Inaugurata da poco, la sede della Biblioteca comunale godeva di una delle novità più ricercate dell’epoca: un pavimento rosso che dava l’impressione di essere in cotto fiorentino, materiale per cui la moda – nonostante le difficoltà di manutenzione – aveva suscitato un’ardente e irragionevole passione collettiva. Così si era diffuso nelle valli trentine in aperta ostilità alla tradizione, raggiungendo a volte le residenze più sperdute al fine di affrancare i proprietari dalla povertà sperimentata nella loro infanzia. Ma lo splendore ingannava, il pavimento della biblioteca non era in cotto; più saggiamente, visto che si trattava di un edificio pubblico, dopo un consulto con gli artigiani l’architetto aveva impiegato un materiale molto più resistente e tale però da illudere un occhio sensibile alle tendenze generali, ma poco esperto nei dettagli. Ignorandolo del tutto, parecchi concittadini venivano in pellegrinaggio ad ammirarlo quasi dovessero prenderlo a modello (qualcuno in effetti cercava di riprodurlo a casa sua); poi uscivano in fretta, senza perdere tempo con i libri: il pavimento era in clinker, me lo trovavo davanti ogni giorno aprendo la porta della sala di lettura.
Due mesi prima era stato pubblicato un bando per una supplenza (il bibliotecario si sarebbe dovuto assentare per ragioni personali circa un mese e mezzo); mi ero candidato e, a sorpresa, mi avevano assunto. A dire il vero un ragioniere mi aveva confidato che l’avevo spuntata all’ultimo su uno che non aveva le mie qualifiche e che si era poi ritirato, ma questo non mi aveva stupito. Il posto era decisamente meglio degli altri lavori precari in cui mi ero impegnato in quella stagione. Non si trattava solo di seguire il prestito dei libri, la biblioteca fungeva anche da centro culturale a cui le associazioni si appoggiavano per organizzare le loro attività, sia prenotando la sala riunioni per gli incontri serali, sia affidando alla disponibilità del bibliotecario le pratiche di segreteria relative all’iscrizione a un corso di ginnastica presciistica, o a uno dedicato ai primi rudimenti di astronomia. Inquadrato nei ranghi del Comune come dipendente, in generale mi trovavo bene, più o meno come avevo potuto supporre dalle mie frequentazioni di lettore.
Wilma, la moglie di Carlo, veniva di rado in biblioteca, ma in quei giorni mostrava una sollecitudine perfino affettuosa. L’associazione Rachele, di cui era presidente, stava cercando di promuovere un corso di avvicinamento al vino, o per meglio dire un corso di degustazione di formaggi tipici nell’ambito del quale in tre incontri sarebbe intervenuto un sommelier professionista per illustrare i primi elementi della degustazione. Queste iniziative allora erano quasi inedite: ignoravo del tutto la fortuna che avrebbero incontrato.
«Scusa, a quanto stiamo?» mi chiese, tenendo in braccio il batuffolo di pelo a cui si riduceva il maltese di sua sorella, un cane tanto timido da insinuare il dubbio che fosse mosso a comando da un dispositivo meccanico (secondo lei era un cane contemplativo).
«Dodici, più o meno come ieri. Solo una persona in più».
«Questo è un problema, perché ne avevamo garantiti quindici. Non vorrei che ora gli esperti si tirassero indietro. Capirai, l’ente potrebbe anche non realizzare il corso. Non è che conosci qualcuno che potrebbe essere interessato?»
«Non saprei. Al limite potrei invitare qualche lettore a considerare la proposta».
«Sì, beh, ti ringrazio. Ma ormai è tardi. Chiamerò qualche parente, a costo di pagargli la quota».
Non era granché interessata all’oggetto del corso – che anzi, con la sua indole pratica doveva sembrargli poco utile – ma le dispiaceva che una novità proposta dalla sua associazione non potesse realizzarsi. E forse, anche se non ne parlava mai al punto che chi non la conosceva non avrebbe detto che fosse sposata con Carlo, temeva anche qualche ripercussione sul consenso politico del marito.
