Il diciassette giugno 1983 Enzo Tortora, uno dei più popolari volti della tivù dell’epoca, viene prelevato in un hotel di Roma a causa d’un mandato di cattura spiccato dalla Procura di Napoli. È accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga e armi; sono stati due affiliati alla Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, Giuseppe Pandico e Pasquale Barra, a “pentirsi” tirandolo in ballo. Bianco e nero: faccia marmorizzata del presentatore su sfondo di carabinieri, giacca bianca, manette ai polsi. Una foto che, stampata nella memoria, ricostruisco visivamente come penso possano fare milioni di italiani. Tradotto a Regina Coeli Tortora vi rimarrà fino al quindici agosto; sconterà quindi la sua detenzione a Bergamo fino al 17 gennaio 1984 quando, per motivi di salute, cominceranno gli arresti domiciliari. Condannato in primo grado a dieci anni e sei mesi verrà poi assolto con formula piena il 19 settembre 1986. Dai 7 mesi di carcere pervengono le lettere scritte alla figlia ed il diario personale, raccolti in Cara Silvia (Marsilio 2003; oggi per Mondadori la vicenda si può rileggere tramite il racconto dell’altra figlia, la giornalista allora adolescente, Gaia, in Testa alta, avanti).
Il punto che emerge da subito con maggior forza – ovvio e quasi gridato, disperatamente ripetuto a sé e ai propri cari, quasi si dubitasse di fronte a tale inconcepibile spiegamento di forze avverse – è quello della propria innocenza:
Ormai sembra una lotta tra il potere e me […] Forse sarà lunga, dolorosa e piena d’angosce. Voglio viverle tutte senza sconti. […] Mi regge, feroce, la certezza della mia onestà totale. […] L’unica cosa che so è che sono innocente.
L’uomo solo, armato della propria coscienza, prima si rassicura, poi si sente pronto a resistere contro il nemico astratto, anonimo e preponderante (“il potere”), infine, irrobustito dall’offesa e dall’indignazione, cresce a sua volta di volume: “Su questo corpo ormai quotidianamente martoriato, è scesa una forza inaudita, una determinazione implacabile” (22 dicembre1983).
Offesa e indignazione crescono a contatto con la realtà carceraria: la gente che attende 6 mesi o un anno per gli interrogatori, il caldo umido e soffocante, la traduzione a Bergamo durata 7 ore senza bere un goccio d’acqua. L’ingiustizia del sistema, congenita e sconosciuta, del tutto indifferente a chi non la sperimenta, si concretizza in elementi di denuncia puntuali e circostanziati, che finiscono per sfigurare l’umanità stessa del detenuto. È il caso dei pidocchi che infestano le celle e che portano Tortora a radersi a zero, cosicché viene immortalato in tali condizioni ad uso pubblico dai paparazzi: “Davvero mi vergogno per avervi offerto un’immagine così debole” (22 luglio 1983). Si tenta allora l’oblio del sonno, tra “l’oscena omelette di voci televisive” (dal Diario), ma lo sfiguramento transita dal corpo fin dentro all’interiorità come rivela il sogno: “Ho sognato di far parte, comportandomi benissimo, di una banda di svaligiatori di appartamenti”.
La disumanità si nasconde nei dettagli, a volte ancora più insopportabili perché assurdi (le ore d’aria in un cortiletto affocato: “Un pozzo tra i muri. Gli orari, folli nell’estate: 13-5 e 17-8 perché non al mattino?”). I piccoli episodi e gli oggetti massimizzano l’efficacia delle micronarrazioni di Tortora; per esempio l’attaccapanni delle docce è un piolo caduto e mai sistemato, cosicché “chi può mette i pantaloni su una scopa”, se no lascia che i vestiti si immergano nell’acqua. Oppure “il cibo, portato dai familiari (altro che ristorante), viene messo in cassette di metallo reticolato”. O ancora “lo specchietto tenuto fuori dalle inferriate di sbieco, per vedere che succede nel corridoio”: oggetti di un universo con regole proprie, spesso straniate o capovolte.
