. È come se la risata gli salisse nel corpo da sottoterra, filtrando lentamente lungo i tacchi delle scarpe, i pantaloni grigi, lentamente scuotendolo e disarticolandolo mentre con mosse da marionetta si avvia verso le scale esterne della stazione. La risata si sta impossessando lentamente di lui come in una specie di rito africano. Nel frattempo il regista non ha smesso di parlare a chi scrive dicendole e anzi anche se accanto a loro non c’è nessuno bisbigliandole frasi sempre più tenere e imbarazzanti ma non meno sospette agli orecchi di chi scrive, e adesso le sta chiedendo se può tenerle la mano, cosa impossibile dato che chi scrive ne ha bisogno per scrivere quello che il regista le sta dicendo, e a questo punto il regista entra in una specie di loop nel quale continua a ripetere Smetti di scrivere quello che sto facendo e Smetti di scrivere quello che sto dicendo, cosa che fa venire in mente a chi scrive tutta una serie di ulteriori considerazioni sul rapporto tra realtà e descrizione, considerazioni che però vista la delicatezza del momento decide di tenere come da contratto per sé. Stanno succedendo molte cose contemporaneamente intorno a chi scrive ed è difficile tenerle tutte sotto controllo, e questa contemporaneità di fatti diversi toglie completamente il senso di onnipotenza che chi scrive aveva avvertito solo pochi minuti fa. Già da un po’ i quattro amici se ne sono andati verso il loro treno, non senza un ultimo applauso verso chi scrive. Altre persone sono corse verso l’uscita della stazione, e subito fuori la risata dello sconosciuto con gli occhi traballanti ha ormai raggiunto il livello del torace ed è pronta a prorompere e l’uomo che ne è posseduto è ormai del tutto incapace di camminare. La Regina della Notte si è come inceppata proprio in un punto dei celebri acuti, che continuano ad essere ripetuti come un ah ah ah ah ah ah ah ah vagamente tropicale; anche il regista è sempre inceppato nel suo giro di frasi Lascia che ti prenda la mano e Smetti di scrivere tutto quello che accade, nelle quali si insinua Smetti di scrivere quello che ti sto dicendo quando chi scrive passa a descrivere lui; fuori l’uomo libera finalmente una risata del tutto imprevedibile per la sua figura, un riso da donnina giapponese, un hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi che crea una sorta di oltremodo disorientante battimento acustico/ritmico con l’ah ah ah ah ah ah ah ah della Regina della Notte. Poi chi scrive sente la mano del regista calare sulla sua coscia destra e infilarlesi mollemente tra le gambe, e qualcosa di molto bagnato scorrerle lungo le ginocchia, e quando chi scrive alza inorridita gli occhi vede incombere sopra di lei il regista completamente stravolto, la bocca spalancata in un urlo afono e congestionato, con una mano aggrappata disperatamente al moncherino insanguinato mentre l’altra mano amputata caduta tra le gambe di chi scrive sembra articolare con le dita un’ultima implorazione».

(Fine dell’estratto)