«Senti, le iscrizioni sono aperte ancora tre giorni. Nel caso domani non si presenti nessuno, telefonami. Ma non chiamarmi a casa, ti lascio il numero di mia suocera. La malattia è peggiorata e devo assisterla. Sono quasi sempre lì».
Lo appuntai sull’agenda. Mi ringraziò. La malattia della suocera aveva prodotto in lei un cambiamento forse perfino più radicale di quello che era intervenuto dopo la morte improvvisa di sua madre; ora nelle giornate in cui non restava al capezzale della suocera considerava gli impegni sociali come un dovere a cui non poteva sottrarsi, senza però riporvi la speranza di affermazione che vi cercava prima. La prossimità della sofferenza aveva mutato lievemente il colore delle sue ambizioni: si impegnava per spirito di servizio, lo stesso che l’aveva portata a prendersi cura di Leo, il maltese della sorella, che si trovava da due settimane in una stazione termale alle prese con problemi muscolo-scheletrici.
D’un tratto, dalla porta entrarono di corsa Martino e Roberto, due ragazzi delle medie che giravano in bici tutto il pomeriggio, senza controllo delle famiglie. Venivano spesso, anche se restavano poco tempo. Non sapendo dove andare, prendevano la biblioteca come una delle tappe del loro vagabondaggio. Wilma ebbe per loro un’espressione di fastidio.
«Siamo contenti, no?», fece Martino a voce alta, appoggiando lo zaino a terra per andare verso lo scaffale delle riviste. Era un refrain che aveva cominciato a usare negli ultimi tempi. Se non gli si rispondeva, lo replicava a un volume più forte. Roberto era più calmo del suo amico, credo che girasse con lui più che altro per capire fin dove si sarebbe spinto: «Siamo contenti, no?».
«Beh, più o meno», risposi.
Martino prese gli ultimi numeri di quattro riviste illustrate e li gettò sul tavolo accanto, sedendosi poi a sfogliarle nervosamente. Il suo socio gli si sedette di fronte. In quel momento erano presenti due pensionati, frequentatori storici della sala (Francesco Bruni e Cesare) e tre studenti, perciò temevo che il chiasso dei ragazzi avrebbe suscitato qualche cenno d’insofferenza. Wilma rimise in borsa il maltese, mi salutò e uscì dalla sala. Bianca aveva promesso di passare a trovarmi: speravo arrivasse presto.
Presi un pacco di libri per risistemarli sugli scaffali ma fatti due passi verso la sala dedicata ai libri per l’infanzia, l’esultanza di Martino mi costrinse a fermarmi. Dallo zaino aveva liberato un coniglio nano, bianco e nero, uno di quelli che si tengono in casa. Ignoravo come avesse fatto a tenerlo nello zaino tutto quel tempo. Pur essendo animali piuttosto calmi rispetto ai loro corrispettivi comuni, non è che siano privi di vitalità.
«Dai, forza! Che cazzo fai, sei deficiente?»
Martino aveva ambizioni circensi, ma il coniglio non sembrava assecondarlo.
Dovetti intervenire:
«Senti, non fartelo dire due volte. Prendi quel coniglio e portalo fuori di qui».
Il piccolo Bobby, spaventato dalla lunga reclusione, aveva preso a muoversi circospetto lungo il perimetro della sala, sotto lo sguardo dei due pensionati.
Roberto rideva.
«Ma dimmi tu se non è un coglione!» Martino raggiunse il povero coniglio e lo centrò con un calcio mandandolo a sbattere contro il battiscopa della parete di fronte, cinque metri più avanti.
Riavutosi dal colpo, il coniglio restò immobile, terrorizzato.
«Ti ho detto di prendere il coniglio e di andartene, prima che chiami qualcuno».
