Il giorno di Natale del 1956, nei dintorni di Herisau, Robert Walser fu trovato morto nella neve. Era morto durante una passeggiata solitaria. Robert Walser era ed è una leggenda, una favola triste. La sua morte è la morte del poeta, quel poeta che egli stesso ha descritto cinquant’anni prima – quando ne aveva ventotto – nel suo primo grande libro, “I fratelli Tanner”. “Sebastian doveva essersi accasciato lì per una grande stanchezza che non riusciva più a sopportare. Molto robusto non era mai stato. Camminava sempre piuttosto curvo, come se non sopportasse la posizione eretta, come se gli facesse male tenere la schiena e la testa diritte. A guardarlo si aveva la sensazione che non fosse in grado di affrontare la vita e le sue fredde esigenze”.
Che ci piaccia o no, il giovane Walser ha descritto qui la propria morte. Egli sapeva – ne sono convinto – che scrivere è una cosa seria che non si può inventare impunemente. Ne ha anche paura. Non s’impegna mai del tutto con la scrittura, si tira indietro, cerca varianti, teme di nominare le cose. Si rifugia nell’umorismo che forse non gli è del tutto congeniale ma del quale ha bisogno.
Il suo Sebastian ne I fratelli Tanner è un poeta fallito e non soltanto fallito ma anche un pessimo poeta privo di talento e presuntuoso. Così viene presentato a noi lettori ed è facile comprendere il sarcasmo dell’autore.
Il fratello di Simon – Simon è, pur non formalmente, il vero io narrante del romanzo – dice al vanitoso Sebastian a proposito delle sue poesie: “Lo faccia quando avrà cinquant’anni!”. Non è Simon a pronunciare queste parole ma suo fratello Kaspar, il pittore. Ma quel Simon – che altri non è se non lo stesso Robert Walser – ha abbandonato la scrittura esattamente a cinquant’anni, per sempre.
Non Simon, ma sua sorella Hedwig prende le difese dell’infelice Sebastian: “Se fossi pittore, io sarei veramente un fratello per un poeta”.
Il fratello di Robert Walser, Karl, era un pittore di successo ed era suo amico. Dunque Walser se la passava meglio di Sebastian. E la sorella Hedwig , che corrisponde alla vera sorella di Walser, dice anche: “I poeti sono così facilmente vulnerabili; oh, non si debbono mai ferire i poeti”.
A quale Robert Walser devo credere, a quello del sarcasmo feroce per l’autore mancato, o a quello che lo compatisce? Poiché sia che parli suo fratello o sua sorella è sempre Walser a parlare. E soprattutto, sarcasmo su chi e compassione per chi? Ovviamente sarcasmo su se stesso e compassione per se stesso, per Robert Walser. Simon decide poi di non segnalare alla polizia il morto assiderato Sebastian: “Non sporgerò denuncia a nessuno. La natura si china a guardare il suo morto, le stelle cantano piano vicino al suo capo, e gli uccelli notturni stridono, è la musica migliore per chi non ha più udito né sensi”.
Simon prende dalla giacca del morto una busta che contiene delle poesie che – pur pessime come sono – si ripromette di portare alla redazione più vicina. Lì, le getta nella cassetta delle lettere e scrive sulla busta: “Poesie di un giovane trovato assiderato nel bosco, da pubblicare se è possibile”.
Mi sembra che con la pubblicazione de I fratelli Tanner gettiamo una volta di più le poesie nella cassetta delle lettere augurandoci che “sia possibile”.
La parola “possibile” è una parola chiave per Walser. Non significa semplicemente l’eventualità, il condizionale, l’alternativa – significa molto meno e molto di più: una gentile richiesta e le scuse per essere presente e osare disturbare. (Un altro cittadino di Biel della sua stessa generazione conosceva a sua volta questa parola – sia pure con un diverso significato – il clown Grock. Una coincidenza? Che questa coincidenza sia almeno menzionata).
Chi era questo Walser? Chiunque lo abbia letto finisce sempre per litigare a questo proposito con qualcun altro. Era intelligente, istruito, raffinato? Sì, lo era. Era ingenuo, prevenuto, borghese, piccolo borghese? Sì, lo era. Era pazzo? Questa è davvero l’unica cosa sulla quale gli amici di Walser possono e vogliono trovarsi d’accordo: no, non era affatto pazzo. Come scrittore era mite, attento, silenzioso, riservato, ragionevole, comprensivo. Non postulava nulla, si scusava soltanto.
