Un giorno un uomo di nome M–––s M––o, ragioniere per una ditta con sede a Jucafilo che produceva e produce ancora oggi carte da gioco, riconobbe ovvero credette di riconoscere il volto di Marjo Salvati, un caro amico che viveva in una città poco lontano da Venezia, nel volto di un uomo che stava passeggiando senza meta per Campo della Sfinge, all’ombra della mole della famosa torre incompiuta. M–––s si fece incontro all’uomo come chi vuole abbracciare una persona cara e ad alta voce chiamò l’amico per nome, “Marjo, Marjo!”, ma il passante non si voltò. M–––s allora in pochi passi fu di fronte all’uomo, arrestandone il cammino: di nuovo allargò le braccia, di nuovo sorrise, e ripeté ancora una volta, questa volta guardando l’uomo negli occhi, “Marjo, Marjo, non mi riconosci? Sono M–––s, M–––s M–––o!…” ma fu sorpreso nel vedere che l’uomo mostrava di non capire, e anzi si voltava di qua e di là come se cercasse alle proprie spalle il vero destinatario di quell’effusione.
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Un giorno un ragazzo di diciassette anni, mentre le schegge di luce del lago mutilavano i bagnanti in un ronzio di risate, radioline e lontanissime cicale, sentì due amici parlare di una ragazza che lui non conosceva, e quando uno di loro disse, “…ha imparato a cantare dagli zingari, ecco perché…” e poco dopo, “…non so, ha gli occhi di un colore, non so bene, come il verde ma diverso, non so…”, il ragazzo, senza averla mai veduta, senza averne mai visto gli occhi senza nome, senza aver mai sentito la sconosciuta cantare con gli zingari, sentì il desiderio di sapere chi fosse ––––––– e anche se il ragazzo non ci pensò, né allora né mai, forse fu quella la prima volta che davvero provò quel che tutti chiamiamo desiderio ma che quasi nessuno sente davvero incarnare in sé come una corda di marionetta che ti prosciuga le ossa e ti obbliga, per un istante o per sempre ––– non importa, all’obbedienza cieca.
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L’uomo restava davanti alla finestra, il telefono in mano.
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Un giorno un giovane di poco più di vent’anni, fissando assorto il paesaggio che sfrecciava dietro il finestrino di un treno diretto verso Venezia, si addormentò.
Quando riprese conoscenza, sentì qualcuno che respirava vicino a lui. Il giovane si volse. Si era addormentato in uno scompartimento vuoto, ma adesso tutti i posti erano occupati. Lui era seduto vicino al finestrino, e, nei due posti che rimanevano sul suo lato, trovò una coppia di mezza età, marito e moglie; la donna aveva in grembo una rivista religiosa che ogni tanto carezzava come una cosa molto cara. O forse non era una rivista religiosa, forse era una bambina. Non saliva dalle pagine sottili un pigolio intenerito e senza filo? Di fronte a lui, nei posti che rimanevano, vide o credette di vedere una famiglia di orientali, forse di indiani. Sembravano molto ricchi. Erano in quattro: un uomo che teneva in braccio un bambino, e vicino a lui una donna, estremamente bella; e un’altra donna, più vecchia, che pareva svanire nella pelle del sedile del treno, e forse non era nemmeno lì. Ogni tanto l’uomo e le due donne, o la donna, ma quale delle donne era lì? ogni tanto come per non farsi sentire dal bambino, o dalla bambina, si scambiavano sorridendo qualche parola a voce bassissima che annegava nel palpito grigio-verde del treno.
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Anche da bambina, se avevo paura di qualcuno, ecco che per il terrore andavo lì e iniziavo a parlargli e ad essere gentile e sempre più vicina al male, e anche adesso, non so perché, quando ho paura delle persone vorrei che quelle persone e la loro paura non mi lasciassero mai.
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Rapporto salvato per grazia di Dio numero 4 (meglio noto tra gli infermieri come “Il rapporto dei mutandoni”):
«Come mi dissero poi, nel mio caso fu una faccenda un po’ più complicata del solito, dato che non avevano usato la bara; in più, giacevo in terra sconsacrata. È per questo che dovetti farmi strada alla vecchia maniera (voglio dire alla maniera dell’età della pietra), scavando per anni e forse secoli con l’unghia nel terriccio, fino a creare una specie di conca infinitesimale, o anfratto, in cui potessi raccogliere ciò che restava della mia anima. Non è spiacevole, la terra che si fa carne nel breve spazio d’aria inizialmente non più grande di un seme di mela. Quando infine mi liberai, mi vennero fatti indossare dei mutandoni e mi venne consegnata una torcia elettrica, necessaria per la prima perlustrazione dell’alloggio che avrei dovuto infestare».
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Restò così davanti alla finestra, il telefono in mano.
La città era accerchiata da un temporale, ma l’aria era quella di sempre, densa e puzzolente. Teneva il telefono in mano. Iniziò a scattare delle foto all’orizzonte di case e alberi sotto di lui.
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Mi succede sempre. Ho paura, ho proprio paura che possano strangolarmi o farmi del male, ed ecco che allora vorrei passare con loro più tempo possibile, e con il ragazzo coi guanti bianchi mi è successa la stessa cosa.
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…all’obbedienza senz’occhi della morte e degli angeli.
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Quando vide che dietro di sé non c’era nessuno, l’uomo si rivolse a M–––s con aria interrogativa e domandò, “Ma lei sta parlando con me?”, e guardò M–––s come si guardano quei personaggi svaniti e mezzo matti che vagabondano in tutte le città con la testa piena storie strampalate.