I grandi occhi di Bobby guardavano il padrone con un’allocuzione muta al malandato tribunale della sua coscienza. Uscito da dietro il bancone, stavo per intervenire non solo a parole, quando Martino prese lo slancio per dare un altro calcio all’animale: nella rincorsa, però, dovendo passare a fianco al tavolo dei due pensionati, incontrò del tutto inattesa – ma impegnata in una tensione non casuale – la gamba di Francesco Bruni, che si mosse tagliandogli la strada e mandandolo a stendere sul meraviglioso pavimento di clinker.
La vergogna lo fece rialzare in un istante: «Sei fuori di testa? Potevo ammazzarmi, vecchio del cazzo!». Visto che il pensionato continuava a leggere in silenzio, Martino gli si fece sotto.
«Dico a te, sei rincoglionito?»
Arrivato a portata di tiro, Francesco Bruni si alzò di scatto e con uno schiaffo in pieno viso fece barcollare Martino, che alla fine rimase in piedi. Poi parlò con la stessa misurata esperienza che lo aveva mosso:
«Adesso prendi il tuo coniglio senza fargli del male e te ne vai fuori dei coglioni. Poi, naturalmente, ti prego di dire a tuo padre che devo parlargli».
Cesare, l’altro pensionato, alzò appena la testa dal foglio sorridendo, senza commentare.
Roberto prese in mano Bobby e lo portò al suo socio.
Rimasero un istante in silenzio.
«Cerca di non fare troppo casino, quando vieni da queste parti», gli dissi.
Uscendo, Martino gettò ancora uno sguardo verso Francesco:
«La pagherai cara».
2.
Sul volto di Bruni resisteva un’espressione contratta, come se, per così dire, la tutela della decenza avesse comportato in lui un eccesso di cui ora non poteva né pentirsi, né sentirsi orgoglioso. Allargai le braccia con aria interrogativa. Cesare restava a guardare. Bruni mi rispose con un gesto, ruotando lentamente una mano in aria come se per ripercorrere ciò che era successo fosse necessario un ragionamento troppo lungo, che avrebbe comportato il ricorso a massime di comportamento da accogliere senza esitare che ora, evidentemente, avevano perso di considerazione. In effetti – e in modo comprensibile – l’attenzione del pubblico si era rivolta alla sorte del piccolo Bobby, più che a ciò che il nostro Martino avrebbe dovuto capire al volo, ossia che qualcuno, là dentro, avrebbe forse avuto il diritto di studiare Seneca in santa pace, come faceva una studentessa liceale che non era neanche uscita dall’altra sala a vedere cosa stesse succedendo.
«Lo so, lo so», mi disse Bruni, alludendo al fatto che l’episodio avrebbe meritato un chiarimento. «Non preoccuparti. Ci parlo io».
Anche il suo intervento rientrava nell’ambito di ciò che allora si riteneva tollerabile, ero stato attraversato dalla preoccupazione che potesse essere ricondotto alla mia responsabilità visto che ero, a tutti gli effetti, il responsabile di quel servizio; ma ritenevo che potesse essere colto per ciò che era, ossia un episodio isolato, come tale non in grado di contare per l’intero, in un’estensione indebita che invece anni più tardi sarebbe diventata quasi la norma. In altre parole, conoscevo il rischio che comportava non intervenire ulteriormente, ma ritenevo che la conservazione del clima di serenità necessaria al servizio non passasse per il ricorso alle sanzioni immediate. Presi nota di ciò che era accaduto perché lo avrei menzionato nel mio rapporto in Comune. Martino era già stato segnalato ai Servizi sociali, il che purtroppo per lui avrebbe semplificato la questione; ma questa, lo sapevo, non era una risposta.
3.
Quando un’ora dopo arrivò Bianca, ci spostammo nella sala dedicata ai libri trentini, quasi sempre vuota. Le riferii la faccenda: conosceva la famiglia di Martino. Bruni se n’era andato, ma Cesare stava ancora leggendo una rivista. Bianca era rimasta in piedi, appoggiata a uno dei grandi tavoli.
«Beh, intanto tu lo hai ripreso due volte, gli hai detto di portar fuori il coniglio. Lo hanno visto tutti. Direi che sei a posto».
