Preparo una valigia minuscola, commisurata alla mia voglia di partire. Come se la stanchezza e l’angoscia si dovessero fare piccole, per entrarci.
“Ti costa tanto, eh?”, osserva mio marito, che resta a presidiare casa e figli. Anche lui cerca di fare piccole le sue ansie e le sue fatiche, e le infila nella valigetta da lavoro. “Non ti stancare troppo,” mi dice con stanchezza, ed esce per andare in ufficio.
Il movimento di chiudere la porta di casa resta impigliato in uno strano giro della testa sul proprio asse. Da qualche giorno, da quando ho deciso di tornare a Firenze, la realtà è diventata fluida. Gli oggetti, la casa, le strade… tutto ondeggia. Con me, naufraga, nel mezzo.
“Probabile labirintite,” ha scritto il medico sul foglio. L’ho appoggiato sul comodino di camera e l’ho guardato a lungo, nella notte, mentre una domanda mi si formava in testa, come spiegazione più probabile al mio stato: “Ma davvero ci devo tornare così presto?”. Per risposta mi sono girata nel letto, smettendo di pensare. Perché ho rinunciato a spiegarmi le cose, negli ultimi mesi, e mi sono rassegnata a fare i percorsi fra le case come un mulo assuefatto, testa bassa e via.
Solo quando il treno si avvicina alla mia vecchia città provo a ritrovare qualcosa che non sia questo fastidio. Sensazioni che mi aiutino a calmare le onde, o almeno a riuscire a solcarle.
Ripenso alle domeniche dell’infanzia, quando mettevo la mia piccola mano in quella forte di mio padre, e insieme passeggiavamo nel centro, alla scoperta degli angoli medievali nascosti, con le strade di pietra che si rivelavano a curve, proteggendoci, e i passi che rimbalzavano nel silenzio di mattine domenicali deserte. Oppure sulle colline nei dintorni, dove le case si erano conquistate strade tortuose e silenziose, con scorci di campi e vigneti, come quadri, dietro ogni curva. Lui fischiettava, o raccontava ricordi, e intanto la città aveva questa bellezza languorosa che si spandeva giù dai palazzi rinascimentali, dalle strade grigie e pulite, dalle colline intorno.
E però, mentre dai finestrini del treno osservo le prime colline verdi, ritrovo già la sensazione di quella bellezza serena, immobile, che negli anni mi si era ristretta intorno alla voglia di emozioni come un golfino lavato male.
Il treno penetra nella città, che si stringe sulle rotaie per la mancanza di spazio. In mezzo ai palazzi curati e un po’ monotoni, che mostrano finestre e balconi troppo vicini, penso che è così, sempre e ovunque: Firenze ti si china addosso, tranquilla e piccina. E ricordo lo stordimento di scoprire una città opposta, nell’età adulta. Lavorando a Roma, in mezzo a spazio, colori e gente dappertutto. Giallo e rosso, sampietrini e epoche sovrapposte, emozioni diverse ad ogni svolta della strada. Esperienze nuove che ti si aprivano intorno, a portata di mano, infinite. La città che non chiedeva niente e niente ti garantiva, ma dove potevi trovare di tutto. E le tue sensazioni, belle o brutte, non erano nuove; erano quelle di tutti, da millenni. Ti si smorzavano nel petto ancora prima di sorgere. Niente era intenso a lungo, a Roma, ma si rinnovava continuamente. Una specie di disincanto dolce che non ti faceva prendere sul serio niente di quello che provavi, ma ti faceva desiderare di provarlo di nuovo, in infinite variazioni.
Roma che poi mi aveva fatto male come lo strappo di un ciuffo di entusiasmo dalla testa, quando l’avevo dovuta lasciare per partire all’estero. Come una mamma tradita, il luogo di tutto ciò che era luminoso e caro restava indietro. Per andare a scoprire paesi tanto diversi; continenti, usi e lingue lontani. Rinunciando ogni volta a un’esistenza appena costruita, per cominciarne una nuova, daccapo.
