Presiden arsitek/ 44

I fogli di giornale si alzano quando tengo le finestre aperte, come qualcuno che ne voltasse le pagine nell’altra stanza. È un rumore piacevole, tanto che si potrebbe pensarci come ad uno strumento musicale passivo, come le campane a vento. Simulazione della presenza.

di in: Presiden arsitek

SARAHS: Un diario, una scrittura dimessa e nuda, di cui vergognarsi follemente. Una scrittura di cui avvampare, e perché no? Avvampare è uno dei moti del sangue che ho perduto con l’infanzia. L’amore non conta, quello non lo chiamo avvampare. Solo chi scrive avvampa. Non esiste vergogna più grande di quella, di questa.

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MILOŠ: Se incontrassi l’uomo che ero vent’anni fa, non avrei nulla da insegnargli: da lui viceversa dovrei imparare quasi tutto. La morte è anche questo. E dunque un diario, ecco, perché no, una bara di carta in cui rimanere sepolto vivo. Sì, forse potrebbe svolgersi così, un suicidio di scrittura. Una scrittura protratta sino alla morte. Ricordi artificiali parassitizzano il mio cervello sostituendosi ai sogni. Ad un certo punto, forse per timore che in qualche pur minima misura S. possa esserne delusa, ho smesso di sognare, riducendomi e quasi acquartierandomi in ristrettissime rachitiche immagini che, vedi caso, la incantano. È una cosa quasi volontaria, una specie di contrattura del cervello non diversa da quella con cui ci copriamo le parti intime se qualcuno ci sorprende nudi. La minuscola brace di una sigaretta accesa nella tenebra del bagno piccolo, per esempio, il suo lento espandersi nello specchio e contro lo smalto bianco del cacatoio, l’espansione della luce quando aspiro il fumo illumina il mio volto, e nel sogno devo continuare ad aspirare per potermi vedere nello specchio, ma c’è qualcosa di sfasato, un fatto di luce rallentata, e l’immagine nello specchio si illumina ogni volta troppo tardi, quando sto già soffiando fuori il fumo, e ogni volta non riesco a vedere il mio volto riflesso, e non posso così essere certo che sia davvero il mio, e sarà così se non mi riallineo quanto prima con il riflesso, il rallentamento della luce è il primo passo della rivolta delle immagini riflesse. Tutti sono capaci di riflettersi nello specchio tranne me, penso disperato, aspirando sempre più velocemente il fumo della sigaretta e sempre di più perdendo il contatto con la mia immagine riflessa che è ormai pronta ad abbandonarmi… Scrivere inarrestabilmente fino a morire, fino a perdere del tutto il senno. Come se fossi rinchiuso in una cella d’isolamento e non avessi che la carta in cui non dico essere libero ma, almeno per poco, respirare. Né saprei poi dire se ho solo sognato di fumare una sigaretta in bagno o se l’ho fatto davvero o tutt’e due. Respirare la luce.

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SOMMARIVA: Un diario, perché no, uno scritto che possa restare segreto. È nella segretezza che la scrittura si fa piacere. Per questo non è raro che gli scrittori ricordino con nostalgia le prime prove, quando per il resto del mondo non erano ancora scrittori. E tra le cose che Robinson Crusoe porta via con sé dal relitto come necessarie c’è il materiale per scrivere. Scrittura che termina al terminare dell’inchiostro. Poteva forse usare il sangue? Forse, diluito adeguatamente. Ma non è questo il punto. Il punto è che per quanto si cerchi di dimenticarlo tutti quanti siamo dei naufraghi su un’isola, può essere grande quanto si vuole ma sarà sempre un’isola perché noi siamo sempre comunque naufraghi, e per tutti prima o poi arriverà il momento in cui non ci sarà più una goccia d’inchiostro né un centimetro di carta libero. Questo però non impedirà alle cose da raccontare di, implacabilmente, continuare e continuare ininterrottamente ad accadere. Un diario, allora: perché no? È per ciascuno il primo passo quando si avvicina l’apocalisse. La vera apocalisse infatti non avrà nessun lettore.

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TRUUT: Eccomi. Sono dentro questo scrigno. Lo scrigno che tenete in mano, perché no? Anche se mani non avete, anche se di fatto non esistete se non perché io sto immaginando le vostre mani che tengono lo scrigno in cui io eccetera eccetera, ossia siete dei fantasmi di fantasmi, ecco: ma questo non mi impedisce a me di essere qui, di essere dentro lo scrigno, e a voi di tenerlo in mano. Non fate caso al fatto che ora mi avete davanti agli occhi: se voi con gli occhi che vi sono stati dati mi potete vedere, ciò accade perché di nuovo così è stato deciso, ed è stato deciso solo per la vostra comodità, per quanto possa importare a chicchessia la comodità di fantasmi di fantasmi, eppure è così, tutto, lo scrigno, le mani, gli occhi, tutto è stato predisposto perché le cose vi siano più chiare, e perché io vi possa spiegare comodamente come sono finita qui dentro, e perché.

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VALMARANA: (Tiene davanti a sé la striscia di carta con fare tra lo scientifico e l’affettuoso. Rivolto all’uomo mascherato) Esaminata in controluce, mia moglie risulta essere in filigrana doppia, e, giusta la mia lettura del Briquet e del geroglifico impresso nella carta, dovrebbe essere stata prodotta a Venezia nel 1651. 1651. Quindi contando anche quest’anno fanno circa… (Ride.) A volte, per scherzo, la chiamo “la mia carampana”, poi le stampo un bacio sulla fronte, così. (La bacia. Pausa. A volte sembra essere geloso dell’uomo mascherato.) È difficile da spiegare, ma di fatto sono certo che la carta ha due occhi. Forse anche più di due. Voglio dire mia moglie. La carta. Sì. Lei su questo argomento è estremamente riservata, ma a volte, fingendo di dormire, l’ho sorpresa china su di me con gli occhi aperti. Quando mi sono tirato su, si è voltata di scatto, nascondendo gli occhi e assicurandomi che avevo solo sognato. Oltre agli occhi, mia moglie ha anche un aculeo, molto affilato, lungo come uno spadino da parata. (Pausa.) Ora non li trovo, né lo spadino né gli occhi (Bisbiglia alla carta) Non vuoi tirare fuori l’aculeo? Per favore. No? Potresti ferirmi, amore mio, potresti tagliarmi la gamba e la ferita potrebbe infettarsi, mia luce, potrebbe suppurare, mia sola e unica febbre, mia pestilenza, mio fiore, e così potrei accartocciarmi anch’io, vedi? già i denti si accartocciano senza che tu li abbia feriti, e allora perché non tiri fuori lo spadino e mi trafiggi, regina dei vulcani e dei ghiacciai, così anch’io mi accartoccerò, anch’io… Pensa alle nostre bambine… Tu hai sempre voluto due bambine, ricordi? Dicevi che i maschietti fan troppo rumore, son troppo violenti troppo rudi… (Con gesti pomposi e manierati, prende un pennino decorato con la piuma di un uccello) Vieni, ecco, voglio… (Si blocca, come un bambino sorpreso nel mezzo di una marachella) Perché no?…