La voce dell’uomo, che M–––s riconobbe non essere quella dell’amico, chiarì al ragioniere la natura dell’incidente che stava capitando, e che già mordeva con le sue minute ma antichissime radici d’edera il destino dei due estranei. M–––s cioè, di fronte allo sconcerto dell’uomo che aveva appena bloccato, iniziò a sospettare che quello che aveva davanti non fosse affatto il suo amico Marjo bensì, come in un’illustrazione di un vecchio romanzo inglese per ragazzi, i due passanti uno di fronte all’altro paralizzati in un gesto di ottocentescamente urbano sbalordimento, un suo sosia; quando, dopo che l’uomo gli si rivolse una seconda volta domandando cosa stesse accadendo, si fu definitivamente convinto che non poteva esserci altra spiegazione che questa, sorridendo e mandando un’esilarata imprecazione, mentre l’altro restava nel dubbio di trovarsi davanti a un mentecatto, il ragioniere si diede una manata contro la fronte e, in poche parole, chiarì allo sconosciuto l’equivoco e, chiarito che lo ebbe, si intrattenne – irresistibilmente magnetizzato, e non lo siamo sempre tutti?, dalla tenebra che allungava piccoli corni prensili di lumaca dallo spiraglio d’inferno di quella coincidenza – si intrattenne a conversare con più calma con lui, senza mai smettere di meravigliarsi per la somiglianza tra quell’uomo (che disse di chiamarsi Luijgi e di essere un chitarrista) e il suo amico Marjo. Persino la voce dei due uomini era molto simile, e M–––s l’aveva riconosciuta come differente solo per via dell’inflessione, che era inequivocabilmente del sud del Paese, mentre Marjo era nato e cresciuto al nord.
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«Per pura e semplice necessità accademica, dato che contro ogni aspettativa ad un certo punto le ipotesi storiche avevano esaurito tutte le possibilità del senso e del non senso, per la buona vecchia lotta per la vita, negli ambienti degli studi storici si era passati a cercare di raggranellare quel poco di stipendio con lo studio della storia, pardon, della Storia da un punto di vista non umano ––– piaccia o no, quest’idea del non umano è diciamo una costola tolta da quella altra costola (ovvero si procedette o si credette di procedere dall’umano al non umano così, di costola in costola, lungo un virtualmente infinito corridoio di sempre più minuscole costole l’una nell’altra inmatrioskate) della storia che è, o era, dipende un po’ forse anche dalla moda oltre che dalla lotta per la vita, la cosiddetta storia di genere; pionieristico in questo senso il (per una volta sacrosantamente) bersagliatissimo, cialtronescamente checoviano Storia femminile e canina dell’epoca post-industriale di (…omissis…)): come a voler parificare i conti, per un forse edenico e per ciò stesso irreparabilmente tardivo senso di giustizia cisumano, parificare i conti con l’animale “vittima” della storia naturale; come poteva, questo l’assunto diciamo così filosofico sotteso all’intera operazione, come poteva l’uomo anzi l’umano arrogarsi il diritto di raccontare la storia animale senza permettere all’animale di dire la sua sulla storia dell’uomo anzi dell’umano?»
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(R.s.g.D. n. 4, continuazione)
«“I fantasmi hanno orbite senz’occhi”, così mi hanno detto [e qui, si capisce, il nuovo direttore giù a picchiare il dito sulla parola occhi: ogni volta, e ogni volta senza cavare, da quelle orbite cieche, un ragno che è uno], “e non vedono nulla, né di giorno né di notte. La torcia le servirà per farsi un’idea della casa”».
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Una volta mi hanno letto un libro o una fiaba con un serpente capace di ipnotizzare le scimmie.
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Il ragazzo chiese dunque a uno dei due amici, badando a parlare a bassa voce e senza smettere di fumare la sua mezza sigaretta, quale fosse il nome della ragazza e, quando gli fu risposto che la ragazza si chiamava S––––s, al sibilo di quelle tre semplici lettere che obbligavano la lingua a carezzare brevemente il palato, e per quelle poche parole sugli occhi e sulla voce della sconosciuta, il ragazzo si innamorò di lei.
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(Ma, proprio come in un vecchio vaudeville, la meraviglia non era che una delle molte maschere della morte.)
Nondimeno, continuando a fissare il sosia del suo amico, M–––s ad un certo punto della conversazione fu colpito da una seconda idea, una seconda spiegazione dell’incidente, non si sa se più o meno complicata della prima, ma che M–––s giudicò, per qualche rovinoso minuto, più convincente della faccenda del sosia. Fu colto cioè dal dubbio di essere vittima di una burla di Marjo: si chiese insomma se tutta questa del sosia non fosse che una messinscena del suo amico, e se l’uomo che aveva davanti non fosse in effetti lo stesso Marjo, che camuffando la propria voce avrebbe deciso di prendersi gioco di lui in quello strano modo. Il fatto era che M–––s non riusciva a credere fino in fondo all’esistenza della persona che aveva davanti proprio in ragione del fatto che già ne conosceva un’altra identica, il che detto così può certo apparire folle ––– che cioè potessero esistere due sosia talmente identici in ogni dettaglio: gli pareva infatti che i più piccoli nei della pelle, le pieghe dei ricci dei capelli, perfino il modo di muovere le mani dell’uomo appena incontrato fossero assolutamente identici a quelli dell’amico, tanto che, si disse M–––s tra sé e sé, “Nemmeno la madre saprebbe riconoscere la differenza”, ovvero, né la madre dell’uno, né quella dell’altro sosia: sempre, appunto, che fossero sosia, e non piuttosto la stessa persona, e quindi la stessa madre… Marjo non era nuovo a simili scherzi, e anzi M–––s ricordava talvolta con un certo bruciore come già molte volte in passato Marjo, facendo leva sulla sua natura credulona, lo avesse messo in ridicolo, forse o forse non senza volere, anche di fronte ad altre persone. E se anche questa volta Marjo avesse voluto farlo parere un babbeo?
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“Se riuscirò a fotografare un fulmine, vuol dire che non tutto è perduto. Se il mio dito toccherà lo schermo nell’esatto momento in cui nel cielo inquadrato dal telefono compare un fulmine, allora non tutto è perduto”. Iniziò a scattare.