***

La casa della donna era in cima a delle strette scale bianche in cui andava a soffocarsi un viottolo dietro la piazza del mercato. Aveva delle unghie così lunghe da dover fare attenzione a non graffiarla quando la carezzava pietrificandola nella nausea. Erano smaltate di rosso molto scuro e le dita erano quasi completamente nascoste da anelli. Gli anelli e le unghie crocchiavano come gusci di lumaca sulla lacca azzurrina del tavolo, un crepito di elitre che alle sue orecchie infantili suonava altrettanto enorme che il fiore nero che la soffocava, e però la faceva ridere perché le altre mani non facevano quel rumore quando toccavano le cose. Una volta aveva appoggiato le sue mani sui seni della sua bambinaia, senza stringerli, formando come due gabbie di cinque dita intorno a ciascun seno. Se avesse avuto le unghie della donna della casa nel viottolo dietro il mercato ogni mano avrebbe inflitto una minuscola ferita lungo le pendici dei seni, infilando la loro lama fin oltre le costole come artigli tropicali, e striscioline di sangue ne sarebbero colate e confluite quale sul bordo esterno, quale nel solco centrale, quale intorno al capezzolo. La donna le dava delle caramelle alla menta quadrate, morbide, chiuse in una carta azzurrina e oleosa. Quasi tutto era azzurro. La donna parlava con la bambinaia in una lingua che lei non capiva (ma non capiva quasi mai niente quando gli adulti parlavano, i suoi genitori l’avevano sempre sgridata aspramente quando cercava di intervenire nelle loro conversazioni, e così stava imparando non solo a tacere quando parlavano gli altri, ma più semplicemente a non capire nulla) e lei si arrampicava sul divano e alla finestra per guardare il mare deserto, morto da tempo immemorabile, e il cielo illividito del fumo giallo e verde dei dirigibili nemici. La finestra era stata saldata al muro e corazzata con tre strati di acciaio, e l’esterno era visibile solo attraverso un minuscolo oblò, di poco più grande di uno spioncino. Quando non ci guardava attraverso, ne osservava la chiazza di luce proiettata dal sole lungo il tavolo, a volte sul collo o sui capelli della bambinaia oppure contro lo smalto e i gioielli della donna (e allora come una goccia d’acqua che cadesse a spargersi lungo linee geometriche e implacabili la luce si divideva in riflessi spettrali e variopinti sul soffitto, che svanivano non appena la mano si spostava dalla luce). Altre volte la chiazza si ritrovava a perlustrare i due quadretti appesi sopra il tavolo, in cui con tratti ottocenteschi erano raffigurate le principali armature e soldati artificiali utilizzati nella guerra in corso, una cosa tra il soldatino di latta e l’ingegneria aerospaziale, un miscuglio che voleva forse essere umoristico e che coglieva certe colorature mollicce e squisitamente indiffinite del conflitto così come dell’umanità che vi stava prendendo parte.

Nelle giornate d’estate la chiazza di luce si intrufolava, zampa di gatto, nella camera in cui alle volte le donne la mandavano a dormire. Ma lei non chiudeva mai gli occhi. Sarahs non dormiva mai.

Quasi allora le pareva di vedere la traiettoria del raggio di luce andare a cercare il punto più remoto e buio in fondo allo stanzino illuminato. La sua attenzione allucinata di infanta quasi comprimeva la luce fino a coagularla in un filo di lana gialla che scivolava lungo le pareti. Tanto vi si concentrava che la sua volontà finiva per coincidere col movimento della chiazza di luce. E le linee tracciate dal sole e quelle del suo desiderio divergevano solo quando Sarahs credeva di poter ordinare alla piccola lenticchia di luce di posarsi sul suo ditino come il diamante di un anello invisibile: era allora che senza volere né sapere si abbandonava alle visioni che gli adulti chiamano sonno, e l’anello d’oro le scendeva docile e lentissimo sul dito fino a quando apriva gli occhi. Oppure impaziente Sarahs alzava un braccio per intercettare il raggio: ma una volta posatasi sulla mano la chiazza di luce si rivelava molto più grande, persino più grande della sua mano. Solo quando arrivava contro il muro era una chiazza.

La prima volta che l’aveva vista, nel buio della camera dove a volte la mandavano a riposare, le era sembrato un occhio emerso dalla parete, che la fissava con morta pace, pronto a farsi zanna e ghermirla non appena lei avesse chiuso gli occhi. Aveva visto un giorno in una rivista il disegno di un demone che abbracciava una donna nuda che gli si avvicinava di spalle. Poco sopra la natica, l’unghia del demone le aveva aperto un piccolissimo taglio, dal quale scendeva una sottile riga di sangue. Se avesse chiuso gli occhi, le mani del diavolo l’avrebbero perquisita e le avrebbero ferito la schiena, e non avrebbe mai più potuto abbandonare l’inferno, ecco quello che voleva dire quell’occhio giallo nel muro.