Scendo nella stazione piccola, quasi affettuosa nel suo ordine e i suoi suoni ovattati, e ricordo che durante i periodi in cui vivevo all’estero, Firenze era un rientro gradevole, riposante nella sua assenza di sorprese. Quando tutto intorno vorticava di cambiamento, questo restava il porto d’origine, la garanzia rinfrancante di un luogo senza stupore, solo riconoscimento.
Ma poi i genitori avevano iniziato a perdere le forze, si erano ammalati, si erano sostituiti ai bisogni dei miei bambini. Ed eccomi qui di nuovo sopra l’autobus che mi ha portato così tante volte da loro, negli ultimi anni. Lasciando sempre più spesso la mia vita, i miei ritmi e le mie esigenze per accudire chi non ce la faceva più a vivere con le sue capacità. Non solo il fisico che decadeva, e la mente meno pronta, ma tutto il mondo, intorno a loro, che parlava in un linguaggio sconosciuto, funzionava con mezzi incomprensibili. E io ero il traduttore, la guida, lo sherpa nell’arrampicata quotidiana fra incombenze di tutti i tipi.
Eccomi dentro alle strade che si avvolgono intorno alle curve di epoche antiche, e poi dritte sui viali del Risorgimento e le sue strade residenziali e austere, e infine nelle strade della mia infanzia. Vicino al fiume, né centro né periferia. Un mondo di mezzo, redento dal verde dei colli vicini. La stessa vista di infiniti viaggi. Da Roma a qui, l’altalena su cui sacrificavo il tempo, e dondolavo preoccupazioni. Finché Firenze è diventata la culla di pena e di fatica in cui penetro adesso. Troppo in fretta, ed è quasi il momento della mia fermata.
Scendo dal bus per camminare verso la solita incombenza di svuotare la casa di chi se n’è andato. Da mesi, ormai; da quando il tempo ha deciso che i genitori erano troppo obsoleti e ha mandato una malattia a toglierli di mezzo. Ma solo loro, i loro corpi. Tutto il resto è rimasto lì. Oggetti personali, abiti, ricordi.
Arrivo a casa e giro la chiave, senza più le grida di emozione, dietro, ad accogliermi. Senza le luci accese e gli occhi puntati già dove sarebbero stati i miei, e le braccia già aperte.
Giro la chiave e la porta si spalanca su una casa in penombra e silenziosa, che sa di polvere e di piante rimaste troppo a lungo al buio. Poso la valigia da cui l’angoscia ormai trasuda, troppo grande per essere contenuta nel mio piccolo bagaglio. E mi metto all’opera.
Seleziono per regalare, tenere o buttare cose, passo ore intere ad annusare tutti i vestiti e ne nascondo qualcuno in buste di cellophane da tirare fuori all’occorrenza; quando il desiderio di una parvenza di quello che c’era sarà insopportabile e mi accontenterò di spore di odore materno rimaste intrappolate nei tessuti.
Per molto tempo c’erano folate intere di profumo, che uscivano ogni volta che aprivo l’armadio, e mi ci potevo tuffare dentro, lasciarmi abbracciare dall’amore di un tempo. Adesso mi sono rimasti i sacchettini, che ho portato a Roma ma che non ho ancora mai aperto. Non vorrei che sentimenti tormentosi come la nostalgia e il rimpianto intaccassero il territorio ancora relativamente puro di casa mia, o che si sovrapponessero alla mia percezione lieve della città. Quella leggerezza da cui mi stacco per tuffarmi in questo mondo del ricordo, dello scempio. Per fare a brandelli quel che resta della vita dei miei genitori, far volare nella pattumiera le loro agende, i loro pettini, i loro occhiali.
Devo dire che quei due non mi hanno aiutato in questo compito, avendo accumulato oggetti per una vita intera, e avendo abitato in una casa grande, negli ultimi anni, da soli. Con una grande cantina e un garage immenso, che si sono prestati ad abitudini turpi quali quella di conservare ogni ricevuta, ogni multa, ogni verbale di assemblea condominiale della loro vita. Ho trovato le prime cedole di pagamento di mio padre: foglietti giallognoli degli anni quaranta. La sua prima lettera di assunzione, scritta in bella calligrafia con un pennino. E tutte le carte che hanno riguardato il suo lavoro, in ogni suo aspetto. E lui ha lavorato fino a ottant’anni.