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Non mi succede solo con i ragazzi, non è una cosa che mi fanno i ragazzi. Anche con le donne, anche con i vecchi, anche con i gatti, con i bambini, con le mucche, le oche, i maiali e i cavalli, e persino in certi posti che mi sembrano molto pericolosi. Non li abbandono mai. Una volta ho passato mezz’ora sotto una cascata congelata, con tutta la gente che mi gridava di muovermi da lì, ma io continuavo a fare mille cose, a scivolare e a battere i piedi e a guardare in su e in giù perché mi era sembrato di vedere uno scoiattolo nel ghiaccio o un pipistrello e invece non era vero niente, volevo solo stare lì il più possibile sotto tutto quel ghiaccio che stava per cadermi addosso, e veramente più tardi, nello stesso giorno, cadde, proprio lì dove mi ero fermata io.
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Il dubbio, data l’apparenza stupefacente dell’identità, era affatto legittimo.
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Capofila della nuova corrente di studi, manco a dirlo, il nostro Sommariva, che (reduce da una grave slogatura per una malintesa lettura – così tra i circoli circolava la circulata leggenda – di un’istruzione postale acclusa in una delle lezioni epistolari di tarantella pugliese distribuita – pare al solo Sommariva – dall’ineffabile Ufficio Danze Popolari diretto, di nuovo manco a dirlo, dall’altrettanto nostro Valmarana (ma di questo altrove, forse)), che (dicevano e dicevamo) se ne era uscito con un aureo trattatello su una Evoluzione dell’erotismo coniugale della mosca nel quale, non si capì mai bene (dato che nessuno, compreso forse Sommariva stesso, lesse l’aureo opuscoletto per intero – né da parte nostra siamo minimamente intenzionati a interrompere l’altrettanto aureo usus academiae) se su basi scientifiche o meramente empiriche, il Sommariva pretendeva aver osservato nella mosca contemporanea la perdita presso che definitiva dell’abitudine ad accoppiarsi in volo.
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Mi dissero che avevo rischiato di essere tagliata a pezzi dalle lastre di ghiaccio.
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(R.s.g.D. n. 4, continuazione)
«Forse a causa della malinconia, (Addio, sepolcri fuggenti!…), dimenticai di chiedere al funzionario a cosa potesse mai servirmi una torcia elettrica, dato che non avevo più i miei occhi. Cosa ancora più strana è che vedevo perfettamente il funzionario che mi stava parlando in modo così evasivo, ma tant’è: presi la torcia senza chiedere spiegazioni. Nemmeno adesso so perché o come vidi il funzionario, né perché la torcia elettrica mi fosse necessaria. In ogni caso, è vero: senza la mia torcia non riesco a vedere nulla».
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«Seguiva (così pare: come sempre: così pare…) un paragrafetto infestato di un proustianesimo d’accatto, irritantissimo pertanto (ma, esaurendosi parallelamente anche le vie della bellezza oltre che quelle della storia, chissà che non si arrivi un bel dì anche ad una estetica dell’irritazione, ad un classicismo dorico dell’orticaria, ad un sublime dell’infiammazione e dell’idiosincrasia), in cui un <sic> «giovanetto» Sommariva spendeva afosi pomeriggi nella casa avita (lunga parentesi, qui, sulla pretestuosissima –– tutto in Sommariva è sempre -issimo, come è e sempre è stato per tutti i grandi e tutti gli imbecilli –– e forse già allora in realtà morta e sepolta nonna Sommariva, sul suo (della nonna) progressivo farsi trasparente nella desertificazione del cervello verso la più elevata sfera della perfetta Demenza cui converge prima o poi, quasi in antiaverroistico empireo, ogni mente traversato lo gran mare etc. e così via divagando a cavalcioni della babbiona, di irritazione in irritazione, con tanto di acclusa fotografia della zia zitella e mesta, votata a chissà quali opuscoli religiosi, lei, e reclusa in un labirinto di vestaglie rosa e tappi per le orecchie e––––– ma basta così, davvero: basta) osservando e al caso spiaccicando (somma crudeltà del bambino verso le mosche rapite nell’estasi amorosa, e pertanto dimentiche di proustoidi mocciosità) mosche accavallate in aereo amplesso:…»
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Chiese dove fosse possibile sentire la bella voce di S––––s e, saputo che la ragazza cantava ogni martedì e giovedì sera in un locale chiamato Felix isosceles, dato che quel giorno era mercoledì il ragazzo si ripromise di incontrarla o almeno di sentire la sua voce l’indomani.
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E quel giorno pensai che quei guanti non gli servivano per leggere i libri, ma per uccidere, come il ghiaccio, e così iniziai a fargli mille domande sui libri antichi, e gli chiesi perché li leggeva, e quando glielo chiesi mi sembrava che tutti e due stessimo recitando, come per una prova, perché io sapevo benissimo che lui non aveva mai visto un libro antico in tutta la sua vita, e lui di sicuro sapeva che io sapevo che lui stava dicendo bugie, e così mi rispondeva per finta ma nello stesso tempo aspettava il momento buono per infilare i guanti e uccidermi, e la prendeva con calma perché sapeva che io non lo avrei lasciato andare via, anzi, aveva già indossato uno dei guanti, e da come mi guardava si capiva benissimo che stava per uccidermi, e io non volevo a nessun costo mandarlo via, e lui lo sapeva, e sentivo che mi scappava la pipì ma con tutte le forze mi tenevo, perché avevo paura che se andavo in bagno poi lui se ne sarebbe andato portandosi via i guanti e i libri finti.
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Nel corso della sua vita aveva già fatto centinaia di volte dei giochini del genere. Si fossero realizzati quei pronostici, pensava ora, sarei morto suicida, sarei sposato, sarei in carcere, sarei ricchissimo, sarei in un’isola e sarei nel deserto, sarei un artista condannato all’immortalità. Sarei l’amante di S.