Quando la portavano a comprare dei vestiti, le commesse del negozio la aiutavano a sistemare meglio le camicine, le gonne o i pantaloni che le facevano provare. Le loro mani sistemando il tessuto sulle sue spalle o lungo le gambe le facevano una specie di incantesimo che per un poco la paralizzava e la rendeva incapace anche solo di sentire quello che le dicevano. Era come se il vestito che aveva indosso e che non era suo avesse preso vita e fosse pronto a stringersi intorno alle sue spalle o lungo le gambe come lo stomaco di un gatto intorno al topo. Quasi le sembrava di sentir respirare il vestito contro di lei, e ogni volta che dopo quelle prove le compravano un vestito nuovo implorava che la notte lo mettessero nell’armadio perché nella penombra della camera, se lo dimenticava in terra o sopra una sedia, ad un certo punto credeva di sentirlo respirare, come un sibilo tenue e infetto dietro il quale si annidava una voce lontanissima, e se la notte il vestito fosse riuscito a serpere e snodarsi fino a lei e a sussurrarle la sua filastrocca lei sarebbe stata maledetta per sempre. Dentro l’armadio il vestito nuovo si rigirava furente ma neutralizzato, e un giorno dopo l’altro non sarebbe più stato nuovo e sarebbe diventato davvero suo e non le avrebbe più fatto nessun male nemmeno mentre dormiva. Per questo le ante dell’armadio della sua camera andavano chiuse con cura e controllate bene prima di andare a dormire. Una volta da un’anta chiusa le era sembrato di veder pendere la manica di un maglione nero, ed era rimasta a fissarlo fino a perdere conoscenza, incapace di avvicinarsi o di muoversi, fingendosi morta per impedire che la manica del maglione sentisse il calore del suo sangue e si allungasse verso il letto per strangolarla.

Uno dei sogni più spaventosi che ogni tanto le capitava di fare riguardava appunto il fatto di indossare un maglione. Sarahs sognava di infilare la testa nel maglione e di sbucare fuori con il maglione quasi indossato, eccetto le maniche ancora vuote. In quel momento iniziava l’incubo. Sarahs sapeva che anche se da fuori non si vedeva, l’interno del maglione era una ramificazione labirintica e intestinale di maniche in continua biforcazione, e che per poter indossare il maglione avrebbe dovuto far percorrere alla propria mano la manica giusta, o il resto del suo corpo sarebbe per sempre rimasto intrappolato nel maglione ––– di solito in quel momento si rendeva conto che il maglione era troppo grande per essere uno dei suoi, ma dato che ormai la testa era passata per il collo del maglione non poteva correre il rischio di tornare indietro, perché a quel punto avrebbe potuto restare completamente prigioniera del maglione, senza nemmeno la possibilità di guardare quel che succedeva al di fuori. Era stato per un incredibile colpo di fortuna che la testa era riuscita a sbucare dall’apertura giusta, e sarebbe stato folle tentare la sorte con un’uscita da quel morto labirinto di lana privo di cuore e quindi di un centro. Tentava perciò la lana con la mano sinistra, dall’interno, sperando di imboccare il passaggio giusto che avrebbe fatto sbucare il braccio nella manica giusta. Trovava un’imboccatura che sembrava, per i movimenti che la testa poteva vedere al di fuori del maglione, il passaggio giusto. La mano si infilava dunque nel passaggio, e quasi, sbirciando dentro la manica da fuori, a Sarahs sembrava di indovinare i contorni della propria mano che avanzava verso l’esterno. E quasi sulla mano le sembrava di sentire già l’aria più libera. A quel punto però la mano che avanzava lungo incontrava una brusca piega che le faceva cambiare direzione con contorsioni sempre più dolorose del braccio, che nelle manovre finiva per attorcigliarsi sempre di più nel tessuto, fino a rimanere completamente bloccato, solo un dito a tentare debolmente la lana tentacolando e ritraendosi quasi corno di chiocciola. Era in quel momento che il maglione cominciava a respirare e a stringersi attorno al collo di Sarahs che si svegliava infine strillando afona. Altre volte, avanzando nella falsa manica, Sarahs incontrava un’altra mano sconosciuta che veniva nella direzione opposta dai recessi insondabili del maglione, e che si afferrava come una tenaglia alla sua mentre la testa da fuori cominciava a indovinare, sotto il tessuto del maglione troppo grande, il profilo sempre più netto di un altro corpo oltre il suo, chissà come insinuatosi nel maglione o forse dal maglione generato. La mano estranea si aggrappava a quella di Sarahs e il maglione cominciava a respirare per conto proprio, finché Sarahs non riprendeva conoscenza, il maglione lontano da lei, chiuso nell’armadio e reso momentaneamente inoffensivo dalla veglia e dalla cosiddetta realtà. Oppure altre volte nel sogno le poteva capitare di infilare incautamente la testa all’interno del maglione allargando giusto un pochino il collo con le dita. In breve, distratta dalla colorazione interna del maglione, che catturava la luce diffondendola in riflessi di madreperla nera, dal numero di cunicoli di lana, come nidi di enormi ragni… e non sembrava di vedere accoccolata, in fondo ad uno di quei cunicoli, come la mano mummificata di uno stregone africano? Non fosse stato per i quattro occhi che portava nel punto più avanzato del dorso, e le corte ma affilatissime e bianchissime zanne che spuntavano più o meno nella zona tra medio e anulare della mano apparente, che tradivano l’insetto. Mentre considerava tutti questi dettagli e questi mostri da baraccone zingaro (un bambino lercio fuggiva dietro gli autoscontri abbandonati), Sarahs si rendeva conto all’improvviso di essersi troppo allontanata dall’apertura per la testa, che ormai non si vedeva più. Si era immersa troppo nel maglione, cadendo in trappola forse per sempre. Di nuovo, cercando disperatamente di liberarsi, Sarahs finiva per rimanere completamente avvolta nel maglione, tanto da non poter più respirare. Riapriva gli occhi infine, ritrovandosi magari completamente avvolta dalle lenzuola. Cosa succedeva sotto il letto quando lei si addormentava? Era da lì che trabordavano le tribù del sogno? Cosa facevano i vestiti quando li si chiudeva nell’armadio? L’ultima cosa che Sarahs ancora oggi riuscirebbe a fare, la cosa che ancora le dà brividi pleistocenici e preumani al cervello è l’idea di aprire nel buio un armadio pieno di vestiti, di aprirlo e sentire, come da una lontananza galattica, il respiro delle camicie, delle maglie, dei pantaloni ammucchiati o quietamente piegati, in agguato.