Possedeva una ditta di rappresentanza; fra le fabbriche e i magazzini della grande distribuzione interveniva lui, per far conoscere modelli e stoffe nuove, le idee vincenti per le prossime stagioni. In garage ho trovato campioni dei modelli e delle stoffe che utilizzava. Smaglianti, impilati in valigie ancora nuove.
Era bravissimo a riordinare e conservare. Il garage e la cantina hanno sputato fuori da ogni angolo oggetti vecchi ma intatti. Imbustati, spillati, legati, a file, scaffali, registri, cassetti. Tutto con scritte esplicative, e scotch, nastri, spaghi a tener bene ogni cosa. Tutto sfilabile e rimettibile al suo posto in pochi gesti. Tutto fresco e pulito, dopo decenni di conservazione. Nemmeno nelle piramidi egizie devono aver provato il mio stupore e la mia ammirazione, quelli che sono andati a frugare fra la roba dei morti.
E da questi pacchetti così ben fatti sgusciano fuori oggetti dei generi più diversi. Non solo i documenti di lavoro e quelli pratici, di vita quotidiana, ma ricordi declinati su ogni epoca. Il vecchio superotto con cui papà annoiava gli adulti ed estasiava noi piccoli con i filmini girati pochi giorni prima. Che erano di noi bambini in gita in campagna, o alla festa del compleanno di uno di noi, quindi cose appena vissute e che tutti conoscevamo bene. Ma siccome lui metteva tutte le sedie in fila e spegneva tutte le le luci e non ci si poteva muovere, non si poteva parlare, come al cinema, a noi sembrava emozionante.
Sbucano tutti i vecchi dischi di mio fratello; i 45 giri dei Nomadi, dei Beatles, dei Mamas & Papas, che gli sentivo ascoltare a ore, da fuori la porta chiusa. Aveva quattordici anni più di me, mio fratello, e bisogno di privacy quando io ancora giravo col ciuccio. E quindi potevo solo avvicinarmi alla porta chiusa della sua camera, per sentirgli canticchiare storpiando le parole inglesi, o artigliare sulla chitarra la voglia di fare un assolo.
I quaderni di scuola di mia nonna paterna, contenuti da copertine nere. Dentro, i suoi temini sembravano usciti dalla penna di un adulto; scritti non per esprimersi ma per mostrare di essere ligi e timorati di Dio. Come immagino fossero tutti gli allievi bravi, all’epoca.
Una lettera scritta da qualcuno a mia mamma e che lei ha strappato in piccoli pezzi, ma che non ha gettato. Lo so già che non mi metterò mai a ricomporla, ma so anche che non la butterò via perché magari, un giorno…
E poi i miei giochi, i miei libri d’infanzia. Non sapevo che ci fossero ancora, non li vedevo da anni. Credevo fossero stati dati via, ai cuginetti più piccoli, o a chissà chi. Li ricordavo appena, alcuni. Ricordavo solo il tipo di emozione che mi dava averli fra le mani e giocarci. In genere me li ricordavo più nuovi e più grandi, più odorosi di plastica e gomma, di come li trovo. Li trovo un po’ spenti. Dimenticati da tanto tempo. Non profumano più di giocattolo e sono un po’ più piccoli.
Non so come potessi infilare le mani e muovere i personaggi, dentro la fattoria di plastica rigida, bianca, ormai ingiallita. E i recinti che erano immensi e contenevano mandrie di animali… piccoli riquadri di finte pietre e qualche mucca in miniatura. La casetta con la famiglia Mattel, che era la risposta politicamente corretta alle Barbie. Una famiglia normale, non troppo bella e non troppo slanciata. Ma con le gambe che si snodavano e le braccia e la testa che giravano, e una casetta di quattro stanze che si ripiegava tutta e stava in una scatola. Non sono più in vendita eppure mi piacevano tanto, mi sembra impossibile che non riescano più ad attirare i bambini.