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M–––s anzi già si aspettava che l’uomo scoppiasse a ridere e gli si rivelasse come il vero e proprio Marjo, e iniziasse come da astioso copione a prendere spasso dalla sua dabbenaggine; e finì con il raffigurarsi la scena in modo talmente vivido da sentirsi sul serio gravemente offeso dal proprio amico, senza che ancora fosse successo nulla che facesse presagire di trovarsi davanti a uno scherzo. Scusandosi con Luijgi, gli chiese perciò di esibire i documenti per provare la propria identità; la richiesta, formulata con i termini più cordiali, venne tuttavia avanzata con un tono di voce ed uno sguardo che lasciavano trapelare un certo rancore. Un poco turbato da quei modi, anche lui ormai catturato dal cattivo incontro, il chitarrista porse a M–––s la propria carta d’identità.
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Poi, nel passare il treno davanti ad uno stadio, la donna con la rivista religiosa aveva dato di ginocchio al marito, e indicando la costruzione aveva detto, “Hai veduto l’infamia?”, e al cenno d’intesa dell’uomo, aveva rincalzato dicendo, “Che orrore!”; e dopo un sospiro aveva aggiunto, “che scomodo!”, e a queste parole il giovane si addormentò di nuovo. Quando nuovamente si risvegliò, vide che i tre col bambino e la coppia con la bambina erano spariti e al loro posto era comparso un signore che, non appena il giovane posò lo sguardo su di lui, lo salutò con un cenno del corpo, come per alzarsi, ed un sorriso, quasi che per tutto quel tempo (ma quanto tempo? il treno era lanciato, e il ragazzo, senza orologio, non aveva modo di capire né il luogo né il tempo) il signore davanti a lui non avesse fatto altro che attendere il suo risveglio.
L’estraneo si era sistemato vicino al corridoio del vagone proprio sull’angolo opposto rispetto a quello dove stava il giovane, e il giovane poteva vederlo nel riflesso trasparente del finestrino, e così, ancora ignaro di quale terribile orrore quell’incontro avrebbe portato nella sua vita, ebbe il comodo di considerare il nuovo venuto dalla testa ai piedi, senza parere sfacciato.
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(R.s.g.D. n. 4, continuazione)
«Feci fatica a trovare l’alloggio che mi avevano assegnato, perché è in una zona del centro storico che frequentavo poco. Per di più la torcia mi ballava pazzamente tra le mani: non avevo alcun controllo sulle mie braccia, che guizzavano in maniera scriteriata, come una coppia di anguille: così vedevo i particolari dell’appartamento a casaccio: una tenda, un vecchio lampadario di ferro, un tappeto rovinatissimo, un televisore, piastrelle scure. Odiai da subito quell’appartamento. Cercai un interruttore tentando lungo le pareti, ma non trovai che una manopola (da quando sono fantasma, trovo quasi solamente manopole), e quando la girai non si accese che una fila di piccole luci colorate, simili a quelle che si usano per i presepi. Abbastanza stranamente, mi dissi che all’inizio Dante dovette vedere le anime del Paradiso nello stesso modo: gruppi di luci minuscole che si fanno strada nelle tenebre con tenue tin tin di vecchie biciclette. Le luci circondavano i piedi di una statua piuttosto grande, una Madonna con il cuore scoperto e insanguinato. Trovai molto stupido tenere una statua del genere in casa e decorarla con quelle lampadine.
Poi quel maledetto cane iniziò a latrare, la torcia mi scivolò di mano e si ruppe».
(Fine putativa – cfr. infra – del R.s.g.D. n. 4)
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Dallo stereo che mio fratello ha messo nel bar veniva una musica con la chitarra elettrica, ma era come se anche l’allegria di quei suoni fosse scesa fin lì per strangolarmi con quei guanti bianchi. Le dita dei guanti non erano sudicie per le pagine dei libri antichi, ma per tutte le volte che avevano strangolato una persona. La pelle dei morti li aveva rovinati. Io lo sapevo, e sapevo che anche lui lo sapeva, ma gli domandai lo stesso perché andava in giro nelle biblioteche con i suoi guanti per leggere i libri antichi, e lui mi rispose che era un lavoro che ormai non faceva più, e che non sapeva perché quei guanti gli erano rimasti in tasca, ma io sapevo che se aveva ancora i guanti era per via della pelle dei morti, e non per i libri.
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«…aereo e, data la faccenda in cui erano affaccendate, più goffo del solito e più vulnerabile alla manata del bambino, che in più poteva ora gloriarsi, sorta di novello Ammazzasette (e ci piace qui interludere un po’: allegoria negletta ma potentissima, l’Ammazzasette, allegoria e prefigurazione del moderno redattore del proprio curricolo, del campione di videogiochi, dello sdipanatore di arazzi notturni e riassumendo più in generale dell’energia spesa nel vuoto e nel vuoto autoglorificantesi, e quindi in definitiva stemma araldico dell’intero Cosmo e delle Stelle), di aver ucciso due mosche in un colpo. Ora, tornando al diciamo così assunto dell’intervento, usciti se Dio vuole dal par prousto-sommariviano in cui con mazzata forse volutamente maldestra avevamo lasciato rotolare la pallina della/e nostra/e storia/e, oggi di tali accoppiamenti non se ne vedono più: una generazione di Ammazzasette ha finito per sterminare le più eroticamente spericolate tra le mosche contemporanee, mutilando in via forse insanabile il kamasutra della specie. Sono sopravvissute alla strage solo le mosche più pudiche, bisognose di appartarsi in un minuscolo e celato buio.»
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Il giovane, che si chiamava Hanso ed era nato a Briwen, nel distretto venetico-giavanese di Schwarzschwarz, passò il resto della giornata camminando, guardando le nuvole, fischiettando, le mani in tasca e la testa piena di pensieri vaghissimi attorno a S––––s, la cantante. Andando, a volte saltellava o batteva le mani come se stesse inseguendo il chiasso di una fanfara, sentendosi felice e cretino, ed era più commosso che mai mentre anche lui come mille e mille altri prima di lui con meraviglia rifletteva su come fosse strano l’amore.
Il desiderio lo stritolava in ogni fibra come un vampiro di luce, annichilando il suo sangue in un vuoto senza moto e senza pace.