A sostenere il detenuto la lettura a cui spesso si accenna (i filosofi stoici, Antigone, Cruciverba di Sciascia, l’Enrico IV di Shakespeare), ma soprattutto il rapporto con i familiari e l’idea di essere diventato un simbolo. Cominciamo dalla dimensione privata. La figlia Silvia, ventenne contestatrice, si riavvicina al padre, considerato fino ad allora – come confessa nell’introduzione – soltanto un compassato e abitudinario borghese. Ma il movimento è un reciproco sciogliersi dell’irrigidimento caratteriale e un accorciarsi delle distanze. La terribile sofferenza diviene cioè occasione di scoperta di un legame vero e solido (“Ci volevano le manette per scoprire che ci volevamo così bene?”, 25 agosto 1983), rimette in circolo le emozioni e i ricordi; soprattutto permette il fluire della parola (“Mi tornano sempre più care le immagini di te bambina. […] E mi chiedo quali ricordi hai tu, del tuo papà, che non mi hai mai detto”, 8 ottobre 1983). Il carcerato combatte oltre che per sé per consegnare un viatico alla giovane figlia: “E ti lascerò, vi lascerò l’immagine di un papà giusto e onesto” (3 ottobre 1983).
La lotta non si ferma tuttavia alla dimensione degli affetti domestici. Ben presto l’uomo di successo, che ha perso tutto, si trova nella stessa situazione di tanti altri uomini privi di libertà. A lui resta comunque la possibilità di appoggi illustri per la propria difesa e può farsi portabandiera (per esempio con la controversa elezione al Parlamento europeo) delle sofferenze dei molti e più deboli incarcerati (“[…] un poveruomo, senza nome e senza amici, può essere schiantato da una vicenda simile”, 27 settembre 1983). Di qui la presa di coscienza di un problema collettivo rimosso e la scelta di superare i limiti del proprio caso singolo: “[…] prenderò su di me questo che non è un fardello ma un compito alto e nobilissimo” (25 agosto 1983).
A Tortora sarà restituito l’onore e dopo il lungo calvario tornerà anche al suo lavoro. Una lettera del dopo segnala però che, al di là dall’essere ormai minato sul piano della salute, l’esperienza appena passata sembra aver distrutto la vita precedente. Forse il mondo luccicante e ipocrita della tivù viene visto ora con sguardo nuovo, forse per certe nature provate e sensibili non è più possibile gioire limpidamente quando gli ex-compagni di sventura ancora soffrono. Certo il distacco dal contesto dei media anni Ottanta e dal suo stesso personaggio assume tratti ben definiti e drammatici:
Io a certi riti non credo più. Mi danno, anzi, un fastidio immenso. Questo scattare flash a mitraglia, anzi, mi terrorizza e io mi accorgo di disprezzarli troppo per prenderli sul serio. Diciamo che faccio tutto in modo automatico, spento o forse troppo lucido. Sono contento per gli altri, i giovani. Quanto a me, proprio me ne fotto. […] Mi sembra (è una sensazione terribile) di essere abitato da un altro.
Tortora, nei mesi della detenzione, aveva avuto parole assai dure sull’Italia: “Questo, te lo confermo, è un Paese infame” (18 agosto 1983). Vi comprendeva certo, oltre ai magistrati napoletani su cui si farà un discorso a parte, la gran maggioranza dei partiti politici, “la stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo e ai circensi, aliena dai problemi veri e reali” e l’opinione pubblica in generale. Invidia, indifferenza, indiscrezione, morbosità, godimento verso la celebrità infangata, ingiustizia circondano il recluso con mura ancora più alte e spesse di quelle del carcere. Tortora accetterà la carica di parlamentare europeo offertagli dal Partito Radicale con tutte le polemiche conseguenti al suo status di attendente un giudizio definitivo e al precedente di Toni Negri fuggito in Francia attraverso tale espediente, per intraprendere un grande lavoro sulla revisione dei codici. La carcerazione preventiva, le lentezze del processo, la gestione dei pentiti sono i punti su cui si voleva battere. Tuttavia, anche per il sopravvenire della malattia, Tortora si dovette accorgere che il tempo giocava contro di lui. E, ancor più, che l’Italia stessa, nonostante l’enorme clamore del suo caso, tardava a reagire. Ecco quindi le considerazioni sconsolate: “In questo Paese non succede nulla: è questo che mi avvelena e mi dispera. Una a una, le speranze di una rigenerazione morale, se ne vanno” (3 dicembre 1983).