Quando aveva abbastanza forza, se nessun vestito era stato dimenticato per terra lungo il cammino verso la striscia di luce che passava sotto la porta della sua camera, Sarahs si alzava per andare nella camera da letto dei genitori.

– Cosa sono queste zampine da scimmietta che sento?

– Ho fatto un brutto sogno.

– È solo un sogno, succede.

– Dove va la mamma?

– Va a leggere qualcosa.

– Vado a leggere un libro.

– Dov’è il libro.

– È di là con tutti gli altri libri.

– Me lo leggi?

– È un libro per i grandi.

– Io sono grande.

– Se sei grande perché non provi a tornare nella tua camera? Ce l’hai o no la codina da scimmietta, le orecchiette pelose e tutto il resto che rende voi scimmiette degli esserini così coraggiosi e impertinenti?

– Io non sono impertinente.

– Fammi vedere come ti gratti la testolina.

– No, fammi vedere tu.

– Così?

– No, fai il gorilla.

– Così?

– Sì.

– Sei sicura che non vuoi tornare nella tua camera?

– Sì.

– Neanche se ti accompagno?

– Sì.

– Sì che ci vai o sì che non ci vai.

– Posso stare qui?

– Va bene, però promettimi che la prossima volta proverai a restare nella tua camera.

– Ma poi come fate a saperlo?

– Cosa vuol dire come––

– Come fate a saperlo che sono restata in camera se non esco a dirvi che ho fatto un sogno?

– Non mi scalciare con quelle zampine di ghiaccio.

– Non sono delle zampine.

– Quei piedini. Adesso dormiamo.

– Chiudi l’armadio?

– È chiuso.

– È aperto, vedo tutto nero.

– È chiuso, è nero perché abbiamo spento la luce.

– Mi canti la ninnananna dell’arcobaleno?

– Dormiamo, è tardi. Gli arcobaleni sono andati tutti a dormire.

– Per favore. Cantala per gli arcobaleni della luna.