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Forse aveva paura anche lui, perché ad un certo punto fece degli occhi grandi così guardando sopra di me, e poi si mise anche lui a farmi domande, di continuo, e non aveva ancora pagato, e mi chiese anche per quanto tempo saremmo rimasti aperti, e io gli dissi che il padrone teneva aperto tutto l’anno, mi chiese chi era il padrone, e io gli dissi che era mio fratello, e lui volle sapere da quanto tempo mio fratello aveva il locale, e poi mi chiese se mi piaceva lavorare lì, guardava sempre sopra di me e io non capivo perché era così terrorizzato, e cercavo di capire che cosa potesse averlo spaventato tanto da mettersi a fare tutte quelle domande, ma dietro di me c’era solo l’orologio. Poi ritornò normale e fece silenzio per un po’. Guardava ancora l’orologio dietro di me, ma meno di prima. Aveva già rimesso i guanti in tasca e io volevo che andasse via, e non aveva ancora pagato. Ma alla fine, quando mi chiese fino a che ora dovevo lavorare quel giorno, mi prese la crisi, perché l’altro mi aveva fatto la stessa domanda, e corsi di là piangendo come una stupida, con le lacrime che salivano da sole come biglie o caramelle che cadono fuori da un sacchetto troppo piccolo, e non ci si può fare niente, solo rincorrerle e gridare di fare attenzione a non scivolarci sopra.
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Il cielo e la luce, fuori, stavano cambiando.
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«Ah! Fare l’amore in volo: quale estasi potrebbe eguagliare quella a quella?»
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(R.s.g.D. n. 4, postilla ancipite)
«Mi piace, quando mangio robe strane,
Vedere che colore ha la mia cacca».
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Il documento finì per convincere definitivamente il ragioniere ma M–––s, come capita a volte a ciascuno, aveva immaginato con tanta intensità di essere stato burlato dal proprio amico che, nonostante l’immagine si fosse poi rivelata falsa, era rimasta in lui viva la sensazione di aver subito un affronto, e fu forse per il desiderio di vendicarsi di quella burla che egli stesso aveva immaginato, e forse per via di altri antichi dissapori con l’amico Marjo, il cui volto continuava ad avere davanti nel volto del sosia, dissapori che sia l’uno che l’altro dei vecchi amici avrebbe giurato essere morti e sepolti, che M–––s, lì per lì, organizzò per l’amico una nuova e reale burla, tra le più strane e raccapriccianti che si possano immaginare. Si offrì di pagare il pranzo all’uomo appena incontrato e, una volta nel ristorante, davanti a un paio di bistecche, iniziò a mettere in atto il proprio disegno, chiedendo a Luijgi se non fosse disposto, quel giorno, a fare un viaggio con lui verso i rioni veneziani di Waltzwaltz, dove appunto Marjo viveva, per incontrare il proprio gemello, al che Luijgi rispose che lo era: infatti la fortuna, o se preferite il caso o un cieco mostro dalle mille braccia mancine, aveva voluto che Luijgi dovesse tenere un concerto proprio a Waltzwaltz l’indomani, e del resto Luijgi stesso, animato dalla continua meraviglia di M–––s, desiderava incontrare il proprio doppio, per quanto tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stato senza dubbio qualcosa di già perfettamente noto.
Accettò dunque l’invito di M–––s e, dato che ambedue viaggiavano in treno, si diedero appuntamento alla stazione per la mattina del giorno dopo.
***
Seguiva, o segue, è lo stesso, il tempo non esiste nella scrittura e meno che mai in quella del Nostro, un resoconto delle varie esplorazioni del Sommariva in buchi, anfratti, interstizi tra i volumi, alla caccia importuna e un tantino voyeuristica – ma precisamente voyeur è ogni critico purosangue, cacciatore cioè, e quasi paparazzo dell’atto creativo: sempre: e ad ogni costo – di mosche impegnate nella continuazione della propria specie, non più in estasi, però: proprio come la coppia postnapoleonica, ormai imprigionata nell’amore esclusivamente coniugale (prigionia erotica foriera però di romanzi: benvenuta, dunque? “non si sa…” sornionamente così in una noticina il Nostro, che pure dalla consorte era stato cornificato, e ripetutamente: Valmarana favente, ça va sans dire –– ma noi lo diciamo lo stesso); proprio come la coppia edenica: il paradiso terrestre non essendo altro che (estromesso d’ufficio, Woodstock, all’aurea paginetta) la libertà di amarsi ovunque, e conseguentemente la (o perlomeno certa) pornografia un brutale tentativo di effrazione dei cancelli di detto paradiso – ed ecco perché ognuno di “quei film” come si diceva una volta allude oscuramente a una tortura, ovvero sempre che qualcuno ci stia ancora seguendo ad un innaturale risalire lungo la corrente del tempo e della Creazione che non può non avere come prezzo da pagare una irreparabile deformità;…
***
Pensavo che dopo quella scena se ne sarebbe andato via, e quando le lacrime finirono di uscire tornai al bancone per vedere se aveva lasciato i soldi per il caffè ma lui era ancora lì, e iniziò subito a comportarsi come in un telefilm e disse che gli dispiaceva e che aveva paura di avermi deluso e che non voleva essere villano, e provava a scusarsi in mille modi, e aveva una faccia così stupida e diceva delle cose così strane che alla fine lo perdonai e finii di asciugarmi le lacrime, e gli raccontai di quell’altro che era passato prima e gli dissi che anche lui mi aveva chiesto a che ora smettevo di lavorare, ma che era stato molto maleducato, e per quello prima mi ero messa a piangere. Ma con l’altro ragazzo, quello che era stato maleducato, non avevo versato una lacrima, dissi.
***
Il direttore sostiene che l’ultima parte, quella della cacca, sia l’inizio di un altro rapporto, purtroppo perduto.