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SARAHS: Uno specchio frusciante, anche: del serpere del lapis contro la carta, quasi come un tenero respiro… Ah! Ecco: ecco: faccio bene a dire queste cose cretine. Sto avvampando. Sì…

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MILOŠ: Tutto è vero, niente è permesso. Questa la trappola mortale in cui ti stai consumando. La continua pena che mi occupa e che mi sottrae da ogni piacere e da ogni dolore dividendo me da me stesso con una sorta di telo unto e puzzolente contro cui si agita un vecchio spettacolo di teatro delle ombre. Il telo è in effetti un sipario, e io sono la marionetta che dietro quel sipario attende che i fili cui è incatenata prendano vita. Autopinocchio, burattino di me stesso io giaccio con la mia carne in un angolo, paralizzato forse dalla bellezza o più tristemente dalla rarità – rarità! so bene quanto sia cretino crederlo, ma così io credo, e perciò –– rarità della tortura che mi è toccata in sorte. Mentre osservo la marionetta articolare movimenti che sono una caricatura dei miei, non faccio che assicurare alla mia carnefice, la mia Torquemada Medusa, che quei quattro pezzi di legno sono quanto di me è più autentico. Facciamone pure uno psicovaudeville: eccomi dunque a soffrire di corna piantatemi in testa dallo spettro di me stesso, uno spettro bellimbusto che io stesso ho contribuito a creare, che dovrebbe essere un banale scudo e controfigura ma che esige una cura e un’attenzione continue: è il tranello della marionetta, che senza vita ha bisogno sempre più della vita del marionettista. Il suo sospiro, il sospiro del mio fantasma mio traditore, come un flauto ininterrotto di un rito dell’Africa Nera, insinua una nota discordante in ogni briciola di armonia in cui mi possa accadere di incappare. Un bordone da un pianeta alieno, il pianeta del mio fantasma che mi fissa attraverso lo specchio, sfasando lentamente il suo respiro dal mio. Il sospiro del mio fantasma risucchia, vaporeo vampiro, ogni immagine del mio cervello lasciandolo più secco di una noce in una scodella. E infatti tutto questo se lo rileggo è contorto e stupido nella più squallida e deprimente misura, ma è anche il solo cunicolo in cui poter scavarsi non visti una via di fuga.

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SOMMARIVA: Un diario, dunque e perché no, un diario, e sia pure, sì: ma in terza persona: come un faraone, anche in solitudine ritrarsi così, di profilo, bidimensionalizzandosi tra geroglifici e dèi dalla testa di cane, tenendo sempre, non importa quanto privata sia la scrittura, qualcosa di sé a sé nascosto. Ciò che resta nascosto è ciò che si salva, è ciò che davvero vive: ecco la verità ultima del precetto epicureo. Soggiungeva dunque, lui, il Sommariva, soggiungeva spesso dei fatterucoli tra parentesi, e nelle parentesi vedeva come membrane di sapone che un soffio bastava a cancellare: o così, almeno, diceva lui: il detrito ondivago e fuorviante della punteggiatura, ecco. Fuorviante poi per modo di dire: era infatti tutto l’opposto. Detestabile ciarpame diacritico! Il cattivo gusto, la rozzezza diceva lui di un discorso che per poter procedere deve necessariamente reggersi sulle stampelle della punteggiatura, un po’ come un cattivo testo teatrale non può rinunciare alla didascalia. Il buon discorso au contraire biforca in sensi diversi nella medesima frase. Le dispute dei dantisti nemici, nemici, sì, no, ah! sì, sì, tutti dal primo all’ultimo nemici suoi, le dispute dei dantisti intorno al significato di questa o quella terzina proverebbero allora certa specialissima bontà della scrittura di Dante: la cui rarefattissima punteggiatura è indizio certo che ai lettori del tempo (“Di Dante: non dei dantisti”, ripeteva sempre il Nostro, ed era quasi un verso formulare per lui, tonifico refrain cui la grigia menestrelleria accademica appendeva scimunitaggini quali “La Commedia: di Dante, non dei dantisi” o “Pietro: di Dante, non dei dantisti” e via dicendo, con puntuale bordone di urbanissime risate espletate per dovere d’ufficio da parte della teppa: e dei teppisti) ai lettori del tempo piaceva questa specie di ondivaga incertezza, questa sorta di instabilità liquida del dettato che per il momento presente è perduta. Il buon discorso, sentenziava Sommariva sottolineando il gesto divaricano indice e medio e allungando la mano quasi a voler accecare l’ascoltatore, il buon discorso biforca, triforca (tre dita), quadriforca (…e così via diteggiando, quasi giocando una morra in solitaria, a volte lasciando che il fervore lo trascinasse fino a un circonferenziale e pappagorgeo decaforca: e le due mani si distendevano allora come corolle o stelle marine, digitulando onnidirezionali e onnivore verso il volto dell’atterrito interlocutore ormai con le spalle al muro): e così anche il buon lettore dondola anzi dondolava allora e oggi dovrebbe dondolare tra più di un significato come su un’altalena, godendo anche lui appunto dell’incertezza. Il leopardo del linguaggio passeggia più libero in assenza di un recinto di punti e virgole. Bah! E invece no, e invece macché, e invece vedi tu un po’, oggi, la volgarità e la viltà di una lingua che rinnega la propria origine babelica e pretende farsi grammatica, (ohibò: che l’antica imperfezione della lingua fosse un modo riflesso per lodare la perfezione del linguaggio prebabelico? non è il chiacchiericcio caotico la forma più alta di olocausto concessa all’uomo?), ma la lingua più viva è quella che un istante dopo essere stata pronunciata è già straniera a se stessa: e in fondo non è altro che una questione di tempo perché ciò in ogni caso accada, chiosava infine il Nostro, sta anzi già accadendo: e richiudeva finalmente le benedette mani, passandosi il pollice contro la punta del naso con irresistibile civetteria canagliesca.