Simon è manifestamente renitente al lavoro ma non insiste, si scusa soltanto.
Chi era Robert Walser? Chiunque voglia rispondere a questa domanda con l’aiuto della sua biografia non riuscirà a farlo scientemente. Non credo che vi sia un’altra opera letteraria di così vaste dimensioni altrettanto autobiografica come quella di Walser, riga per riga. Le vicende personali che vi stanno dietro sono in realtà quasi del tutto leggibili però curiosamente proprio questa vicinanza tra opera e biografia impedisce di far luce sulla sua reale personalità. A questo proposito, noi tutti che litighiamo su di lui perché lo amiamo così tanto, siamo d’accordo nel considerarlo un povero diavolo, uno con una triste vita. E lui, lo scrittore, ha fatto di tutto per commuoverci.
Gli è riuscito: gli ammiratori di Walser, per reciproca gelosia, non si amano molto, ma sono d’accordo su questo punto.
L’evocazione della sua biografia non aiuta. Dalla sua opera e dalla sua biografia sappiamo quasi tutto di lui e allo stesso tempo maledettamente poco. E proprio per questo è divenuto una leggenda.
Ciò nonostante: Robert Walser è nato nel 1878. Nel 1894 morì sua madre. Nel 1895 concluse il suo apprendistato presso la Banca cantonale bernese a Biel. Dal 1896 al 1906 visse a Zurigo; svolse le professioni più diverse senza grande entusiasmo e spesso non le svolse per niente, meravigliandosi di riuscire comunque a sbarcare il lunario.
Dobbiamo immaginarci il romanzo I fratelli Tanner ambientato in questa Zurigo. Lo scrisse a Berlino nel 1906 – molto rapidamente, secondo la mia opinione personale. Visse a Berlino presso suo fratello Karl Walser, non ancora il famoso pittore Walser ma pur sempre un eminente membro della bohème berlinese. Per gli iniziati Walser non era più uno sconosciuto. Aveva già pubblicato un piccolo libro che non fece furore tra i lettori ma che fu molto apprezzato dagli addetti ai lavori: I temi di Fritz Kocher. Una raccolta di piccoli pezzi di prosa che furono alla base della sua fama di narratore di prose brevi. Walser è sempre rimasto fedele a questo genere di narrazione e ha scritto i suoi romanzi con la tecnica del racconto breve senza una vera e propria costruzione, confidando molto sulla pazienza e sulla cortesia del lettore. Mi sembra che con I fratelli Tanner egli si sia conquistato, in qualche modo, un diritto di ammissione alla bohème berlinese. Voglio dire che la ragione era prima di tutto esteriore – semplicemente riuscire a scrivere un libro, compiere qualcosa, fare qualcosa, voler fare qualcosa, entusiasmarsi.
Walser fece tutto questo confidando molto sulle sue capacità e con grande fiducia nel fatto che ad un’idea ne segue sempre un’altra; un centometrista che si sente abbastanza forte da non cambiare la sua tecnica per una corsa di fondo.
Questo libro comincia così: Simon entra in una libreria, chiede del proprietario e con un discorso patetico e appassionato sul commercio dei libri lo convince a farsi assumere.
Il lettore sa subito – e anche Walser lo sa: la faccenda andrà storta!
In fondo Walser scrive l’appassionato discorso contro se stesso e a questo fa seguire immediatamente il deluso discorso di dimissioni rivolto al libraio, con parole di scusa. (Io ho un figlio che cambia spesso lavoro; gli voglio bene per la passione che mostra e che sa diffondere intorno a sé quando inizia una nuova occupazione. Del resto – approfitta del fatto che ho letto Walser e che lo amo).
Ma la biografia di Walser? Sono dell’idea di prendere per buona quella che propone il giovane (ventottenne) Walser. Di tutte le biografie su Walser che conosco, questa è la migliore, ed è anche la sola che sia stata scritta nell’ignoranza dell’intera vita di Walser.
Qualcuno è forse riuscito a predire la sua vita sulla pagina scritta? Un destino a tal punto prestabilito? Niente affatto. Walser si conosceva, questo è tutto. Walser non aveva voglia di diventare qualcuno, di fare qualcosa, di cambiare qualcosa. E sapeva, da moralista, come vanno a finire quelli che vivono come lui.