«Sì, ma non è questo il punto».
«E allora qual è? Vuoi denunciare Bruni?»
«No. Tanto più che nessuno si è fatto niente e che lui se la sbrigherà col padre di Martino. A me basterà solo fare una segnalazione».
«E quindi?»
«Beh, il problema resta».
«Resta cosa, scusa?»
«Il fatto di intervenire. Intendo, questo è un servizio pubblico. Bruni si è incazzato davanti a qualcuno che se ne fregava degli altri, non delle regole, ma proprio degli altri, perché ha chiaro in mente che le regole servono appunto a tutelare tutti».
«Sì, ma adesso i pensionati devono mettersi a fare gli sceriffi?».
«No, certo. Ma la domanda è questa: in uno spazio pubblico è lecito intervenire o dobbiamo sempre aspettare il responsabile di turno, che in questo caso sarei io?»
«Beh, un conto è dirgli qualcosa, come tu peraltro avevi già fatto, un altro mandarlo a stendere».
«Va bene. Diciamo che Bruni ha accettato il rischio di uno sgambetto e di uno schiaffo (raramente mortali, anche se non si può mai sapere). Ma se la metti così direi che c’è anche un altro aspetto da chiarire: se Martino avesse dato un altro calcio al coniglio è difficile supporre cosa ne sarebbe stato del povero Bobby, perciò potremmo dire che Bruni fosse mosso da due diverse ragioni».
«Quindi per te alla fine ha fatto bene».
«Beh, tenuto conto di tutto, tu che diresti?»
«Che di Bobby ne parliamo in un altro momento. Con lo schiaffo poteva andarci più leggero, ma tanto ormai Martino ne ha combinate troppe perché qualcuno abbia ancora voglia di difenderlo. So che volevano toglierlo alla famiglia».
«Sì, ho sentito. Non è una soluzione peggiore di quella di lasciarlo lì dov’è. Non saprei dire».
«Io proverei a lasciarlo stare».
Bianca mi stupiva per il connubio fra un’intraprendenza che nelle ore libere dallo studio la portava a correre da una parte all’altra della cittadina, e un equilibrio nei giudizi che non era mai turbato da questi impegni. Rimasi un po’ in silenzio:
«Ma sì, fare magari un nuovo tentativo».
Ero in ripresa. Dopo l’esame avevo continuato a studiare. Visto che l’orario di apertura della biblioteca andava dalle quattordici alle diciannove e trenta, stavo cercando di mettere a frutto le mattinate in cui restavo a casa.
«Non lo so,» fece Bianca, «credi che in un altro ambiente potrebbe fare molto più di quello che fa? E in quel caso non avrebbe neppure i suoi affetti, perché al di là di tutto è chiaro che vuol bene a suo padre. Con sua madre dopo la separazione la faccenda si è complicata».
«Potrebbero stare a vedere come va a finire l’anno».
Ritornammo verso il bancone. Cesare se n’era andato. Era rimasto un solo studente. In certi momenti arrivavo a considerare quell’incarico come l’espressione realizzata di un privilegio, fino a pensare che per alcuni fortunati il lavoro non costituiva il peso che rappresentava invece per la maggior parte degli altri. Ogni tanto aprivo un libro, non per indugiare nel piacere che arriva a esaurire il senso dell’esperienza nella sola rappresentazione mentale della vicenda narrata, ma al contrario, per cogliere qualche spunto d’incoraggiamento alle riflessioni e alle fantasie che sviluppavo per conto mio. Sì, il lavoro non era male, ma c’era poco da illudersi: prima del pensionamento del titolare ci sarebbero quasi trent’anni e in giro, in altre biblioteche, le cose andavano diversamente. Dovevo prendere l’incarico giorno per giorno: il fatto che Bianca potesse venirmi a trovare in orario di lavoro era un privilegio supplementare, anche se cercava di restare poco per non alimentare indiscrezioni.