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TRUUT: Da un po’ di tempo a questa parte, mi si spaccano i denti. Di solito succede prima dell’alba, quindi mi capita di fare dei sogni, mi spiego? per esempio sogno di rosicchiare del pane troppo duro o troppo vecchio, o di essere torturata in modi orribili, in varie epoche. Nel dormiveglia sento un rumore, CRIC CRIC, CROC CROC, e poi mi sveglio, mi sporgo fuori dal letto e sputo in terra un pezzo di dente. I selvaggi di certe isole orientali in cui sono stata mandata quando lavoravo con i missionari – raccoglievo piccoli felini esotici –– lì si fanno tagliare apposta i denti, per averli a punta. Alla fine i loro sorrisi sembrano quelli che disegnano i bambini. A quanto pare, tagliarsi i denti in quel modo non è doloroso, ma non so se me l’hanno detto per scherzo così magari avrei provato a farlo anch’io e così avrei sentito un dolore tremendo. Loro fanno di questi scherzi. Alcuni di questi scherzi per poco non ti fanno morire. Non bisogna prendersela però. Poveri peccatori, che ancora non hanno imparato a separare il grano buono dal grano triste.

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SARAHS: Ritornata oggi da Newton dopo aver fatto le mie condoglianze a (…omissis…). La chiesa arcipretale è stata ridipinta in toni di grigio. Lungo le pareti scendono i tubi di rame delle grondaie, come nell’appartamento di quando vivevo vicino al lago, con le tubature a vista che correvano lungo il giroscale e i corridoi del condominio. Ho tenuto le due mani di (…omissis…) come se lo stessi invitando a scavalcare la panca per ballare un minuetto. Sua moglie mi ha notato appena. Era molto sudata. Tutti sorridevano, e c’erano ancora alcuni sopravvissuti della giovinezza della Truut, vecchi tossici rigati da una geografia di tatuaggi sbiaditi, tipi quasi caricaturalmente loschi che con un ininterrotto e furtivo andirivieni tra lo spiazzo della chiesa e i banchi riuscivano a far sembrare le navate e l’altare i vicoli dietro il quartiere del mercato vecchio. Ma oggi non trafficano e non nascondono che le loro lacrime, mi sono detta e subito mi sono sentita un’imbecille e mi è venuto da ridere perché la Truut per prima mi avrebbe dato dell’imbecille a sentirmi dire cose così, perché anche se era vero che se ne andavano e venivano con i loro passetti e i loro sguardi furtivi solo per poter piangere in santa pace lontano dal sacerdote che li traguardava con antievangelico orrore e la magrissima e quasi scarnificata perpetua che sibilava loro di non allungare le mani al passare del cestello per le offerte, invitandoli a cantare con gli altri e a sedersi nelle file davanti invece che rimanersene in fondo tutti in piedi come avevano fatto all’inizio, anche se anche se anche se, tutto quello che si vuole, è da imbecilli sguainare frasette da quattro soldi davanti ai morti e a chi li piange, e ecco di nuovo un’altra frase imbecille, le uniche frasi che andrebbero bene sarebbero frasi anche loro morte, un tetro e grigio rapporto degli eventi come quando a scuola avevamo letto il finale del Werther e io che stavo leggendo per tutti ero scoppiata a piangere e lo stesso avevo voluto leggere tutta quella pagina, piangendo sempre più forte mentre ogni altra singola persona nella classe apertamente o meno rideva di me, e più tardi nei cessi della scuola mi ero spenta una sigaretta sul braccio solo per il gusto di far morire le risate sulla faccia di quelle puttane che credevano di potermi far piangere ancora e ancora, anche senza Goethe, ed ecco, Nemmeno se mi legate a un palo per bruciarmi viva, puttane, avevo detto prima di ustionarmi il braccio, e non avevo pianto una sola lacrima mentre la carne sfrigolava contro la punta di sigaretta e la mia faccia diventava paonazza. Ma gli occhi non tremavano.

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MILOŠ: La via è allora quella di dimenticare se stessi, la via è l’oblio? La via è amare la croce, la croce con cui il marionettista alza il mio spettro. Amare le corna che io stesso ho creato per dar vita al mio psicovaudeville. La speciale tortura riservata al Diavolo è quella di essere costantemente messo di fronte al proprio doppio, l’Angelo. O forse è tutto viceversa. In fin dei conti, l’Angelo non è che un Diavolo mancato. L’Angelo non è che un fantasma, con cui il Diavolo si tortura. Ma solo il Diavolo è quello condannato all’esistenza. La vendetta più grande per il Diavolo sarà allora quella di dimenticare Dio istante dopo istante, e istante dopo istante lasciarlo a trastullarsi con le sue marionette, con quelle che il giorno prima della creazione si fabbricò per circondarsene e per nascondervisi perché gli altri dèi non smascherassero la sua incapacità.

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SOMMARIVA: Comprendiamo quel che diciamo solo grazie alla lentezza maggiore della vita della lingua rispetto alla nostra: è questa sfasatura temporale tra i due organismi a permettere alla simbiosi di essere efficace. Sufficientemente piccoli e precari per percepire la Terra come qualcosa di piano, orizzontale, stabile e duraturo… Se la nostra dimensione fisica e temporale fosse solo un po’ più vasta percepiremmo immediatamente il ribollire e l’interna marcescenza del pianeta, di ogni pianeta: a questo allude qualsiasi mito sui giganti, a questo alludono i canoni per augmentationem. Fossimo grandi quanto basta per davvero comprendere la Terra, ne saremmo immediatamente espulsi, come orsi ballerini in breve equilibrio su una palla: così avvenne ad Adamo ed Eva dopo che, addentato il Frutto, compresero la povera realtà dell’Eden.