E poi i libri. Sciolgo i nodi dello spago con cui mio padre aveva fissato la grande busta di plastica spessa. E ne emergono i libri più belli, quelli con le scritte e le figure. Le fiabe, i libri di avventura e Caro bruco capellone. Il primo libro regalatomi da mio fratello. Una specie di diario di un bambino degli anni settanta, perplesso, ferito e contento di tutte le cose che scuotevano, rattristavano o piacevano anche a me. Finiva con il bambino che piangeva perché il bruco che viveva nel suo terrazzo era morto, e correva a farsi consolare dalla mamma. La quale, però, capiva che il vero motivo della disperazione era la paura del primo giorno di scuola, il giorno dopo. E la paura di crescere, di diventare grande e non essere più un bambino. Che avevo ovviamente anche io, più di ogni altra. I grandi erano seri e abitudinari, stanchi, pieni di impegni, erano responsabili. Tenevano sulle spalle la gestione della casa, il sostentamento dei figli, le relazioni con gli altri, le tasse, il lavoro, le visite mediche… e senza giocare, mai.
Caro bruco capellone era il libro che aveva frugato fra tutti i miei spaventi e le miei gioie, quando ero bambina, e ora lo tengo di nuovo fra le mani. Lo sfoglio, rido, mi emoziono. E lo chiudo, come sempre, con un singhiozzo. Perché è morto il bruco.
Lo porto a Roma, ovviamente. Pensando a una lettura di brani scelti, da proporre ai ragazzi in un pomeriggio di domenica in cui per caso saremo tutti in casa. Con spiegazione e commozione finale. Non succederà mai, ovviamente. Ma mentre prendo il treno, per rientrare a casa, mi piace pensarlo.
E una volta a Roma, mentre svuoto la piccola valigia dei vecchi libri e dei bagagli di sentimenti ingombranti, rifletto sulle buste sigillate, con dentro i miei giochi e le mie letture preferite. Penso a quanto avrei amato farci giocare i miei bambini, quando ancora ne avevano l’età. Sarebbe stato bello anche per i nonni, tirarli fuori dai loro nascondigli segreti e proporli ai nipoti. Quando andavamo a trovarli avrebbero avuto regali da porgere, via via; emozioni, rimostranze e litigi, tutta una festa intorno ai pacchi da scartare. E io avrei letto, la sera, le storie più adatte alle varie età, e avrei sentito una continuità intensa, fra i miei momenti e i loro. Sarei entrata nella loro fantasia, ci avrei portato un po’ della mia e insieme ci avremmo camminato dentro, in mezzo a colori, eventi e suoni comuni. Si sarebbero addormentati con i miei ricordi, vivissimi, dentro la testa.
Invece i miei ricordi sono rimasti per decenni imbustati, impilati, rinchiusi. Se non fossi andata in cerca dei filmini del superotto dentro un mobile sommerso di roba, vecchio e quasi invisibile, in garage, non li avrei mai ritrovati.
Ripongo la valigia nella mia piccola cantina, straripante di roba. Che mi fa richiudere in fretta la porta, per non cominciare a riflettere sulla necessità di svuotare anche quella.
Però, mentre rientro in casa, penso a questa cosa del conservare. I miei genitori hanno conservato la mia infanzia, insieme a tutto il loro passato. Stava lì, impacchettata al meglio, preservata come una reliquia. E inarrivabile come una mummia.
Perché non mi hanno ridato quegli oggetti? Perché non li hanno mai proposti ai nipotini? Probabilmente non se li ricordavano nemmeno più. Una volta passata, la mia infanzia era stata inscatolata, catalogata e riposta al sicuro. E lì doveva stare. Al riparo, immobile.
Mi suona familiare questo modo di conservare i ricordi, ne sono prova faldoni, borse e scatoloni pieni di oggetti del passato, nella cantina di cui ho appena richiuso la porta alle mie spalle. Cartoline, quaderni e giocattoli, vestitini dei bambini, regali e lettere di mio marito, i bigliettini di Natale, le prime stesure della tesi…
Non ho mai pensato che fosse un’abitudine sana, sopratutto dovendoci fare i conti nei traslochi frequenti. Quando imballare e sballare, trovare posto e pagare il trasporto degli oggetti cari diventano una fatica e un lusso impensabili. Li ho ridotti al minimo, via via. Ho tenuto solo quelli indispensabili per me. E sono ancora troppi.