L’ultimo discorso va fatto sulle valutazioni del carcerato rispetto ai magistrati, individuati come i veri responsabili della sua situazione. In primo luogo per aver creduto ciecamente, senza le adeguate verifiche, alle parole dei primi pentiti e a quelle, ancor meno credibili, dei personaggi aggiuntisi in un secondo tempo. Poi per l’accanimento a portare avanti la macchina della tortura contro ogni evidenza, quasi fossero incapaci di fermare l’ingranaggio e operare gli opportuni distinguo. Di più era anche il modo ad offendere: dichiarazioni recise e supponenti, condotta di chi dispone completamente della vita altrui. Di qui l’accomunare gli accusatori nel palazzo a quelli in cella, giudicati tutti dall’alto di una superiorità che ribalta clamorosamente i ruoli (“[…] sul piano morale sono dei Pandico, dei Barra, dei Margutti. Dei calunniatori in toga”) e consente una grande fiducia nella propria lotta (“Occorre disarmarli. Lo faremo”, 5 ottobre 1983). Non di rado affiora il sospetto di una atavica disuguaglianza e corruzione del sistema (“Mia cara, non essendo generale e non trafficando in petroli so che sarà più lunga […]”, 25 agosto 1983); i “Pulcinella in toga”, come vengono più volte chiamati i pm di Napoli, solo con chi non ha le spalle coperte “firmano ordini e mandati come se scacciassero zanzare” (25 agosto 1983).
Il procedere vessatorio e nel contempo dilettantesco sfocia in orrore che ha, per di più, la sfumatura umiliante del grottesco: “comica parodia dell’inferno che è la giustizia italiana” (11 dicembre 1987). Da quest’ultima citazione appare però un’indebita generalizzazione all’intera “giustizia italiana”. Tale è il pericolo che corre l’io ingigantito dal giusto sdegno. Stante la condizione di vita dei carcerati, che è estensibile nello spazio e nel tempo quale problema generale, il protervo errore di singoli magistrati che hanno nome e cognome viene allargato a ciò che diventa “la corporazione degli arrestatori facili” (25 agosto 1983). Intanto a tutti i giudici napoletani (“Questa procura è il focolaio degli errori, dei crimini, dell’arroganza”, 17 gennaio 1984), che pure lo assolveranno, poi all’universalità stessa dei magistrati italiani: “Magistocrazia. Ecco sotto cosa viviamo. La paura ha spezzato ogni limite legale. Viviamo sotto Stalin, peggio di qualunque fascismo” (Diario). In un paese appena uscito dal terrorismo con un tributo di sangue offerto pure dai magistrati, che inoltre cadevano e continueranno a cadere sotto i colpi dei mafiosi (tra l’altro anche perché utilizzavano in modo accorto lo strumento del pentitismo), quelle parole aprono la strada alla prossima stagione di attacco indiscriminato alle toghe. Così “il caso Tortora”, la vita sacra della vittima, potrà diventare tanto l’emblema di una necessaria battaglia illuminista, tanto (purtroppo molto più spesso negli anni berlusconiani) lo strumento contundente brandito da chi aveva tutto l’interesse a salvare, con tale indebito richiamo ad effetto, la propria insalvabile condotta. L’Italia, “un po’ giardino e un po’ galera”, per dirla con De Gregori, vanta una storia unica di carcerazione politica testimoniata per via letteraria di epistolari e diari, dal Risorgimento di Settembrini all’antifascismo di Gramsci e ai condannati a morte della Resistenza. Tra garantismo e giustizialismo, riforme e controriforme della giustizia, che talvolta ricordano le grida e i procedimenti manzoniani, o gli arresti e il tribunale di Pinocchio, l’Italiano comune, come il testimone de Una storia semplice di Sciascia, tende a tenersi il più possibile lontano da birri, legulei, accusatori; e forse oggi ancor più dalla loro rappresentazione mediatica, che ripete, caricaturizza, mai porta un passo avanti, il problema.
Grazie.