Un anno fa moriva Gianni Celati. Nel corso di quasi quarant’anni ci siamo scambiati moltissime lettere. Questa qui sotto è dell’8 settembre 1986. La pubblico per ricordare lui e il suo modo di fare e di pensare, che per me sono stati e sono una guida sempre affidabile. All’epoca ci davamo il lei; soltanto dopo circa vent’anni abbiamo cominciato a darci il tu. [EDV]
Caro Enrico,
è necessario scrivere per “nessuno”, in modo da non sentirsi in dovere di convincere un altro a riconoscerci come esistenze umane significative. Tutti gli ammiccamenti delle parole (ormai le parole non dicono più niente, fanno solo ammiccamenti: guardi la Tv e legga i giornali) sono questo rituale per presentare noi stessi agli altri come esistenze umane significative, sperando nel loro consenso; il quale poi è soltanto “ciò che tutti si aspettano”, ciò che viene considerato “realtà oggettiva”, l’unica valida. Andrà bene per combinare delle truffe tecnologiche, ma non per scrivere; per scrivere è tutto il contrario.
Forse c’è un regalo nello scrivere “per nessuno”. Provare a scrivere per formulare delle domande, la cui risposta davvero cambierebbe qualcosa per noi. Non domande che pretendono una risposta pronta, maneggevole, da usare come un cacciavite o un apparecchio tecnologico. Queste domande non cambiano niente per noi, ammettono e accettano l’esistente, e lo danno per scontato. Io dico domande da cui davvero dipende la nostra vita e il nostro destino, e non domande che spiegano il mondo lasciando tutto com’è. Domande che è difficilissimo formulare (ormai non sappiamo più farlo, perché vogliamo solo risposte maneggevoli) e che ci lasciano sgomenti al solo pensiero di poterle un giorno formulare.
Non credo ci sia altro. La questione è che se si cerca il consenso dell’altro, se si pretende sempre di essere riconosciuti dagli altri come esistenze umane significative, letteralmente non si ha tempo di pensare a domande che sgomentino e che ci portino verso un luogo a cui da sempre eravamo destinati. Perché cercando il consenso, si è per sempre ignari del proprio destino.
Spero che la mia risposta non le sembri troppo seria e troppo pesante. È poco seria, perché pedagogica. La prenda come le pare, suo
Gianni Celati
Grazie per questa generosa condivisione, caro Enrico.