Sarahs non riesce a ricordare un momento in cui sua madre non avesse in mano o non stesse andando a prendere un libro. La mattina le capitava di trovarla anchilosata su una delle sedie della cucina, mezzo addormentata e resa semifolle da una notte di lettura. Ricordava Pinocchio morto, abbandonato su una sedia dal bambino vero che nessun romanzo vorrà mai più accogliere tra le proprie pagine. Arrivava un momento, le diceva sua madre quando Sarahs le si avvicinava la mattina per liberarla dall’incantamento del libro, Arriva un momento in cui quello che leggi nel libro è una cosa completamente diversa da quello che c’è scritto, è lo stesso che sognare solo che si sta leggendo, hai in mano un testo di ingegneria idraulica e quello che ci leggi è la storia di una piccola principessina che viveva in una piccola casa vicino a un lago, e dentro il lago volavano delle rondini per tenere imprigionata per sempre una strega… Chi si avvicinava al lago poteva vedere il volto della strega imprigionata e il suo sorriso di Medusa famelica, ma i calcoli idraulici e il diametro delle tubature avrebbero mantenuto il lago in forma di reticolo ortogonale, e la principessa avrebbe diretto i lavori del parco delle fontane… Sarahs non è mai riuscita a leggere come sua madre.

Sua madre amava lavare i piatti con l’acqua fredda e giochettare con le bolle di detersivo. Sarahs si avvicinava e le tirava la gonna, e sua madre le appoggiava un ciuffetto di schiuma sulla punta del naso, poi si chinava e glielo soffiava via.

– Mi leggi il mio libro come fai coi tuoi?

I vestiti servivano a lasciare libere soltanto la testa e le mani, e per separarle da tutto il resto: tutto il resto era coperto, tranne quando faceva troppo caldo. I vestiti servivano per strapparsi ai sogni e diventare veri. Finché dalle mani riuscivi ad arrivare alla testa senza che di mezzo non ci fosse che la tua pelle, solo la tua pelle e neanche un filo di vestito, allora non eri ancora davvero sveglia, e i sogni avrebbero potuto trabordare da qualsiasi punto, anche dal fondo della tua gola come un vomito di pan di spagna e crema e glassa colorate. La strega Medusa cercava di uscire dallo stagno per catturarti ma il volo delle rondini la teneva imprigionata nell’acqua dello stagno. Per mangiare la strega addentava i pesci che le passavano accanto nello stagno. Sarahs apriva il rubinetto del bagno quel minimo da farne uscire un filo d’acqua e avvicinava l’orecchio per cercare di sentire il brusio della strega prigioniera, ma la casa dove vivevano non era vicina a un lago. Il trattato di idraulica era un grosso libro con la copertina verde e ogni tanto aveva disegni di tubi, vasche, turbine e altro, e sopra molte pagine la mamma di Sarahs aveva aggiunto delle scritte, a penna, a matita, a pennarello: erano le cose che leggeva quando la notte ancora mezzo addormentata si costringeva a leggere fino a che le parole e le formule del trattato non cominciassero ad essere tradotte in forma di visione.

– Questo è il mio romanzo preferito, ogni volta che lo apro è diverso, e se lo apro durante il giorno è solo un trattato di idraulica. È un romanzo segretissimo che ci spiega come catturare una Truut, capisci?