Forse è il caso di citare la celebre frase di Franz Kafka su I fratelli Tanner: “In definitiva, lui (Simon) non diventerà nient’altro se non il divertimento del lettore”. Sì, Walser piaceva a Kafka. Per i divulgatori di Walser questo fatto è importante. Credono di aver bisogno di un testimone autorizzato. Ma la citazione originale e le circostanze che la riguardano sono molto più walseriane: nel 1909 Kafka scrive al direttore Eisner di conoscere Jakob von Gunten (il terzo romanzo di Walser nello spazio di due anni). Kafka scrive: “Un buon libro, non ho letto gli altri libri, in parte per colpa Sua poiché Lei, malgrado i miei suggerimenti, non volle acquistare I fratelli Tanner. Credo che Simon sia uno tra quei fratelli e sorelle. Non se ne va forse girovagando dappertutto felice come una pasqua e in definitiva non diventerà nient’altro se non il divertimento del lettore?”.
Fin qui Kafka che evidentemente all’epoca non aveva letto il libro ma ne aveva sentito parlare. Penso addirittura che alcune persone intorno a lui gliene abbiano letto dei passi – Franz Blei, forse -, poiché l’affermazione secondo cui da Simon non diventerà nient’altro se non il divertimento del lettore è sorprendentemente precisa. Per quanto riguarda l’espressione “felice come una pasqua”, senza dubbio Kafka dopo aver letto il libro avrebbe dato un giudizio diverso, ma ancora più sorprendente e, a mio avviso, ancora più precisa è l’altra frase, quella mai citata: “Simon è – credo – uno tra quei fratelli e sorelle”.
Lui è questo. Il titolo del libro è una promessa non mantenuta. Lì non si parla affatto di fratellanza – quest’impresa sarebbe stata troppo romanzesca per Walser e avrebbe potuto rovinare la sua prosa – qui si parla in modo quasi monomaniacale solo di un individuo tra i suoi fratelli e sorelle.
Chi sono questi fratelli e sorelle?
Un fratello, Kaspar (nella realtà Karl Walser), che è un pittore, un pittore affascinante (“La mattina dopo il pittore tolse dalla cartella i suoi paesaggi, e ne cadde fuori per primo tutto un autunno, poi un inverno…”). Un fratello, Klaus, il borghese arrivato, l’apprensivo sempre pronto al rimprovero (la cattiva coscienza di Simon), che nella realtà si chiamava Hermann ed era professore di geografia all’università di Berna; un fratello, Emil, che in realtà si chiamava Ernst e che effettivamente fu internato nel manicomio di Waldau; e la molto amata Hedwig, in realtà la molto amata Lisa che era maestra di scuola a Bellelay. Walser descrive il suo soggiorno presso di lei in modo certo non peggiore di quanto abbiano fatto i suoi biografi.
Simon vive tra i suoi fratelli e sorelle con cattiva coscienza. Cattiva coscienza nei confronti di Klaus che è un uomo retto e che fa dei rimproveri al fratello (rimproveri che l’autore può solo immaginare e che immagina); cattiva coscienza nei confronti del fratello che vive in manicomio e in condizioni peggiori di lui; cattiva coscienza nei confronti di Hedwig che si sacrifica e che è l’amore in persona; e grande venerazione per suo fratello Kaspar che è un vero pittore. Walser inventa ciò che dicono i fratelli. Loro parlano il linguaggio di Walser (discorso e replica) e noi ci commuoviamo per il modo con cui essi lo lodano e teneramente lo descrivono. Questo è il ruolo della donna nel suo libro, descriverlo teneramente! Simon è immerso nel mondo dei suoi fratelli.
In realtà per Walser le cose stavano effettivamente così. Ma Walser eleva queste cose al rango di fiaba: tutto riesce anche se riesce nella tristezza e nella miseria.
I fratelli Tanner sono una fiaba e, ai miei occhi, sono la fiaba più sorprendente che sia mai stata scritta perché non ne esiste un’altra così vicina alla realtà. È l’unica fiaba davvero realizzabile, soprattutto qualora le fiabe fossero realizzabili, oppure – per dirla con Walser – “se è possibile”.
Una fiaba che – sono certo – Walser ha conosciuto e amato e che lo ha colpito, è La piccola fiammiferaia di Andersen. Anche questa fiaba si avvicina alla realtà, per Walser è divenuta la fiaba di Simon e verso la fine del libro viene meravigliosamente mutata – una fiaba d’inverno. È divenuta la fiaba dello stesso Walser?