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VALMARANA: (Lunga pausa.) Non stavo sognando. Facevo solo finta. Sapevo benissimo di essere sveglio e sono sicurissimo di aver visto gli occhi e lo spadino di mia moglie. (Pausa.) E poi è successo più di una volta. Come ogni cosa di cui non vuole parlare apertamente, anche questa faccenda degli occhi alla fine si è trasformata in un gioco. Il gioco funziona così: dopo aver cenato, io mi spoglio, mi sdraio sul letto e fingo di addormentarmi. A volte, russo molto rumorosamente, imitando un maiale, così. Un fruscio di carta mi fa capire che la mia sposa sta trattenendo una risata, così. Lei si china su di me, si avvicina fino a sfiorarmi la guancia, e allora io apro gli occhi di scatto, e lei si accartoccia, frusciando. Io rimesto tra i fogli, alla ricerca dei suoi occhi, ma è tutto inutile e allora mi metto a ridere, felice. (Si strofina addosso la striscia di carta. Ad un certo punto dal groviglio tra i due cade una lettera. L’uomo mascherato si alza e la raccoglie. La apre, ci dà una scorsa poi se la infila in una tasca e si risiede. Dopo un po’, Valmarana si ferma. Resta sdraiato sulla branda poi si tira su. Si stropiccia gli occhi. Rivolto all’uomo mascherato.) Un’altra lattina! (Pausa.) Cioè, un’altra scatola. Volevo dire un’altra scatola. Sì. Non ho voglia di aprirla, tanto lo so già: un altro esemplare. (Pausa. Apre la scatola con furia, tira fuori un’altra scatola, fruga ancora, disperatamente. Tira fuori strisce di carta e fili di paglia. Finalmente trova un vasetto di pomata. Se la spalma addosso, provando un sollievo immediato.) Volevo dire un’altra scatola. (Pausa.) L’ultima volta che ho visto Brušek è stato al ritorno dal mio viaggio nelle isole, quando gli ho portato lo schedario pieno di esemplari. Tutti morti. (Sottovoce) –tti morti. (Voce normale) Non era arrabbiato, in quel momento gli esemplari non lo interessavano tanto. Voglio dire che non gli interessava se erano vivi o morti. Lavora sempre su più animali per volta, e per gli animali più particolari— ma lo sa lui quali sono quelli particolari, io non ne so niente di questo, anzi, a dirla tutta a me sembra che un animale valga l’altro. Un animale vale l’altro. (Mentre Valmarana continua a parlare, l’uomo mascherato si alza e inizia a scrivere sulla lavagna la frase “un animale vale l’altro” fino a riempire la lavagna, poi si risiede.) È andato su tutte le furie quando sono entrato nel suo studio senza avvertirlo. È così che ho potuto vedere i granchi. (Pausa.) Non ne sono contento. Per niente. Proprio per niente. (Pausa.) No. Forse non erano nemmeno granchi. Erano solamente simili ai granchi. Avevano un colore arancione chiaro, da aragosta, e lui li stava spostando da uno scrigno di latta a un altro. (Pausa.) Una scatola. Sì.

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SARAHS: Nemmeno se mi legate a un palo per bruciarmi viva, puttane, ah sì, sto ancora bene quando ci ripenso, l’avevo detto lentamente e senza nessuna emozione, come chi descrive una sepoltura, come bisogna parlare quando è morto qualcuno, e tutte loro avevano pianto e strillato da quelle povere puttane che erano mentre mi marchiavo a vita il braccio con la sigaretta, e in quel momento i loro sorrisi erano morti e da allora in poi avrei visto sulle loro facce il ributtante spettacolo che offre il cadavere di un sorriso, a volte quasi vedevo i vermi e le mosche spuntare dal loro sorriso ormai putrefatto. Erano loro ad essere state marchiate, e Werther era stato vendicato per sempre. Ma oggi la cicatrice sul braccio è quasi, bianca e se la ragazza che ero mi comparisse davanti mi sputerebbe in faccia disgustata e direbbe che ormai sono una puttana anch’io, e che qualsiasi mia parola vale per lei meno del vomito di un cane morto. E sarebbe la verità.

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TRUUT: Da quando mi ricordo, ho sempre suscitato ripugnanza nelle persone. È come se un dito invisibile avesse tracciato sulla mia fronte delle parole luccicanti e spaventose. Dato che in me non c’è nulla di davvero ripugnante o spaventoso, mi è stato molto difficile comprendere questo stato di cose, nonché abituarmici. Sulle prime, mi sono detta che doveva essere invidia: certo, invidia per l’importante compito che mi è stato affidato, e che presto porterò a termine; sono l’unica persona in grado di affrontare una simile impresa (impresa di cui mi è proibito parlare per intero) ed è naturale che in molti mi odino per questo semplice motivo.

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MILOŠ: Una sigaretta che brevemente illumina il buio. Una catapecchia di assi di legno bianche come alla deriva in una palude, le assi sconnesse dal movimento del pantano. La casa in cui aveva abitato il Presidente prima di costruire il proprio macchinario: unico residuo di un mondo ormai irreparabilmente tarlato e bacato dai viaggi del Presidente e da tutti gli altri viaggi, tutti completamente inutili (e questo quando erano un successo) e abbandonati alla corrente, l’unico inguaribile residuo di unità nel fatto di essere tutti catturati in una medesima corrente. Non restano che visioni fuggitive talmente labili che non so dire se siano sogni, ricordi o quella sorta di certezze allucinatorie che all’approssimarsi del sonno fanno da tenebroso contrappunto a ciò che leggiamo o scriviamo, deviazioni sempre più prossime al deragliamento rispetto al senso di ciò che stiamo scrivendo o leggendo. Murare un gatto nelle fondamenta della propria casa. Tintinnio di farfalle ed elitre dentro il lucernario a soffitto… …tin tin sonando di lor dolce morte…

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SOMMARIVA: Fu durante il suo lavoro di medico sulla piattaforma di (…omissis…) che Sommariva sviluppò una delle idee che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita. L’occasione fu una visita a uno degli operai che si lamentava per quello che sulle prime Sommariva diagnosticò come un acufene. (Va detto a tale proposito che Sommariva non aveva alcuna seria formazione medica, e che per questo incarico, ottenuto grazie ai non si è mai capito se utili o nefasti uffici di Valmarana, usava ricevere i pazienti nella propria cabina dove aveva approntato – mancando sulla piattaforma una connessione stabile – vari volumi di sintomatologia e medicina generale. Sommariva riceveva i pazienti – pochissimi, come aveva in effetti promesso Valmarana, ma il vero rischio era che si dovesse ricorrere al “dottor” Sommariva per interventi di pronto soccorso in caso di incidenti, cosa che per fortuna degli operai non avvenne mai ma che toglieva ovvero pimentava il sonno di Sommariva con immagini ossessive di operai insanguinati o variamente sofferenti che picchiavano alla porta metallica della sua cabina perché lui li salvasse, fuori dalla cabina l’interminabile notte artica che già incombeva.)