Bene. Questo è quello che si è salvato dei rapporti di Gianni Sherwood di prima del cambio di dirigenza. Il resto è stato tutto distrutto dal vecchio direttore. Da quando ho iniziato a scrivere io i miei rapporti, invece, le storie sono principalmente due, e Gianni Sherwood le racconta a voce. Le racconta a me e io prendo appunti.
In tutte e due le storie, lui è come soggiogato da qualcuno o da qualcosa.
***
Chiudendo gli occhi, non riusciva a immaginare il volto di S––––s, e continuava ad interrogarsi sull’aspetto dell’amata, ma, per il fatto che la ragazza aveva una voce così bella, impreziosita dagli insegnamenti degli zingari, tra le altre immagini che si stavano disegnando nella mente di Hanso più forza di tutte prendeva quella che mostrava il volto di S––––s come quello di una cantante lirica che aveva veduto da piccolo, in fotografia: un viso bianco e delicato, con dei ricci che contornavano la fronte piana, e con degli occhi talmente trasparenti da avere lo stesso colore, pallido e privo di ombre, del cielo prima dell’alba. Era quello il colore che i due amici non avevano saputo descrivere, e che Hanso era certo di riuscire a comprendere? La fotografia era in bianco e nero. Con una mano dietro la testa, come se i morti e i ricordi lo stessero acchiappando per i capelli, Hanso dimenticò l’amata e si mise a pensare alla storia di quella foto. Avrebbe compreso il colore degli occhi di S––––s perché nemmeno sotto minaccia di morte avrebbe osato decifrarlo.
***
Questo sconosciuto aveva un aspetto tanto insolita da meritare una descrizione alla maniera tradizionale, la maniera cioè di quegli scrittori di cento o più anni fa, che amavano rivolgersi cordialmente al lettore, dicendo più o meno, “e qui i nostri undici lettori non ce ne vorranno, se ci soffermiamo a descrivere un poco questo nuovo personaggio, il cui aspetto era davvero singolare”.
Per la verità, forse l’uomo non sarebbe parso molto strano a quegli scrittori, ma questo solo perché pareva uscito proprio dalla loro epoca, tanto che per tutto il tempo che ne considerò il riflesso nel finestrino, forse anche a causa della luce fioca o anche per la trasparenza dell’immagine dell’uomo, dietro cui il paesaggio continuava a sfrecciare, il giovane ebbe costante il dubbio di essere ancora addormentato, e che ad un certo punto il riflesso del suo compagno di viaggio si sarebbe fatto sempre più indistinto, lui si sarebbe risvegliato, e voltandosi avrebbe rivisto davanti a sé i viaggiatori scomparsi.
Fuori dal treno infine era scesa la sera, e nel vagone si accese la luce elettrica, il che, come a far ricredere il ragazzo, rese il riflesso dello sconosciuto più vivido, e diremo incontrovertibile.
***
Nel vagone del treno, M–––s espose per intero la burla che aveva ideato per il suo amico Marjo: molto semplicemente, Luijgi avrebbe dovuto presentarsi a casa di Marjo, e pararglisi di fronte senza proferire parola, continuando a fissarlo con l’espressione più severa e terribile che gli riuscisse. Poi, si sarebbero divertiti a vedere lo spavento di Marjo, e infine si sarebbe festeggiato insieme quell’incontro.
***
– Perché, maleducato? – disse.
– Mi ha detto delle cose – dissi.
– Quali cose?
– Antipatiche.
– Come, antipatiche?
– Brutte. Voleva che gli offrissi qualcosa da bere, perché tanto il proprietario non c’è. Voleva roba da bere. Grappa. Voleva sapere quando finisco di lavorare. Come te.
– Ma io non ti ho chiesto di offrirmi da bere.
– No.
– Dov’è il proprietario?
– Non lo so, però ha telefonato prima per dire che oggi non viene. È mio fratello.
– Non viene nemmeno per chiudere il bar?
– No, lo chiudo io, mi ha lasciato le chiavi. L’altro ragazzo voleva della grappa. Non staccava le mani dal bancone.
– Quante chiavi sono?
– Due chiavi, una per la porta davanti e una per la porta di dietro.
– E dov’è la porta di dietro?
– Là dietro.
***
Ma veniamo finalmente, proprio come vuole la vecchia maniera, alla descrizione del personaggio, che ormai il nostro lettore attende da troppo tempo. L’uomo dava l’impressione di portare più anni di quelli che gli si sarebbero dati, aveva cioè l’aspetto di un cinquantenne, ma da un suo certo modo di rimanere seduto, e di muovere le ginocchia, gli si potevano dare anche sessant’anni. Era abbastanza alto, di corporatura piuttosto pingue. Aveva una faccia rotonda ed educata e occhi molto acuti, di un’indefinibile tonalità di grigio, sormontati da folte sopracciglia. Un paio di favoriti grigi si congiungeva in una corta barbetta color cenere, e la sua testa era coronata da pochi capelli ricci. Ma forse era l’abbigliamento la cosa più notevole nell’aspetto di quell’uomo: accanto a sé aveva posato una bombetta e un bastone da passeggio il cui manico argentato aveva la forma di una trota guizzante. Portava un vestito che il giovane giudicò di tipo decisamente antiquato, di un tessuto molto scuro, tra il blu e il viola, e un’ampia cravattina a farfalla il cui rosso scuro aveva l’intensita del pigmento di un essere vivente; di traverso il panciotto il giovane vide luccicare la catenella d’argento di un orologio da tasca. L’estraneo teneva poggiati sui ginocchi dei vecchi volumi marroni, e con la mano destra, al cui mignolo faceva mostra di sé un grosso anello con una pietra verde, giochettava con un paio di occhialetti pince-nez. Teneva gli occhi quasi innaturalmente spalancati, e per di più ad ogni scossone del treno sembravano traballare come se fossero morti o troppo piccoli per le orbite in cui erano rotolati, come le teste di certi pupazzi messicani. Due stivaletti di pelle nera, alti fin quasi sopra la caviglia e allacciati da una fibbia di ferro, stringevano i piccoli piedi dello sconosciuto.