La biografia di Walser? La fiaba di Walser? Quando scrisse questo libro viveva in quella bohème berlinese di inizio secolo. Bruno Cassirer, un uomo importante, era suo editore.
Senza alcun dubbio avrebbe voluto essere un poeta povero – la sua grande produzione a quel tempo aveva a che fare anche con problemi di denaro – uno senza importanza, ma sconosciuto, no.Vi sono anche testimonianze secondo cui i due fratelli Walser si comportavano da veri selvaggi in quella bohème. Ma anche per questa vicenda preferisco affidarmi al libro di Walser che attesta altre cose: è il libro di un poeta triste, di un uomo duramente provato, si tratta – e questa è la cosa sconvolgente – già del libro di un uomo vecchio che si sforza di scrivere su un giovane.
Può darsi che Robert Walser in questo libro abbia anticipato quello che in seguito avrebbe potuto scrivere. Forse dopo ha rinunciato alla scrittura perché l’aveva già fatto prima. “Un poeta che non ama la vita è perduto”, ha scritto una volta. Perciò forse ha voluto descrivere anticipatamente la propria vita perché sapeva che non avrebbe avuto la forza di amarla abbastanza a lungo.
Robert Walser che a quel tempo scrisse incredibilmente molto non mi dà neppure in una riga l’impressione di essere uno scrittore appassionato, che sente il bisogno imperioso di scrivere.
Quasi ognuna delle sue righe è gravata dal malinconico sottofondo: si potrebbe anche rinunciare.
I ricercatori potranno continuare a indagare sul perché egli abbia cessato di scrivere a cinquant’anni – mi affascina di più invece chiedermi perché lo abbia fatto prima. Un quesito insolubile, fatto questo che lo rende più importante.
Torniamo alla frase di Kafka spesso citata: è l’osservazione pertinente di un uomo che conosceva il libro solo per sentito dire. Ma la frase di Kafka ha un doppio significato. Presumo che più tardi Kafka abbia letto I fratelli Tanner e senza dubbio non avrebbe avuto ragione di ritirare la sua frase. Non avviene davvero quasi nulla ne I fratelli Tanner, nulla di più che un po’ di vita. Non c’è una storia che solleciti il lettore, solo il linguaggio fa procedere il libro. Ma nel corso delle ultime settimane ho perseguitato tutti i miei amici con I fratelli Tanner, avevo un bisogno incoercibile di raccontare. Questo libro non è avvincente, per niente avvincente, ma fa scattare il bisogno di raccontare, e colui al quale lo si racconta – Kafka, per esempio – lo racconta a sua volta. Perché? Forse perché non c’è racconto oppure perché tutto è racconto, non suscita in me l’immagine “storie” ma l’immagine “vita”.
Qualcuno la cui vita non vale la pena di essere narrata racconta la sua vita.
Sono molto grato che questo Walser sia stato scoperto un giorno. La cosa non è ovvia perché se si ha voglia di leggerlo bisogna in qualche modo parteggiare anticipatamente per lui. Ha bisogno di un acconto di fiducia perché lui stesso è troppo silenzioso per sollecitarla.
Joseph Wiktor Widmann, l’autore e redattore del quotidiano bernese Der Bund, il cui foglio d’appendice era ampiamente noto all’epoca, scrive nel 1898 , a proposito della primissima pubblicazione di Walser su questo giornale: “Un ventenne impiegato di commercio, Robert Walser di Zurigo, che già a quattordici anni ha lasciato la scuola per l’ufficio e dunque non ha potuto ricevere alcuna istruzione superiore regolare, ha recentemente inviato all’editore di questo giornale un quaderno contenente una quarantina di liriche, le sue primizie”. (Der Bund, 8.5.1898).
Widmann, un sensibile conoscitore di letteratura, aveva scoperto così un autore importante. Franz Blei fu colpito da Robert Walser grazie a questa pubblicazione – poesie che tra l’altro, lette oggi, appaiono forse un po’ troppo conformi al gusto dell’epoca – ma Blei vi scoprì qualcosa di più, restò fedele a questo Walser e fece molto per lui.
Quel che sorprende: le prime frasi su Walser (di Widmann), determinano già il tono con il quale ancora oggi viene raccontata la sua leggenda: il piccolo commesso che scrive poesie, l’ingenuo dotato, l’uomo estraneo alla letteratura.