Truut era il nome con cui sua madre chiamava la strega che prima o poi compariva sempre durante le sue letture notturne. La chiazza nella casa nel viottolo dietro il mercato dove viveva la signora delle caramelle strisciava lungo la parete dello stanzino in cui la mandavano a riposare, e Sarahs si concentrava così tanto sul suo movimento che, come accade a tutti i mistici, la sua testolina e tutto il suo essere finivano per coincidere con il moto dell’astro solare, così perdendosi al di fuori del pianeta che ci tiene prigionieri come streghe Meduse. E facendosi infine sole la sua anima, perlustrando con moto lentissimo i pavimenti del corto corridoio e poi i tappeti della camera spenta, i cui morbidi peli di coniglio avrebbero forse potuto catturare e assorbire come sottilissime miriadi di tentacoli la chiazza di luce e con lei l’intero filiforme raggio che il sole aveva lasciato calare attraverso l’oblò d’acciaio della casa della signora amica della bambinaia. Ma in quel breve cerchiolino ad ogni cosa, ai tappeti, ai listelli di legno del pavimento e poi alle vecchissime maniglie dei cassetti, alle cornici dei quadri e alle tende, ad ogni cosa nel limitato spazio d’oro della chiazza di luce erano restituiti i colori dei quali la quasi tenebra della stanza l’aveva privata: poi una volta trascorsa la chiazza i colori tornavano a perdersi nel buio. Se la chiazza di luce non avesse mai toccato la stanza, tutto quello che c’era dentro e persino le sue stesse pareti sarebbero prima o poi evaporati in un grigiore impalpabile e in qualche raro grumo di polvere e pelucchi. Ma la chiazza già si arrampicava sulla coperta, piagando con le sue zampe di ragno la lana a quadretti colorati. Quando riprendeva i sensi, Sarahs si ritrovava a volte sdraiata sul divano di gommapiuma. Nello specchio che faceva da fondale alla vetrinetta del salotto vedeva allora la bambinaia e la donna che ancora parlavano, e quasi avesse sentito il suo sguardo come lei sentiva il movimento lentissimo e ininterrotto della luce (un’altra volta, la monetina di luce strisciando lungo la coperta di lana a quadretti colorati, fissandone da vicino i bordi aveva creduto di distinguere un brulichio come di zampine di onisco che fluendo filiformi sul tessuto imprimevano il movimento alla chiazza di luce rivelandone insieme la natura d’insetto; ma quando si fermava in alto, in un certo punto dietro la tenda, la chiazza sembrava duplicare in due occhi gialli che la fissavano, e per un qualche motivo la chiazza sembrava bloccarsi dietro la tenda, come una farfalla nella ragnatela), la signora ovvero il riflesso della signora nella vetrinetta girava gli occhi verso Sarahs e le sorrideva senza smettere di parlare alla bambinaia.

Chi la stava guardando quando era il riflesso a guardarla e non la signora in carne ed ossa? Se gli altri riflessi negli specchi ti guardano negli occhi è perché le immagini riflesse stanno prendendo vita. Solo ciò che è vivo ti guarda negli occhi. Ma da dove prendono la vita? Si riaddormentava senza scoprirlo, continuando a fissare gli occhi della signora che nel sogno non smettevano mai di fissarla dallo specchio della vetrinetta. La signora parlava con la bambinaia da dentro la vetrinetta, guardando Sarahs e accordandosi con la bambinaia: avrebbe comprato la bambina addormentata e l’avrebbe tenuta con sé, facendola dormire nella camera dagli occhi gialli. La bambina sarebbe diventata uno dei ninnoli nella vetrinetta, o uno dei soldatini di carta incorniciati nelle stampe appese sopra il muro, e la notte la signora la avrebbe staccata dal muro, imprigionata nella carta, incapace di muoversi, come un demone arabo catturato in un papiro sacro, e la signora con un pennino e dell’inchiostro le avrebbe cancellato per sempre gli occhi e la bocca, e poi l’avrebbe mandata a combattere con gli altri soldati, travestendola da uomo come nelle storie antiche, ma gli altri soldati l’avrebbero presa, povera indifesa strisciolina di carta, e l’avrebbero stracciata a pezzettini, e sparsa nel fango delle trincee e dei campi di battaglia. Ma scivolando ancora più in profondo nel sogno Sarahs si rendeva finalmente conto che dentro la vetrinetta la strega e la bambinaia erano in realtà più piccole di lei, e così allungava una mano maciullata e quasi liquefatta dal sogno per catturarle e costringerle a riportarla a casa sua. Ma quando poi si svegliava Sarahs giocava con la signora e mangiava le sue caramelle e quasi le voleva bene: perché poco prima avrebbe voluto sfarinarsela tra le dita come una minuta farfalla? Era ancora possibile farlo quando la signora era intrappolata nello specchio della vetrinetta, quasi anche lei immersa tra i ninnoli e i bibelot che c’erano là dentro (una onnipresente gondola veneziana e un pupazzetto di Pinocchio, una bambolina vestita da clown che fissava con clownelancholica imbambolazione una brocchetta di peltro da cui pendeva una spiga di grano e una rosa rinsecchita, e poi i piccoli animali e i minuscoli paramenti e le cartaglorie pagane residuo della gioventù africana della signora). La strega zingara batteva le mani per la gioia e il divertimento quando la vedeva addormentata sul pavimento vicino alla credenza della cucina, avvolta in rari fili di lana colorata come una principessa berbera.