***
Nella prima storia, Gianni Sherwood è il mozzo di una nave arenata in una secca. La nave è ferma da più di un anno e il capitano, ormai impazzito, non vuole a nessun costo abbandonarla. Già più volte, in preda al delirio, ha cercato di ammazzare Gianni Sherwood. La sera, per calmarlo, Gianni Sherwood gli canta la ninnananna dell’appeso, così la chiama lui:
***
– E il mio… e il ragazzo maleducato adesso dov’è andato?
– Mi sono messa a strillare…
– Non piangere. Stai tranquilla. Versati un bicchiere d’acqua, così ti calmi. Ti sei spaventata?
– No, ma lui era arrabbiato e voleva andare via, e allora mi sono messa a strillare, e lui si è messo a strillare. Ho preso uno spavento.
– Così. Ti sei spaventata.
– No. Sì. Quando strillavo no.
– E adesso, sei spaventata?
– Sì. No.
– Non preoccuparti. Io non ti faccio paura, vero? Io non voglio che mi offri la grappa, e io non griderò.
– No.
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Quanti di questi pronostici hanno funzionato? Cosa vuole dire che un pronostico funziona? Semplice: funziona quando pietrifica, quando si fa carne. Non sono forse sposato? Non sono forse l’amante di S.? Non sono un artista destinato all’immortalità? Non sono forse morto? È davvero così semplice la meccanica del futuro?
***
Il nonno di Hanso, che proprio come il nipote si chiamava Hanso, era stato contrabbassista in un’orchestra di Schwarzschwarz, e un giorno aveva suonato con tutto il resto dell’orchestra per la cantante della fotografia, ed era rimasto talmente estasiato dalla sua maestria, che ne teneva sempre quella foto nel portafoglio come un caro ricordo. Era stato il nonno a mostrare il volto della cantante a Hanso.
***
Con il suo aspetto eccentrico lo sconosciuto fece ricordare al giovane, non abbiamo tempo né voglia di spiegare perché, i grossi pupazzi di cartapesta di un luna park che arrivava nel paese in cui viveva da bambino e quasi riimpiastrandosi ancora dello zucchero filato delle giostre, il giovane pensò che lo sconosciuto a dispetto della sua natura quasi diafana e allucinatoria dovesse anche essere una persona vorace.
Vedendo la catenina dell’orologio il giovane avrebbe voluto chiedere l’ora al signore, anche solo per il desiderio infantile di ammirarlo mentre tira fuori lo strano meccanismo, ma era ancora intorpidito dal sonno, e reso poco espansivo dallo stupore e da una sua per ora privata malinconia, per cui piegò la testa, fingendo di voler tornare a dormire.
***
“Ninnananna dell’appeso
la palma sottile
nel ventre luminoso della balena
nel ventre del mostro
si stiracchia
la ragazza si tuffa in mare.
Chiudi gli occhi.”
***
“Hanso”, gli diceva, quando d’inverno faceva così freddo da non poter nemmeno mettere il naso fuori dalla finestra, e si passavano le ore in casa a parlare e a bere tè o caffè, “Hanso, che voce che aveva! Come la Callas!… No! Meglio della Callas!… Io dico che era persino meglio della Callas!…” Gli occhi del nonno si illuminavano come quando beveva, tanto che lì seduto al tavolo pareva un marinaio che dopo lunghi mesi in mare vede finalmente, in fondo alla striscia ininterrotta dell’acqua, la terra. “La Traviata!”, il nonno, perdutamente commosso, si metteva a cantare: “A quell’amor ch’è palpito!… te lo dico io, Hanso!…” ma a dispetto della sua ammirazione il vecchio Hanso non riusciva a ricordare il nome della cantante, e forse proprio perché oramai non rimanevano di lei più che le parole del nonno e quella fotografia, anche Hanso si era infine convinto che quella foto fosse l’immagine di una dea o di uno spettro sceso in terra a cantare per il rapimento degli uomini, e per cercare di capire quale fosse il segreto di quella voce passava le ore scrutando la foto in bianco e nero, smarrendosi in ogni dettaglio di quell’immagine, la direzione dello sguardo, la forma dell’acconciatura, l’espressione delle labbra sottili, come davanti a un’immaginetta sacra.
A volte la notte, sognando, Hanso credeva quasi di aver sentito la voce della cantante senza nome.
***
“C’è una spiaggia di sassi
giocherello con una corda
una ruota di creature
una ruota di diavoli sopra il falò.
Chiudi gli occhi.”
***
Sebbene trovasse quello scherzo niente affatto divertente, notando l’agitazione di M–––s (il quale non faceva che ripetergli che Marjo amava moltissimo queste burle un po’ terrificanti) e non volendo contrariarlo, Luijgi si disse d’accordo con lui, ma in segreto si ripromise di interrompere subito la burla, nel momento in cui vedesse che la vittima ne sarebbe troppo atterrita. Si accordarono così: l’indomani, che era un giovedì, M–––s, allo scopo di rendere assolutamente perfetto lo scherzo, avrebbe fatto in modo di trovare un abito che fosse il più possibile identico a quelli che Marjo portava abitualmente, mentre Luijgi si sarebbe occupato del suo concerto; poi, la mattina del venerdì, si sarebbero incontrati nell’albergo dove alloggiava Luijgi e sarebbero andati insieme a casa di Marjo.
***
Continuava a scattare. Se riesco a catturare un fulmine allora vuol dire che non tutto è perduto.
***
– Però non ho capito, non volevi che lui se ne andasse?
– No.
– Ma perché? Hai detto che era antipatico.
– Non lo so.
– Vuoi che io me ne vada?
– Non lo so. Sì. No.