Ammiravo soprattutto il fatto che uscisse poco la sera, come se il bisogno di stare in mezzo agli altri fosse in buona parte colmato da una famiglia come la sua, per tanti versi apprezzabile: io invece dovevo cercare di andarmene di casa non appena potevo, tentando di giustificare l’uscita con una motivazione ragionevole, mentre sarebbe bastato più semplicemente riconoscere che non potevo restarci. Tuttavia, se è vero che Bianca usciva poco, lo è altrettanto che, quando lo faceva, portava con sé la serietà che dedicava allo studio (e che io invece spesso avevo cercato altrove); perciò usciva con ragioni concrete, come quella di partecipare a un incontro in cui si riteneva impegnata direttamente. In effetti, più tardi mi invitò – più che per cortesia, proprio perché sperava di condividere con me un suo impegno – a una serata che alla sua famiglia sarebbe parsa normale e alla quale invece solo poco tempo prima pensavo che non mi sarei mai neanche avvicinato: un incontro di esegesi biblica.
«Ad ogni modo,» Bianca tornò sulla questione, «credo che le cose con Martino non si metteranno meglio finché non gli avranno trovato qualcuno che lo segua sempre».
«Sì. Potrebbe essere una soluzione: non tanto per la scuola, ma per il resto».
Mentre scaricavo al computer alcuni romanzi che erano stati riconsegnati, entrarono due che conoscevo, Claudio e Silvano – detto “Ramirez” – con i volantini di un concerto rock per la pace nei Balcani. Stavano facendo il giro per la promozione. Bianca doveva andare a prendere la corriera e dovetti lasciarla.
4.
L’indomani, qualche minuto dopo l’apertura, il padre di Martino si presentò al bancone. Magro, alto, lo sguardo di chi, al di là delle parole, è sul punto di strappare una supplica. I suoi gesti esprimevano una dignità diminuita e soprattutto la temporanea impotenza a portare a compimento qualsiasi compito. Insomma, aveva l’aria di chi combatte ogni istante per tenersi in piedi. Si scusò per il comportamento del figlio. Sapeva. E sapeva anche altro. Non so se fosse una mossa per spostare leggermente l’argomento della conversazione, ma mi ringraziò perché era a conoscenza del fatto che il figlio veniva spesso a rifugiarsi da quelle parti, ossia in un luogo sicuro. Voleva lodare la mia ospitalità e quella dell’amministrazione comunale. Cercava di recuperare una cortesia incerta che parlava decisamente più della buona educazione. Ciò che nei suoi sforzi di condurre in porto il discorso trovavo più difficile da fronteggiare era la voce, grossa e fragile, in cui le parole sembravano quasi sfarinarsi:
«Grazie per la comprensione che ha per Martino. La stima molto».
Il suo tono mi spingeva oltre ciò che avrei detto solo il giorno prima.
«Non si preoccupi. Mi fa piacere».
Se già anni prima il suo stare al mondo aveva incontrato una serie di ostacoli, dopo il divorzio le cose si erano decisamente complicate. Probabilmente Bianca aveva ragione, Martino non si aggiungeva affatto alla catena delle cause che stringevano il padre in quella condizione, al contrario, era invece un motivo di orgoglio (me lo disse, infatti, che lo trovava molto sveglio; e in effetti lo era).
Gli ribadii che per me non era successo niente, e che raccomandasse solo a Martino di mettersi un po’ in riga. Con Bruni non c’erano problemi. Mi salutò riconoscente, con le mani gonfie. E così, mentre mi ero esposto nel dubitare dell’opportunità che il figlio vivesse con lui, in quel momento, non tanto per ciò che mi aveva detto, ma per l’affetto evidente che gli portava, ero pronto a smentire le mie convinzioni sostenendo la necessità di non separarli. Ci pensai a lungo, perché quel pomeriggio non veniva nessuno: perfino Cesare aveva completato la liturgia della «Gazzetta» in tempi molto più rapidi del solito. I rapporti familiari sarebbero uno strazio, se non sapessimo che la loro assenza apre il varco a uno strazio più grande.