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SARAHS: Tutti sorridevano e uno dei nipoti o dei cugini della Truut si carezzava un’afflosciata cresta di capelli verdi, forse aveva pensato che arrivare con la cresta in erezione al funerale della propria zia o cugina non stesse bene. Me ne sono andata prima che la funzione cominciasse. L’organo tremolava qualcosa, afflosciato anche lui, e potevo vedere le ombre dei cantanti disegnarsi dietro l’altare come statue di santi imprigionati dietro una rete da pollaio, e mentre uscivo il canto era ormai come un chiocciare sempre più debole e una seconda nipote della Truut aveva gli occhi lucidi ma sorrideva, “L’altro giorno sei andata via, c’era tutta quella gente,” mi ha detto gesticolando un po’ come fa suo padre, quasi dirigendo un’orchestrina fantasma. Gli stessi occhi perduti e dolcissimi di suo padre, che da bambina mi avevano terrorizzato come gli occhi di un folle senza cuore la prima volta che ero andata a casa loro per giocare con le bambole e (…omissis…) bisbigliandomi “Ossa rotte giù per il burrone” aveva decapitato una delle bambole e ne aveva gettato la testa in un fitto cespuglio di spine e ortiche. Molto di ciò che da bambina mi spaventava oggi amo, e la mia testa come quella di una bambola mi è stata strappata dal corpo con un innocuo plop e gettata tra le spine dove nemmeno i corvi potranno trovarla.

Fuori, senza aver messo un piede nella chiesa, i volti vegetalizzati da giorni di lacrime, sigarette e liquori messicani, le più vecchie amiche della Truut, inavvicinabili, mute come magre sacre tetre cavalle davanti alla porta del macello.

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VALMARANA: Non so perché abbia questa fissazione per le scatole di latta. Sembrano le scatole dei biscotti delle vecchiette inglesi, solo che non sono colorate, e a volte dentro le scatole gli esemplari sono vivi, o almeno di certo lo erano i granchi che ho visto, mentre Brušek li spostava da una scatola di latta all’altra. Non so se dentro le diverse scatole ci siano speciali liquidi o pomate, insieme agli esemplari, come delle provviste. (Pausa.) Avevano un colore arancione chiaro come aragoste e lui li stava spostando da una scatola in un’altra più grande. Erano stati deformati dalla sequenza di trattamenti, ed ora gli era rimasta soltanto una grossa chela, articolata come un giocattolo per bambini. Il resto delle zampe era rattrappito, più corto del normale. Erano coperti da pezzetti di una specie di ragnatela sottilissima, una secrezione della loro corazza. (Pausa.) Non occorreva nemmeno catturarli, si arrampicavano da soli dentro un mestolo metallico, come quelli che si usano in cucina. Si muovevano con delle orribili mosse da orango, scivolavano nel mestolo… (Pausa.) Non ne sono per niente contento. Per niente. (Pausa.) Orribili. Docili. (Pausa.) Brušek si voltò verso di me solo dopo aver sistemato l’ultimo granchio nella scatola di latta. Era furioso perché ero entrato durante l’esperimento. Ma come potevo saperlo. Da dentro la gabbia i granchi facevano un suono come una fanfara di nacchere lontane. (Pausa.) Si calmò solo quando gli indicai lo schedario. Lo studio di Brušek sembrava uno di quei labirinti di specchi che hanno gli zingari sui loro carri. (Sottovoce.) —ngari sui loro carri. (Voce normale.) Non aveva gabbie, aveva solo cofani di latta come questo. Non si poteva dire cosa contenessero le gabbie. Erano tantissime. Ci riflettevano. (Pausa. Fa l’atto di specchiarsi nella scatola delle scarpe) La latta è riflettente.

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SARAHS: Sono ritornata a Jakarta lasciandomi alle spalle un temporale giallo che sfumava verso le risaie.

Qualcuno aveva attaccato dei fogli di carta ai lampioni nel cortile sotto casa mia: «Questa mattina abbiamo trovato il nostro gatto morto in mezzo al cortile. Sono cose brutte, ma può capitare. Sarebbe però stato gentile avvisarci della cosa o almeno togliere il gatto dalla strada, senza che stamattina lo dovesse vedere la nostra bambina».

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TRUUT: Tuttavia, il mio incarico può spiegare perché siano in molti a odiarmi, ma non perché tutti siano disgustati da me. Odio e disgusto sono due cose ben diverse. Allora, ho pensato che potrebbe trattarsi di un odore che ho addosso: forse un odore ereditario; in realtà non ne sono affatto certa. Non ricordo l’odore di mio padre, né quello di mia madre; non ricordo se anche loro suscitassero lo stesso disgusto che suscito io.

Oggi, mentre liberavo le rose dalle ortiche, mi è venuto in mente che potrebbe essere qualcosa nella mia voce e nel mio modo di muovermi, qualcosa che richiama il movimento di un qualche insetto disgustoso. Qualunque sia la causa, prima o poi succede sempre: le persone che in un primo tempo mi si avvicinano, dopo un po’ iniziano ad evitarmi e anzi ad applicarsi con tutte le forze perché i rapporti tra di noi siano improntati ad un’estrema freddezza. Per questo, quando qualcuno mi si affeziona veramente, io inizio a temerlo, a temere cioè che sia della mia stessa disgustosa risma, o che sia attratto da me a causa di una tara mentale.