Posso immaginare che questo malinteso non dovesse dispiacergli troppo. Lui stesso sapeva bene di essere un letterato molto consapevole, di scrivere in modo assai più raffinato di quanto si potesse credere.
In tutti i modi le mie considerazioni su Walser non possono distanziarsi dal tono di questa leggenda. La leggenda e l’opera sono ormai così intimamente legate che non riferirle insieme costituirebbe una sottrazione di informazioni. Spesso mi hanno invitato ad esprimermi a proposito di Walser. Non l’ho mai fatto. Lo faccio solo una volta – qui e ora.
Poiché fondamentalmente Walser mi appartiene in via esclusiva. Ecco un’altra sensazione che gli amanti di Walser hanno in comune e che rende così difficile la loro reciproca comprensione. Chi legge Walser lo scopre, lo scopre sempre per la prima e l’unica volta. Io l’ho scoperto nel 1954 da un rigattiere. Ho compitato il suo nome senza sapere che qualcun altro avrebbe potuto conoscerlo. Non sapevo neppure che fosse svizzero. Viveva ancora nel ‘54, ma io non lo sapevo. So anche che solo nel 1964 ho appreso che era morto a Herisau. Lì, nel 1964, ho visitato il suo monumento – per i monumenti la gente è rapida.
Ma come già detto, non sono l’unico al quale Walser appartiene in via esclusiva. Walser senza dubbio non ha lettori critici; o lo si accetta o lo si rifiuta. Bisogna identificarsi in lui, nel suo dolore, nella sua malinconia, nella sua filosofia, bizzarra il più delle volte, bisogna abituarsi a leggere non tanto storie ma frasi, non trecento pagine ma mille frasi, ognuna delle quali è degna di essere citata. Frasi belle e compiute in se stesse – un piacere per il lettore.
A queste condizioni è pressocché impossibile analizzare Walser. È difficile stabilire quando è serio, cosa intende per comico, dove esprime le sue opinioni personali e dove cita quelle degli altri. E anche laddove l’analisi fosse possibile, gli si farebbe torto, perché non ne è interessato e concepisce tutte le cose come insieme. La parola d’ordine è ironia. Può essere presente in Walser ma non è localizzabile. Egli può essere allegro, incredibilmente allegro e scherzoso, ciononostante abbiamo paura di fargli torto con le nostre risate.
Non vi sono stratificazioni di linguaggio in Walser. Tutti coloro che parlano, sia esso Simon o l’uomo nella copisteria o dell’ufficio di collocamento o la bella, benevola signora, – parlano tutti con l’accento di Walser. Mi sembra la tecnica di estraniamento della fiaba.
In definitiva, chiunque dica qualcosa nella fiaba, è sempre la voce del dolce narratore, la voce della mamma a parlare.
In realtà non vi sono veri dialoghi in Walser. Le figure di Walser (Walser stesso), parlano per lunghi monologhi. Intrattengono discorsi reciprocamente – discorsi molto letterari – e i monologhi sono il racconto stesso. Questa, da un lato è sicuramente un’astuzia raffinata e consapevole, ma è ancor di più l’atmosfera dell’autogiustificazione – la cattiva coscienza che dà avvio al monologo!
Se si volessero ridurre I fratelli Tanner ad un tema, esso sarebbe il grande lamento di un ozioso sulla sua inutilità, l’impotente discorso di difesa di un uomo che sarebbe propriamente un moralista, la cui coscienza lo vorrebbe spingere a lavorare ma la cui volontà non può seguire la coscienza e il più delle volte vi si oppone ostinatamente – un tema davvero attuale. (Io stesso imparo a comprendere un po’ mio figlio quando ascolto Simon; poiché Simon mi costringe ad amarlo, imparo anche ad amare mio figlio).
Un secondo tema – e credo che l’autore se ne accorga a malapena e che nasca in lui in modo del tutto spontaneo – è la donna: questa grande, bella forte donna che tutto comprende: la redenzione. Dalle donne Simon ottiene gratuitamente una stanza, soldi in prestito, non deve pagare nulla al ristorante, offre loro la sua totale sottomissione e le immagina ogni tanto in fantasticherie sadomasochiste. Ma Simon è tutt’altro che un donnaiolo. Non vuole esattamente e non vuole soltanto il cuore delle donne, vuole la loro compassione, la redenzione. Grazie a lei, grazie alla donna, egli potrebbe essere qualcuno. E il libro si chiude sull’annuncio della realizzazione. Pertanto il lettore sa – e anche Walser lo sa: se avesse continuato a scrivere non se ne sarebbe fatto nulla e questo probabilmente perché il libro si ferma all’annuncio – così, al più tardi con le frasi conclusive tutto diviene una fiaba, una fiaba d’inverno.