Per una coincidenza che un po’ mi sorprese, verso l’ora di chiusura mi trovai ad accogliere un lettore imprevisto, Francesco Crisarte, professore ordinario di Economia politica e consulente della Banca Baldacci. Veniva raramente, ma lo conoscevo di vista, avendo sentito il suo intervento impeccabile nella serata di illustrazione del piano giovani di valle. Basso, robusto, con una folta chioma di capelli grigi, avrà avuto sessant’anni. Trascinava vistosamente la gamba sinistra. Per costume accademico, nelle discussioni più accese aveva l’abitudine di tenersi in disparte, certo che la sua competenza sarebbe poi servita a chiunque avesse la meglio: anzi, sapeva motivare questa condotta con sottili argomenti morali che stupivano i presenti (come quando citava La Rochefoucauld) salvo invece – a un’indagine solo un po’ più lucida – rivelarsi apertamente strumentali. Cercava un libro di Bruno Bettelheim sull’importanza delle fiabe nello sviluppo del bambino (sapeva già che era presente). Non pensavo che si interessasse anche di psicologia. Per risparmiargli un po’ di strada, lo consigliai di rimanere al banco mentre io glielo andavo a prendere, ma lui volle seguirmi, col passo affaticato.
Tolto dallo scaffale, glielo porsi. Poiché avevo già spento le luci, non c’era luce sufficiente perciò si volse verso la finestra per controllare una pagina. Visto che esitavo, si sentì di aggiungere un commento, guardandomi, per così dire, di sotto in su:
«Sa, stavo riflettendo su questo: c’è qualcosa di enigmatico, una sorta di determinazione in progress che contrae o dilata il tempo in cui viviamo. Finché non matura in noi una piena convinzione su quello che facciamo, le cose sembrano sempre uguali a se stesse e anche noi ci sembriamo sempre i soliti. Quando poi invece questa convinzione si forma, ci troviamo cambiati, forse perché nel frattempo siamo già cambiati. Ne ho avute tante conferme nel corso degli anni» disse, mentre scorreva l’indice del volume. «Del resto, anch’io mi sono fermato varie volte. Ad esempio, quando ero all’università sono rimasto quasi un anno senza dare esami, continuando a studiare e cercando di capire cosa mi tenesse ancora lontano dalla strada che avevo scelto. Poi credo di averlo capito e ho finito in fretta. In questo campo le cose stanno così, non c’è niente da fare. La linea retta non è mai così redditizia».
Rimasi un momento in silenzio, poi cercai di replicare:
«È una posizione condivisibile».
Mi riconsegnò in il libro perché potessi inserire il prestito a computer. Come tutti coloro la cui esperienza nel discorso pubblico deriva da qualche incarico di responsabilità, parlava con una misura nella quale le valutazioni risaltavano definite, prive dei corollari che eventualmente sarebbero stati aggiunti in un secondo momento. Non potevo certo supporre che mi conoscesse al punto di aver fatto quella considerazione per me: era già tanto se si ricordava di avermi incontrato da qualche parte, ma la cosa mi colpì. Mi accontentai di congedarlo con sobrietà, ma mi sentivo meglio, e nei giorni successivi mi parve di essergli grato, non perché quel che aveva detto fosse venuto a confermare ciò che in quei mesi avevo intuito, ma perché la serenità con cui aveva riassunto quel momento di stallo nella sua vita mi aveva dimostrato che era possibile uscirne. La disinvoltura con cui me ne aveva parlato non aveva niente a che fare con la sprezzatura delle persone che amano vantarsi dei brutti voti conseguiti in gioventù per screditare lo studio, lasciando intendere che il successo è arrivato loro per altre vie (e in questo almeno sono sincere); non c’era traccia di questo tono. In certe circostanze si trattava dunque di aver pazienza.
Come tutti i racconti della rubrica, anche questo è opera di fantasia. Ogni riferimento a persona o cosa è puramente casuale. (wn)