– Il mio piccolo fiorellino africano.

Sarahs apriva gli occhi mezzo intrappolati nei fili di lana e vedeva la signora ridere con i suoi anelli d’oro, ma non doveva cedere a quella signora e a quegli anelli, perché era solo un altro sogno.

La sua bambinaia aveva un paio di denti cariati e i capelli lisci, lunghi e scuri. Le teneva la mano quando salivano le strette scale bianche, interamente intonacate come in una casa maltese, che portavano all’appartamento della signora con gli anelli. La vera casa della signora era lontana dal golfo, questa in cui andavano a trovarla era una casa per le vacanze in cui la signora andava quando era una bambina e in cui i suoi genitori (della signora) erano morti.

Era la bambinaia che a volte quasi senza svegliarla sollevava Sarahs dal divano e la portava nell’altra camera, dove le finestre e le tende erano sempre chiuse. Quando nel sogno Sarahs si avvicinava alla vetrinetta vedeva farsi sempre più grandi i volti della bambinaia e della strega riflessi nello specchio che faceva da parete di fondo della vetrinetta. Quando poi finalmente raggiungeva lo specchio, gli occhi della strega continuavano a sorridergli da dentro la vetrinetta come attraverso un oblò, ormai persino più grandi di quelli della bambina, grandi come due bricchi per il latte; morbidi e ingombranti gli occhi della signora a volte urtavano contro i chiodi arrugginiti piantati nelle bambole del deserto appoggiate dentro la vetrinetta, ferendosi contro le schegge di legno e iniziando a lacrimare sangue, mentre la signora rideva liricamente. Era uno degli incantesimi della strega: i suoi occhi da dietro lo specchio della vetrinetta fatata diventavano i tuoi, lacrimando sangue dagli occhi feriti la strega scivolava nelle tue orbite e piano piano attraverso gli occhi iniziava a succhiarti via tutto il sangue dal corpo, fino a che i tuoi occhi irreparabilmente sformati dal drenaggio non avrebbero mai più visto nient’altro che il sorriso della strega svanire dalla superficie dello specchio della vetrinetta come un alito che evapora in inverno. La bambinaia doveva essere la schiava della signora, costretta a portarle sempre nuovi occhi da imprigionare. Ogni volta Sarahs si ricordava troppo tardi del sortilegio dello specchio –– era una cosa, come molte altre, di cui si ricordava solo quando cadeva addormentata –– e ogni volta provava lo stesso a chiudere gli occhi per non vedere il sorriso della signora, gigantesco dietro lo specchio nella vetrinetta, tanto che si potevano vedere le piccole macchie di tè o di caffè sui denti, le minuzie di biscottini, e sentire persino tutt’intorno a sé il calore del respiro della donna, come quello del bue su Gesù Bambino. Era tutto inutile: anche se sentiva la carne delle palpebre colargli calda e morbida sugli occhi, era come se le palpebre fossero diventate trasparenti: la febbre che la maga aveva suscitato nelle sue iridi aveva permesso loro di risalire attraverso le palpebre fino agli occhi enormi e quasi liquidi della signora.

La porta della casa era verde scuro come gli scuri sempre chiusi della camera dove la portavano a riposare dopo avergli succhiato il sangue dagli occhi. Le iridi precipitavano verso gli occhi ridenti della signora che ormai prendevano l’intero specchio dentro la vetrinetta. Provava allora a mettersi una mano sugli occhi, ma subito i soldati di carta della signora scivolavano fuori dalla cornice dentro cui erano appesi e si infilavano tra gli occhi e il palmo intrufolandosi sottilissimi e indistruttibili tra dito e dito, obbligandola a vedere. Sarahs aveva visto, giorni prima, un’astronave precipitare in una delle vie parallele a quella in cui si trovava il condominio al settimo piano del quale viveva con i suoi genitori. I suoi pupazzi di caucciù erano sparsi sulla moquette. Li contemplava bisbigliando loro rapide storie di pazza morte e felicità. La luce dell’esplosione aveva come fatto cadere un improvviso e approssimativo tramonto avvitandosi al quale le ombre dei pupazzi avevano roteato intorno ai corpi, e quella rapida piroetta di ombre aveva dato alla bambina che contemplava i propri giocattoli l’illusione della vita.