C’è un terzo punto in comune tra Simon e Walser. Simon è uno che passeggia però non è un ozioso promeneur ma quasi un professionista, uno obbligato a passeggiare. Nessun altro tema appare in modo così costante nell’intera opera di Walser e una delle sue più belle storie si chiama appunto La passeggiata. Nessuno come lui sa descrivere il
passeggiare in sé e per sé. Per lui questo non è né camminare né osservare. Le cose esistono quasi casualmente, non hanno nome, gli alberi si chiamano alberi, i fiori, fiori e il lago si chiama lago. (In questo caso si tratta indubbiamente del lago di Zurigo e la zona dove fa le sue passeggiate nel Zürichberg; le ricerche biografiche ne convengono. Questa curiosità è comprensibile ma non porta a nulla. Il paesaggio walseriano è sempre da qualche parte, le sue passeggiate sono passeggiate in sé e per sé. In fondo lui non descrive affatto il paesaggio ma la passeggiata). La passeggiata è divenuta il ritmo della sua vita e Walser scrive al ritmo del battito del suo cuore, come un cantante di blues. La sua intera opera è una grande, lunga passeggiata e se I fratelli Tanner hanno una costruzione, una struttura, allora la forma è la passeggiata, una cosa segue l’altra, i temi vengono incontro all’autore senza la sua collaborazione, ad esclusione del fatto che lui si muova. Descrive spesso cose, una fattoria, un cane cattivo del quale ha paura, ma solo così, per l’importanza che potrebbero avere nella storia, dopodiché le toglie di mezzo, ad esempio con un “Procediamo oltre!” e questo non vuol dire altro che “lasciare le cose dietro di sé”. Il narratore, l’uomo che passeggia, non si dirige intenzionalmente verso qualcosa ma lascia sempre consapevolmente qualcosa dietro di sé.
“Procediamo oltre!”, questo è il gesto del passeggiare. Lo troviamo in Walser in forme molteplici : “Poi fu il turno dell’Italia…poi quello dell’Inghilterra…”, oppure, “Era Klara Agappaia”, o ancora, “Il giorno seguente Klaus era già ripartito”. Queste non sono davvero tipiche citazioni di Walser.
Il Walser tipico è l’uomo dei monologhi interiori, il camminatore che discorre con se stesso, e le fredde frasi inserite qua e là come “Era Klara Agappaia” sono la presa di coscienza dei piedi.
Quando Simon incontra nuovamente questa meravigliosa, singolare, unica Agappaia, all’autore viene in mente soltanto dopo la descrizione della donna che potrebbe trattarsi di nuovo della Agappaia. E il lettore sorride. “Era Klara Agappaia”. Ecco il principio della casualità nella passeggiata, il “procediamo oltre!”.
La forma narrativa di Simon (e di Walser) che fa avanzare il racconto come una passeggiata ricorda un altro personaggio della letteratura e un altro autore, il “buono anulla” di Eichendorff. I fratelli Tanner sono sempre stati paragonati a quest’opera. Questo paragone, se ricondotto alla tecnica narrativa, mi sembra giustificato. Mentre il personaggio di Simon non è paragonabile al “buono a nulla”, Walser lo è solo un poco ad Eichendorff. L’autore Walser somiglia alla figura del “buono a nulla” di Eichendorff, prende ciò di cui ha bisogno. Le coincidenza arrivano appena la storia lo richiede. Simon non è affatto lieve come “il buono a nulla” ma l’autore Walser possiede questa leggerezza nella scrittura. Il “buono a nulla” raramente porta con sé il violino, però lo ha sempre a portata di mano quando ne ha bisogno.
Ma la grande differenza tra il buono a nullae Simon è la differenza tra il vagabondare e il passeggiare. Il vagabondare è qualcosa di lieve, il passeggiare è malinconico. Inoltre, mentre non riesco a immaginare Eichendorff come un viandante, Walser era uno che passeggiava. Lui non inventa il passeggiare, esso è semplicemente la cosa più naturale, se Walser vuole descrivere se stesso deve descrivere uno che passeggia.
E se vuole descrivere se stesso deve descrivere uno Svizzero.