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MILOŠ: Pronuncia le parole ad occhi chiusi, come stesse ascoltando una voce poco sopra le spalle o come chi sente che l’amore lo sta abbandonando. I capelli radi e malcolorati, lei, la Truut chiede comanda e ordina di vedere parte dell’opera, che per la Truut, imperatrice voo-doo, la Torquemedusa, è lo stesso che dire tutta l’opera, anzi tutta la vita stessa, è lo stesso che ghermirmi il cuore e strizzarsene in gola l’aspro sangue come un ciclista in gara la spugna; non c’è dubbio che sia un piano per schernirmi, perché tutti sappiano che sono pazzo e possano finalmente appiccarmi fuoco alla schiena e ammazzarsi di risate mentre corro urlando nel ghetto di Waltzwaltz. Lo scherzo è la morte lo scherzo è la morte, ascoltate un po’ tutte le innumerevoli composizioni musicali che si intitolano Scherzo e subito vedrete la morte ballare davanti a voi carezzandovi il cuore. Gli Scherzi di Chopin potrebbero altrettanto bene intitolarsi le Morti di Chopin. Chopin già morente portato in braccio su per le scale dei suoi allievi come un pupazzo senz’ossa: senz’ossa, sì, poiché nei suoi Scherzi aveva liberato la Morte e lei subito l’aveva abbandonato sgambettandosene via per Parigi, burattino crudele sgusciato dalla pelle morente del bambino vero. I celebri numeri di contorsionismo di Chopin, le cupe fantasticherie tardoromantiche ovvero tardosadistiche, come chiedere a Chopin morente di piegare indietro le gambe fino a toccarsi la nuca con le caviglie e poi… Bèccati la Berceuse, mon cher Fryderykkkkkkkkkkk! L’agonia in corsa senz’ossa, poi accasciarsi e accoccolarsi facendosi finalmente nient’altro che fiamma. Scrivere fino a non poterne più. Fino a che punto è possibile? Una fanfara passa sotto casa mia seguita da un gruppo sparso di persone tutt’altro che simili tra loro. Due acrobati guidano la parata camminando su trampoli.

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VALMARANA: L’esemplare dev’essere morto. Non importa. (Pausa. Poi, improvvisamente, urlando all’uomo mascherato.) Ho avuto anch’io una madre! Ho avuto anch’io una madre! Ho avuto anch’io una madre! (Pausa. Corre disperato dalle pere.) No no, piccole, non è successo niente, non è successo niente, il papà stava solo pensando alla mamma, e quel maggiordomo brutto bruttoide puzzoide mi ha fatto urlare. Non capisce niente. No, non la vostra mamma. La mia. Mi raccoglieva sempre la testa quando mi cadeva nel minestrone. Ho sempre avuto questo problema, una testa troppo grande, non riuscivo a tenerla su, mi cadeva sempre a destra e sinistra, ma soprattutto mi cadeva nella pentola con il minestrone, c’è stata una volta che per poco non annegavo. Volete che vi racconto quello che vedevo? Lo volete che vi racconto una bella storia così vi riaddormentate brave brave, eh? Sì? Potete scegliere: o la fiaba del re dei pappagalli o la fiaba di me che prendo a sassate quattro troie scozzesi. Allora, alzate la mano. (Sorride.) Lo sapevo. Ecco qua.

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SARAHS: Oggi andando verso la libreria ho visto Luijgi da dietro la zanzariera di casa sua. Sono salita brevemente, lui e Kecilja stavano guardando qualcosa che aveva a che fare con il teatro delle ombre. Abbiamo fatto due chiacchiere, nel centro della stanza un ologramma pietrificato di un bambino wayang che brandiva una lancia ritagliata in una striscia di pelle. Abbiamo naturalmente parlato degli atterraggi degli ultimi giorni. Kecilja dice di aver visto questa notte tre minuscole luci tracciare dei filiformi e rapidissimi ghirigori alle spalle di Luijgi, ma non ne è certa perché si era appena svegliata. Luijgi era sempre alla zanzariera, dove l’avevo visto da sotto, gli occhi rivolti allo stadio. Mi hanno invitato per pranzo domani.

Mi piacciono le vie dietro il mio vecchio quartiere. Una delle case ha sul tetto una piccola serra a forma di piramide, i vetri colorati di blu e di rosso. La serra è ingombra di rampicanti, e la casa appare disabitata. La chiamo una serra solo perché i rampicanti sono arrivati fin lì, richiamati dalla luce come proiezioni quadridimensionali del tracciato di una falena. L’ombra del bambino armato nel mezzo della stanza mi ha fatto pensare a Miloš. La Terra sta ruotando più veloce, i satelliti di Giove, dice Kecilja, non sono dove dovrebbero essere. La Luna si allontana sempre di più dalla Terra, e l’ombra di Miloš con la sua lancia di carta da me.

E se fosse una sorta di maldiretto istinto materno, ciò che mi spinge a farmi costantemente violentare dal pensiero di Miloš. Come un’ininterrotta e disperata preoccupazione che più che amore è colpa per aver generato una simile esistenza. Come fossi stata io a metterlo al mondo. È forse un maldiretto senso di onnipotenza, ciò che mi consuma? Voglio forse insegnare alla persona cui a quanto pare ho spezzato il cuore come davvero deve soffrire chi ha il cuore spezzato?

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TRUUT: (A dire la verità, non sono ripugnante proprio per tutti: ho un fratello, che mi ama e che amo senza riserve, e grazie al quale – o per colpa del quale – non ho mai davvero conosciuto le pene della solitudine.)

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VALMARANA: (Coccolando tenerissimamente le pere.) Vedevo tante, tante tante cose quando ero sott’acqua con la testa nel minestrone… la testa rotolava di qua e di là come un pescepalla, ah, ero felice, ve lo dico io. Vedevo le sirene, le cattedrali marine, gallerie e cunicoli, ma erano troppo stretti per rotolarci dentro con la testa, e vedevo marchingegni alla deriva, una squadra di ingegneri piiiccoli piccoli che avanzavano tra le patate e i chicchi di riso per prendere le misure del pentolone, e poi capanne di cinesini col tetto sfasciato, e dai buchi nel tetto pioveva minestrone freddo, uno schifo, e i cinesini che vivevano nelle capanne venivano sempre a lamentarsi da me… (Pausa, mentre dal fondo degli occhi monta la luce fintominacciosa di un mostro pasticcione. Con vocione pasticcione ciccione.) Quand’ecco che arrivano… Quattro troie scozzesi! (Le pere scoppiano a ridere.)