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…e chissà (ogni critico purosangue deve del resto prima o poi incorrere nell’allucinazione: deve conoscere l’arte di deporre o meglio ancora farsi buffamente cadere dal capo la corona nel mezzo di un inchino, e far poi sghignazzare la corte atterrita (la risata più stupenda e irrefrenabile è quella che può condannarti alla decapitazione; l’inferno è un cortigiano che ride del re): rincorrendola, la corona, come un clown il proprio cappello, che poco prima di agguantarlo lo ricalcia via col piede: anzi no, non come un buffone, questa la difficoltà dell’arte di un re: non come un buffone, ma come un giullare; additando per tornare a noi con mossa semiubriaca la direzione in cui la critica del futuro, più – o meno – muscolarmente attrezzata, saprà andare, lasciando a consumarsi nella polvere e nel vaneggiamento solitario il primo mobile di quella direzione) chissà che le macchine di Leonardo non fossero, magari anche solo nell’amazzonico inconscio del Sommo, nell’aggrovigliato nodo dell’inconscio di Leonardo, congegni erotici per concedere all’uomo un coito aereo, una caduta sufficientemente rallentata per raggiungere l’orgasmo: dell’uomo, se non della donna – stiamo pur sempre parlando di Leonardo. Chissà che il loro cattivo funzionamento non fosse un’esca perché finalmente si rivelasse un Dio qualunque, foss’anche un dio «giovanetto» nonché nipote di una non si sa quanto immaginaria ma comunque ammuffitissima dio-nonna scatarrosa e demente, fanciullo divino che spiaccicando gli amanti alati lasciasse una buona volta una prova, ancorché raccapricciante o quantomeno appiccicaticcia, della sua esistenza. Ma qui l’assunto storico del piriteo elzeviro, un po’ come la mente di nonna Sommariva, evapora…»
(Da G. Zanna, Opera e anti-opera in Giorgio Sommariva, Newton 19**)
***
Però lo sconosciuto lo aveva incuriosito, e così dopo un po’ tornò a guardarlo, voltandosi come per caso, fingendo un breve risveglio. L’uomo apparentemente non aveva mai staccato gli occhi da lui, e non appena incrociò lo sguardo del giovane gli si rivolse dicendo, con voce estremamente pacata, “Dove è diretto?”.
Per la verità, voltandosi il giovane non aveva avuto precisamente la sensazione che l’uomo avesse continuato a fissarlo mentre lui era girato verso il finestrino; aveva avuto un’altra sensazione, più sgradevole se si vuole: gli pareva che il signore avesse alzato verso di lui quei suoi occhi finti nell’esatto momento in cui lui si era voltato dal finestrino, un po’ come la nostra immagine riflessa in uno specchio ci restituisce lo sguardo solo quando noi glielo rivolgiamo. O forse anche gli era parso che il signore fosse sparito per tutto il tempo che lui era stato voltato fingendo di dormire, e che fosse riapparso solo quando lui era tornato a volgersi. Il signore aveva parlato con un tono di voce tanto basso che il giovane fece fatica a distinguerlo dallo sferragliare del vagone; ma, avendo sentito la parola, “dove”, e intuendo alla grossa il resto della domanda, rispose, “A Venezia”.
“Ah, in fondo!”, rispose l’uomo, e, divertito da quella freddura incomprensibile, sbottò in una risata improvvisa, acutissima, quale ci si sarebbe aspettata da una nervosa donnina giapponese, piuttosto che da un uomo di quell’aspetto.
“Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”
Il giovane era ancora un po’ stordito dall’apparizione dell’uomo, cui quella bombetta e quegli occhi traballanti e ora quella risata meccanica davano una qualità pacchianamente soprannaturale, e ci mise un po’ di tempo, durante il quale sorrise tra sé e sé, divertito e disorientato, a rivolgersi a sua volta al signore per chiedere, “E lei dove va?”, venendo così a sapere che l’uomo sarebbe sceso a Jakarta.
Con questo la conversazione parve morire, e per un po’ di tempo, durante il quale il giovane venne notando sempre nuovi particolari nell’aspetto del suo compagno di viaggio, i due non si scambiarono una parola; ma poi fu di nuovo il signore a domandare, sempre con quel tono bassissimo, come se stessero parlando in una chiesa, “Di cosa si occupa lei a Venezia?”.
Il signore aveva assunto un atteggiamento interessato e insieme imbarazzato, come qualcuno che si trova davanti ad una persona famosa e importante ed è felice di rivolgergli la parola, ma teme di importunarlo con la propria banalità. Eppure nello stesso tempo era anche chiaro che tutto questo deferente imbarazzo non era che una specie di mascherata con cui passare il tempo in treno: o meglio, più spiacevolmente, ogni modo di muoversi, di parlare, di guardare di quello sconosciuto sembrava, piuttosto che un gesto qualunque, la replica di quel tale gesto, di quella tale parola, di quel tale sguardo. Persino quell’incontro fortuito in treno sembrava più l’inizio di un racconto, che non un incontro vero e proprio.
***
“C’è un appeso per la testa
appeso con una corda
la pietra è sott’acqua
l’appeso è sott’acqua
sott’acqua
sott’acqua
sott’acqua
sott’acqua
gettate quest’uomo rosa fuori della coperta.
Chiudi gli occhi.”
***
Ma un giorno Hanso, quando aveva nove anni, aveva trovato il portafoglio del nonno e, di nascosto, se lo era portato in camera e lo aveva aperto cercando la foto della cantante per guardarla un’altra volta, ma nel portafoglio aveva trovato anche altre foto, in cui altre donne, completamente nude, si mettevano in pose che lui non aveva visto mai.
***
Tutto andò come doveva andare.
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“C’è una spiaggia di sassi
giocherello con una ruota di diavoli
vuole quest’uomo rosa vuole, non vuole rimanere sotto la coperta?”
***
Le nuvole annerivano, soffocando la città.
***
Il giovane si sentiva a disagio come chi prova per la prima volta a recitare.
***
“Chiudi gli occhi, e se verrà il lupo, lo ammazzeremo.”
(continua il 22 settembre)
[Alcune sezioni di questa puntata di Presiden arsitek sono a suo tempo comparse, sotto altro nome e altra forma, presso la rivista «Nuova Prosa» diretta da Luigi Grazioli]