Mi vengono in mente poche cose e faccio fatica a fornire una prova inconfutabile ma ho l’impressione che dietro questo libro vi sia un onesto svizzero, costantemente occupato a difendersi, costantemente preoccupato a non fare brutta impressione sui suoi vicini. Raramente è coraggioso, più che altro è malizioso e la sua collera è da presumere solo repressa quando, per esempio, dichiara al libraio che lo ha deluso. Può diventare molto bonario e non mira a far passare questa bonomia per ironia o parodia. Essa è lì, come tutto il resto – appunto scritta, raccontata, nata passeggiando.
Il quindicesimo capitolo del libro è quello della filosofia. Anche in questo caso non c’è da stabilire se siano tutte opinioni di Walser – ma una cosa è sicura: gli sono venute in mente e lui se ne è rallegrato.
Simon a proposito della patria: “Sono un tipo strano nel mio Paese”.
È molto svizzero mettere in relazione la propria particolarità con la patria ed è anche svizzero dover giustificare la propria permanenza in patria. “Io resto qui e forse ci resterò. È così dolce restare. Forse che la natura va all’estero? Vanno forse in giro gli alberi per procurarsi da qualche altra parte foglie più verdi e poi tornare a casa a pavoneggiarsi?”.
Ecco una bella idea che corrisponde senza alcun dubbio alle opinioni di Walser. Lui però è a Berlino, si gode Berlino. Per caso, sente nostalgia per il suo Paese? Non credo. O si tratta forse della frase premonitrice dell’uomo vecchio, del vecchio Walser che davvero rimarrà?
In tutti i casi la patria come oltraggio, un tema della letteratura svizzera contemporanea, è sconosciuto a Walser. La patria non si discute. Questa indiscutibilità ha qualcosa di religioso ma Walser non è religioso ovviamente e tuttavia se ne occupa comunque. “La religione, secondo la mia esperienza, è amore per la vita, profondo attaccamento alla terra, gioia dell’istante, fiducia nella bellezza, fede negli uomini, spensieratezza nei conviti con gli amici, piacere della riflessione e il sentimento di non essere responsabili nelle sventure”. Questa non è temerarietà, non è umorismo, questa è dolcezza, ed essendo una esigenza non soddisfatta, è anche tristezza.
E dice ancora lo Svizzero: “Ma il mio gusto di stare al mondo non lo sacrificherei per il piacere di nessuno, al massimo per la mia santa patria benché fino ad oggi non si sia presentata l’occasione”.
La pensa davvero così? Non lo so, ma si ha ragione di supporre che Walser fosse un conservatore – in ogni modo un social-conservatore. Questa frase tuttavia si adatta sicuramente meno bene all’educazione civica di alcune frasi equivalenti di Gottfried Keller.
Quando Walser è indeciso allora esagera e a causa dell’esagerazione rende la frase poco adatta alla citazione. In quei momenti pensa in svizzero-tedesco , si rifugia nel carattere disimpegnato dello svizzero-tedesco, e poi vi sovrappone l’affettazione del “buon tedesco”.
Walser probabilmente è forse il primo Svizzero ad aver scoperto che si può, da Svizzero, usare il “buon tedesco”, un po’ strano, un po’ patetico, come lingua teatrale ed artistica, che lo Svizzero che ha poca familiarità con il “buon tedesco”, occupa un posto privilegiato di fronte a questa lingua: la può maneggiare consapevolmente.
Rinuncio ad analizzare quali siano gli elvetismi deliberatamente ricercati in Walser e quali quelli accidentali. Vi è in lui senza dubbio pure un effetto di ipercompensazione, scrive spesso ancor più in un tedesco più “alto” di quanto sia necessario. Ma questo equilibrismo gli piace. Se il “buon tedesco” fosse stata la sua lingua madre non sarebbe mai nato questo Walser.
Lingua artistica – in lunghi monologhi che somigliano più a lettere che a un discorso spontaneo – è possibile. Dialoghi veri e propri richiederebbero una più approfondita conoscenza del “buon tedesco” corrente. (Tra parentesi: siamo più condizionati dalle nostre incapacità che non dalle capacità. Quale altra professione avrebbe potuto abbracciare un uomo che va a passeggio, un ozioso?).
Walser recita, recita dei ruoli. E di quando in quando ho l’impressione che reciti se stesso, non è affatto uno scrittore, non vuole esserlo, recita soltanto, un atto funambolesco che un giorno deve finire male.