***

La prima volta che era andata a Venezia, appena scesi dal treno avevano attraversato il largo canale che lambiva il piazzale di santa Lucia a bordo di una canoa, residuo delle pattuglie esplorative che perlustravano la laguna durante il conflitto austroamazzonico che aveva portato alla nascita dell’impermanente e ondivago impero omonimo. La canoa (il traghettatore aveva il corpo decorato da linee di colore il cui significato simbolico era ormai perduto, anche per lui stesso) li aveva lasciati davanti a una chiesa la cui cupola era sorretta da spesse spirali di pietra dall’aspetto vagamente dolciario. Avevano salito una larga rampa di gradini bianchi. La cupola era in rovina come quasi ogni edificio della città all’indomani della guerra. I gabbiani e le rondini planavano sulle statue dei santi e imbrattavano il corpo della Madre e del Figlio morto, riverso in contorto languore sul Grembo. I funzionari amazzonici incaricati dell’accoglienza dei visitatori di ogni chiesa rimasta ancora in piedi dopo la guerra avevano dato loro una candela e li avevano fatti scendere nelle cripte della chiesa, dove sopravviveva un primitivo e alquanto surrogato trionfo della morte e un paio di arazzi con scene della Passione. Il Figlio era portato nudo e legato davanti all’Impero; tra le due masse (a sinistra la folla dei persecutori e dei seguaci unita in aderenza quasi precolombiana ai contorni del corpo del Figlio, a destra l’impero con la bacinella d’acqua per le mani) un piccolo cagnetto in posizione eretta ossia (non fosse che si trattava di uno di quei cagnetti insignificanti e garruli, un protobarboncino giulioclaudio cui perciò il participio araldico qui di seguito mal, forse, calzerebbe) rampante: zampante: Zampinante, un buffoncello candido e stupidino incomprensibilmente protagonista del frangente pittorico, saldamente in seggio sul punto di fuga nonché sul centro esatto della scena, unica creatura a non avere alcuna interazione fisica con ciò che gli stava vicino e intorno, separata dal mondo affollato e appiccicaticcio degli uomini e del Figlio da una invalicabile tenebra di fili d’arazzo. Non meno sconcertante il secondo di tali arazzi, cui si accedeva quasi per caso, infilandosi in un pertugio ingombro di cartacce e, secondo sembrava di intuire al tremulo lume delle candele amazzoniche, ossa. Il cadavere del Figlio, schiodato dalla croce, era a terra, circondato da tre donne che ne bevevano le ferite dal petto, da una mano e da un piede, tanto che non fosse stato per la croce alle spalle del gruppo lo si sarebbe detto un picnic cannibale. Dopo essersi beata del cagnetto, che il lume tremebondo rendeva quasi vivo, Sarahs aveva nascosto la faccia dentro le mani davanti alle tre donne che si abbeveravano alle piaghe del Figlio. La lana dell’arazzo si era rivelata di colpo nella sua natura, solo a Sarahs nota, di anti-filo d’Arianna non per uscire, ma per penetrare nel labirinto dell’incubo e non uscirne mai più.

Erano forse quei tre vampiri di lana ad aver colonizzato il maglione dal quale tante volte era stata divorata in sogno? Vivevano così, esseri di tessuto tra le pieghe dei vestiti, assetati di sangue? E la signora e la bambinaia? Non erano forse due di quelle tre donne? Quella che beveva il sangue che usciva dalle mani del figlio non aveva forse degli anelli?

Ma allora dov’era la terza strega, si chiedeva Sarahs con la tragica cecità degli iniziati di ogni tempo.

[continua l’11 febbraio]