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SOMMARIVA: Sommariva, quello stesso Sommariva escluso per così dire a divinis dalle accademie di ogni dove, che mai seppero perdonargli il peccato di gioventù di Infinitamente glande, canzonaccia goliardica incisa con un allora diciassettenne e mai abbastanza vituperato Valmarana, canzone nella quale un becerissimamente stereotipo e svanitissimo studente giapponese si incaponisce a rotacizzare le parole meno opportune, per il vile sollazzo di un gruppo di amici suoi brianzoli. Ah, quante volte desiderò il Sommariva di poter per magia riparlare allo spensierato se stesso degli anni ormai perduti, e lipallando pol lipalo ai suoi inculabili limpianti!…

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MILOŠ: Scrivere fino a morire. Come abbarbicato su questi scogli di carta, filando un’emorragia di inchiostro, un farnetico come… Tre persone fanno una seduta spiritica. Un uomo corre verso una parata di acrobati d’ombra. Scrivere fino a morirne. Nulla accade. Nulla accade. Quattro persone fanno una seduta spiritica durante una diretta radiofonica. Quattro o tre? Cinque? Chi è morto? Quando è stato il funerale? Non importa: non sanno chi chiamare, ma qualcuno bisogna pur chiamare. Perché non chiamiamo uno spirito qualsiasi? Uno spirito qualsiasi non esiste. Ahi, è un problema. Iniziano a contare a bocca chiusa, e ogni volta è solo uno dei quattro, o tre, o cinque che ascolta, e chiede chi sia lo spirito. “Ah” “Che hai? Perché ridi?” “Qualcuno mi sta facendo piedino” “Forse è il fantasma di un orango” “Allora potevamo chiamare il fantasma del mio cagnolino” “Com’è morto?” E allora sia: eccoli che evocano il fantasma del cagnolino, ricevendone tra guaiti e scodinzolii e scene da Rin-tin-tin (“Che hai Rin-tin-tin?” “Bau” “Non starai mica cercando di dirci che sai dove sono state nascoste le armi del reggimento?” “Bau” “O forse si tratta di bambini in pericolo?” “Bau” “Un attacco indiano?” “Bau” “Per Giove, vogliono uccidere il presidente?” “Bau” “Capitano, raccolga tutti gli uomini e seguite quel cane ovunque vada”) ricevendone tra bau bau e musi-musini una terribile rivelazione: la bestiola era morta per un non meglio imprecisato – interferenze ectoplasmatiche e difficoltà nel tradurre il linguaggio canino dell’aldilà impedendo una esaustiva decifrazione dei mugolii insinuatisi quasi nebula di allucinazioni uditive sopra il capo dei quattro o tre o cinque diciamo officianti radiofonici – errore di uno dei quattro (con mossa poliziesca e affatto gratuita, qui l’autore, peraltro suicida, passava sotto silenzio l’identità di tale colpevole, benché né ectoplasmi in quel momento impastassero la gola di Vork (tale il nome del cane fantasma) né altri messaggi ultramondani si interponessero tra lo spettro e il quartetto), il quale aveva poi mascherato tale morte o accidentale avvelenamento occultando l’animale in una valigia foderata con fantasia scozzese e in seguito “smarrita” su un treno diretto a Venezia.

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SOMMARIVA: Frammenti poi, come detriti di sfingi ormai perdute… Il famigerato trattato, o serie di trattati di Sommariva sul corpo del Virgilio dantesco, secondo il Nostro lievemente solidificatosi durante l’incontr con la Medusa alle porte di Dite. Come poteva coprire gli occhi di Dante, se non era che ombra? Potè perché non chiuse gli occhi e per un istante cedette alla magia nera della Medusa, semipietrificando l’ombra di cui era fatto. Come altrimenti avrebbe potuto prendersi Dante sulla groppa o portarselo in braccio su e giù per le malebolge? E poi… Sommariva tenta di calarsi di nascosto nella basilica neopitagorica di Roma seguito da uno sparuto manipolo di disorientatissimi “discepoli”, tutti immediatamente fermati e multati dai Beni Culturali… Sommariva teneva le proprie lezioni mentre un vecchio grammofono mandava musica charleston, talvolta coprendo quasi completamente la sua voce. Ma gli studenti di Sommariva non smettevano mai di prendere appunti… Nel presunto ma ben lungi dall’essere dimostrato delirio critico di Sommariva, il viaggio di Dante avviene mentre il Sommo sogna di essere stato per errore sepolto vivo. La progressiva morte del suo corpo suscita in lui la figura pertanto <sic> semicarnale ovvero semicarnea di Virgilio, lo sciamano che appare e scompare nella cassa di latta in cui Dante è incastrato. Tra gli altri altrettanto presunti abbagli di Sommariva, secondo chi scrive, che poi è sempre di nuovo Sommariva, secondo chi scrive comunque sia illuminzioni, l’idea che Virgilio e Dante traversino il centro della Terra calandosi non lungo le chiappe come vuole il volgo bensì attraverso la gola di Belzebù (seguiva una lunga e proficua digressione sugli affreschi agli Scrovegni e sul Cristo giudicante come allegorizzazione dell’uomo che si svuota le viscere nella ritirata. Così, pescando a casaccio, la critica nemica: «Nel suo famigerato studio sulla Medusa dantesca ad un certo punto Sommariva prende una direzione deragliante (altre direzioni del resto per lui non si danno): alla ricerca sempre più annaspante di un qualsiasi mito, fiaba, proverbio o chissà che altra antropologica festuca che desse notizia di una pietrificazione di spettri, Sommariva finì per impelagarsi nell’oceano dell’Africa subsahariana (o, secondo la pronuncia dell’impagabile Nostro, sussariana), confortato in questo anche dalle teorie per cui Dante aveva potuto mettere le mani su oscure mappe celesti para e peri equatoriali (formula che nei primi attendamenti attorno alle fortificazioni dei dantisti accorsi a difesa di Dante, di Virgilio e persino della Medusa e di tutti i Diavoli, gli valse il nomignolo di dott. Paraperi) redatte da astrologi egiziani e recanti notizia della Croce del Sud che alcuni vollero riconoscere nei quattro allegorici astri prepurgatoriali. E se, si chiedeva il Sommariva con un azzardo che non esitiamo a definire allucinatorio, e se con l’involto cartografico fosse finita tra le Somme mani del Sommo anche il racconto di una Medusa africana in grado di tramutare in pietra non i corpi bensì le anime di chi la guardasse? Occorre forse sottolineare che durante il confronto con la Gorgone Virgilio, proprio come l’anima nella concezione di molte tribù africane, si trova dietro Dante? Una posizione insolita, specie in frangenti pericolosi, e che ritroveremo solo pochi istanti prima dell’addio definitivo del mago al discepolo».