Mio marito gli dà la caccia, ogni tanto. Riemerge dalla cantina con aria stravolta: “Davvero abbiamo ancora tutti i mattoncini lego???”. E mi propone di gettare vecchi quaderni: “Non li rileggerà mai nessuno!”. Ma io resisto. Li ripongo in fretta, li custodisco. Anche io, come i miei. Non perché debbano servire una volta a qualcuno, ma come oggetto speciale in sé. Che conserva l’elisir del passato. È rimasto solo quello, di un momento della vita, e quindi va tenuto di conto e preservato. In fondo a chi danno fastidio? E che male può fare conservare i ricordi? A parte un po’ di ingombro, che danno ce ne viene?
Dal mucchio di roba portata da Firenze prendo in mano il libro con la storia illustrata dell’umanità su cui passavo i pomeriggi, da bambina. Disegni affascinanti, testi semplici che hanno per sempre delineato le mie conoscenze essenziali. Come tralicci su cui far arrampicare gli studi, e ogni scoperta successiva.
Lo propongo a mio figlio di dodici anni, che passa le giornate a guardare video di ogni genere, moltissimi documentari, e sa un po’ tutto di tutto. Mi sorride e mi dice: “Mettilo lì”, indicando con il mento uno scaffale. Ci ripongo sopra il libro, che non leggerà mai. Non ha più l’età. Eppure lo avrebbe apprezzato, al momento giusto.
Esco dalla sua camera con questo dispiacere: che è troppo tardi; e poi subito dopo una nuova consapevolezza. Che il passato va usato.
Il garage dei miei genitori con intatte le infanzie dei loro figli. I soldatini di mio fratello e le mie bambole. I nostri libri di scuola, le nostre pagelle. E poi i loro libri preferiti, le foto dei loro genitori, i loro abiti di quando erano giovani… Tutto fuori. Da indossare, commentare, vivere, finché non si lacera. È vecchio e quindi fragile, ma è prezioso da usare. Mentre i ricordi inscatolati restano inarrivabili, sconosciuti. Sprecati come i resti di un’antica civiltà sotto l’asfalto di una città.
Qualche anno fa avevo sentito la necessità di volare lontano da tutto quello che rappresentavano. Ma poi non ne avevo fatto molto, di questo desiderio, a parte lasciar cadere nella pattumiera un po’ di lettere vecchie di amici, qualche cartolina, e delle foto sfocate.
Mentre adesso una nuova decisione fa capolino fra gli oggetti impilati e recuperati, fra i ricordi e le paure di perdere il passato. Mi fa l’occhiolino, e mi mormora che non li devo buttare, e nemmeno li devo imbustare. Il passato non è solo “passato”, ciò che ne resta è ancora vivo, è cosa da brandire nel presente.
Quello che hanno costruito gli anni sta in ogni cellula del nostro corpo, e nelle conseguenze delle nostre azioni. E la traccia che lasciamo è un domino che non finirà mai, perché sarebbe stato diverso se non ci fossimo stati. O se fossimo stati diversi.
Posso tirarmi giù dagli scaffali, allora. E tenere il passato con me, senza paura di annullarlo. Accanto ai miei gesti e sentimenti di ora. Posso anche lasciarlo andare, perché in realtà lui è già oltre. Sta in ogni particella di dopo che esiste.
Ci giocherò, lo condividerò, lo userò fino a consumarlo. Lo guarderò con mente nuova e modificherò tutti quei lasciti che non mi piacciono. Lo lascerò andare verso il futuro.
Potrò togliere anche Firenze dalla busta, dopo. Potrò riprenderla in mano, portarci i miei divertimenti, i miei amori e i miei guai. Usarla, e commuovermi di nuovo della sua armonia struggente. Saprò perdonarle il suo passato un po’ fermo, un po’ troppo ben conservato, graffiato qua e là dallo scempio del finto passato ad uso turistico.
Per poi tornare non più in fuga, ma come un’anima fortunata, ricca di ricordi, verso il mio presente e il mio futuro. Verso Roma, che non mette mai niente dentro una busta.