Ma questo Simon, presume il lettore per tutto il tempo – deve essere davvero uno scrittore. Walser evita in tutti i modi di farlo passare per uno scrittore. Lascia che sia un altro – Sebastian – a farlo e a farlo pure in modo pessimo.
Dopo la morte di Sebastian, nel sesto capitolo, Simon comincia (a partire dal settimo), a scrivere egli stesso – ma solo così, giusto per noia. Il lettore si aspetta a buon diritto che lui divenga finalmente uno scrittore. Non lo sarà. Walser si oppone. Si possono vedere già qui i germi del successivo rifiuto di Walser ad essere uno scrittore?
Un autore di ventotto anni ha già descritto qui tutta la sua vita che proseguirà per altri cinquant’anni? Un giovane autore ha scritto il libro di un vecchio? E il vecchio non lo ha più potuto fare perché lo ha già fatto il giovane? Nel 1929, Robert Walser, all’età di cinquantuno anni viene ricoverato nella clinica di Waldau a Berna. Quattro anni più tardi viene trasferito nell’istituto psichiatrico di Herisau, nel suo cantone di nascita, l’Appenzell-Außerrhoden. Abbandona completamente la sua attività letteraria e rifiuta anche di parlarne. Non vuole avere più nulla a che fare con la letteratura; il Walser delle passeggiate ha lasciato dietro di sé anche lo scrittore. A poco a poco cade nell’oblio. E solo dopo la sua morte – nel 1956 – verrà scoperto nuovamente. Trascorre gli ultimi ventisette anni della sua vita nell’istituto. Le testimonianze di questo periodo sono esigue. Solo una persona – lo scrittore e giornalista zurighese Carl Seelig – a partire dal 1936 rimarrà in contatto costante con lui divenendone anche il tutore. Ancora oggi ci si interroga sulla sua malattia. La nostra comprensibile predilezione per la leggenda, per la triste fiaba di Walser, ci porta regolarmente a voler dubitare della sua malattia mentale. Vi sono pure testimonianze di visitatori che raccontano di aver parlato con lui in modo del tutto sensato e che solo in presenza del personale dell’istituto giocasse a fare il matto. Non riusciremo mai a far chiarezza. In ogni caso mentre è immaginabile la sua volontà di lasciarsi alle spalle la letteratura, non è altrettanto immaginabile quale altro lavoro avrebbe potuto fare.
Il giorno di Natale del 1956 morì a Herisau un uomo che un tempo fu un autore apprezzato e celebrato dai letterati. Per i suoi pochi, fedeli lettori, che non lo dimenticarono neanche in quest’epoca, era un uomo che nella sua opera richiedeva una partecipazione alla sua tristezza, qualcuno che si imparasse ad amare attraverso la sua opera.
Questo Walser sopravvisse ancora trent’anni alla sua opera e rifiutò qualsiasi partecipazione, qualsiasi pubblicità, qualsiasi letteratura. Il Walser che passeggia è sopravvissuto allo scrittore, decidendo perciò, in via definitiva – quali che ne siano le ragioni – per la passeggiata. Se c’è un quadro clinico da conoscere – di che malattia si tratta? – in ogni caso è Simon che bisogna riconoscervi. I fratelli Tanner si chiudono da fiaba, una fiaba d’inverno. La donna che senza alcun motivo e al primo istante ama questo Simon, che dà ordine che non paghi il suo pasto, che si leva così semplicemente dalla penna dell’autore, dice: “No, lei non si perderà. Altrimenti, se accadesse questo, sarebbe peccato, peccato per lei…Deve imparare a sussurrare in un orecchio e a ricambiare tenerezze. Altrimenti lei diventa troppo tenero. Io le insegnerò… Venga. Andiamo fuori nella notte d’inverno. Nel bosco dove il vento rumoreggia. Devo dirle tante cose. Sa che io sono la sua povera, felice prigioniera? Non una parola di più, non una. Ora venga…”.
Non una parola di più, non una, questo è l’ingresso nel silenzio. Il giovanissimo Walser l’ha descritto, il vecchio lo ha compiuto.
Si sarebbe potuto comprendere se I fratelli Tanner – il suo primo grande libro – fosse stato l’ultimo. Mi sembra che nessun altro libro di Walser abbia l’aria, come questo, di un ultimo libro.
Andiamo fuori nella notte d’inverno, questo è l’annuncio del silenzio – quel silenzio del quale ci parlano le fiabe.