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TRUUT: Sono stata scelta per un incarico la cui difficoltà mi spaventa e nello stesso tempo mi fa insuperbire. Si tratta, in breve (non posso proprio parlarne in modo diffuso, ne va della sicurezza della repubblica), di stendere una serie di rapporti scientifici, per i quali è assolutamente necessario possedere una vista molto acuta: e, allo stato attuale, la mia vista ha una precisione che i miei capi definiscono sbalorditiva.

Per esempio, con le giuste condizioni atmosferiche sono in grado di distinguere chiaramente, in una comune piastrella per il bagno, microfossili non più grandi di un millimetro. Mi è stato spiegato che normalmente rintracciare simili microfossili richiede molto più tempo e dispendio di energie: occorre tagliare una sottile lastra di pietra e osservarla in trasparenza attraverso il microscopio. A me è sufficiente sporgermi dalla vasca da bagno e guardare le piastrelle del pavimento.

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SARAHS: Sistri di lontani lavori in corso, gli alberi dondolano come alghe sommerse sotto di me. Finora sono rimasta sorda all’architettura dell’appartamento in cui abito ormai da quasi un anno. Non però alla persona che viveva qui prima di me, della quale non resta nulla se non il ciarpame che ha lasciato qui e del quale non mi sono ancora liberata: un piatto decorato con il disegno di un gallo, una specie di sveglia in porcellana bianca, il quadrante dell’orologio circondato da cherubini capriolanti o bimbescamente pensosi, ombrelli di cotone e vecchi fogli di giornale che quando apro le finestre si alzano dal sommo degli armadi su cui erano stati sistemati, un grosso cacciavite che da quando sono qui continua a vagare senza pace da un cassetto all’altro, da una stanza all’altra. I fogli di giornale si alzano quando tengo le finestre aperte, come qualcuno che ne voltasse le pagine nell’altra stanza. È un rumore piacevole, tanto che si potrebbe pensarci come ad uno strumento musicale passivo, come le campane a vento. Simulazione della presenza.

Una serie di angoli e rientranze apparentemente ingiustificate aprono passaggi e meandri non meno minacciosi solo perché eventuali. Entrando, sulla destra, uno strettissimo, brevissimo e inumano corridoio mette su uno specchio verticale oltre il quale si dipana un nuovo stretto corridoio e, quando io guardo il contorno di una sconosciuta che mi guarda… uno specchio che non può avere altra utilità se non quella che può avere un lago sotterraneo, e che la strettezza del corridoio rende irraggiungibile. Se nessuno l’ha mai toccato, forse quello specchio ha conservato intatto l’incantesimo che affratella tutti gli specchi? Forse la sconosciuta che vive al di là del suo vetro la notte lo attraversa e viene a sbirciarmi dormire, sussurrando una ninnananna come un fruscio di giornale in cima a un armadio? Forse in una notte benedetta tra tutte la sconosciuta mi afferrerà per una caviglia e mi trascinerà con lei in fondo al corridoio, sotto il pelo del lago sotterraneo? È quasi come se non volessi abitare da nessuna parte, e temo sia così anche con le persone: non le abito ma per così dire scorro sopra di loro e basta, come uno spettro, alla ricerca di uno specchio che nessuno abbia mai toccato e dentro il quale sparire.

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SOMMARIVA: E di nuovo, senza pietà… «Risalendo lungo il corso ramificato e caotico dei suoi appunti (del più vario tipo: oltre a pagine di diario, note sul cellulare, annotazioni meticolosamente numerate su quaderni a quadretti, ci sono registrazioni audio, brevi video, alcune scritte sui muri e sul tavolo di legno di un bar scozzese sotto casa sua – per un primo avvicinamento al presso che gordiano problema della datazione di questi materiali, cfr. (…omissis…) – sembra che l’insorgere del disturbo nervoso di Sommariva (ché di altro non può trattrsi) sia da far risalire all’ascolto dell’incisione dei 19 notturni di Chopin eseguiti da Artur Rubinstein, nella quale incisione ad un certo punto Sommariva cominciò a distinguere un inizialmente tenuissimo ululato di vento, come di una tempesta di fine estate che venga a guaire da sotto la porta di una camera, ululato che ad ogni nuovo ascolto sarebbe cresciuto, a detta di Sommariva, fino a inghiottire ogni nota dei notturni di Chopin, sgretolando le mani di Artur Rubinstein come fossero grumi di sale.

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TRUUT: Socchiudendo gli occhi, poi, o strofinandoci contro i pugni fino a coprirli di un velo di lacrime, riesco persino ad imprimere una pulsazione nell’immagine dei fossili, tale da mettermi in grado di dedurre (e quindi descrivere) le abitudini di quelle infinitesimali creature preistoriche. Per la gran parte, i microfossili intrappolati nelle piastrelle del mio bagno hanno la forma di una chiocciola; il loro metabolismo (di questo sono assolutamente certa) rendeva le microchiocciole trasparenti e luminose; riflettendo su questa luminescenza, sono giunta alla conclusione che qui dove sono seduta ora ci fosse, un miliardo di anni fa, una fossa abissale.

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Si risvegliò infine su un treno in corsa verso Venezia, gli occhi traballanti dell’architetto, la vita le donne e gli orrori degli ultimi anni non più consistenti ormai del filo di fumo di una sigaretta.

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Le creature che emettono luce vivono di solito negli abissi.

(Continua il 22 dicembre)