Tre paiono i fatti dominanti della biografia di Saverio Tutino, di cui ricorrono oggi i cent’anni dalla nascita: la Resistenza, l’attività giornalistica di inviato, la fondazione di un archivio nazionale della memoria. Per ripercorrere tali momenti viene in soccorso l’autobiografia L’occhio del barracuda (Feltrinelli 1995). La famiglia è borghese e benestante: il nonno materno fu garibaldino e fondatore a Milano della società “L’umanitaria”, scuola per operai; una discendenza agricola padana, ormai urbanizzata ma ancora con solidi interessi curati dalla madre. La famiglia paterna era liberale, con il padre, professore meridionale e lettore di Croce, datosi ad affari complessivamente senza un duraturo successo. La prima infanzia fu francese, con un “vago senso di appartenenza a un destino comune” durante il fascismo, condito dall’entusiasmo per la conquista di Addis Abeba. Alcuni insegnanti del liceo milanese Berchet, “campo di esercitazioni alla vita” frequentato con e Lorenzo Milani, e soprattutto la frequentazione con lo zio Nino (Ettore Castiglione), di formazione anglosassone (aveva lavorato presso i Loyd a Londra), che lo porta a scalare in montagna, segnano l’allontanamento dal Regime. Castiglione era uno dei più importanti alpinisti tra le due guerre, che dopo l’armistizio organizza come sottotenente un suo gruppo partigiano nelle vicinanze della Svizzera, facendo sconfinare ebrei e oppositori quali Giulio e Luigi Einaudi; forse proprio per portare oggetti al nipote internato venne catturato, per poi fuggire senza equipaggiamento e morire nel marzo 1944 verso il Maloia. Tutino utilizza i diari dello zio (oggi pubblicati da Vivalda col titolo Il giorno delle Mésules), come quello del padre, quali fonti dirette; ma anche i suoi, che testimoniano durante il periodo dei Guf il definitivo allontanamento dalla mistica fascista, degradata a vuota retorica.
Nel 1943 Tutino si trova in un campo di addestramento ad Albavilla, sul lago Como; il 25 luglio niente tromba sveglia, ed è già 8 settembre, con casa a Luino e poi la fuga in Svizzera. Qui incontra un altro mondo, per esempio quel Giulio Seniga che racconta gli scioperi degli operai (“la fame aveva spronato in loro il coraggio civile”), a cui segue il lavoro per il Soccorso Rosso (portava pacchi per gli internati), poi la propaganda e il reclutamento tra gli studenti per il Partito Comunista, che lo aveva colpito per “l’efficienza dell’organizzazione”. Dopo diversi tentativi andati a vuoto finalmente ripassa in Italia per entrare nella Resistenza con il nome battaglia di Nerio; sarà nel Canavese e a Cogne, scrivendo sul giornaletto «Il patriota della Val d’Aosta». Nel comando della settantaseiesima Brigata Garibaldi, nata ad Ivrea il 12 marzo 1944 come distaccamento «Caralli», di origine biellese e resasi autonoma con l’ingente afflusso di giovani nell’estate, fu prima vice e poi commissario politico, tenne i rapporti con la popolazione civile, presiedette anche un tribunale partigiano, con il ricordo della condanna a morte di un compagno che aveva rubato ai contadini. Una ricostruzione sintetica ma più esaustiva del periodo si trova nell’introduzione alla raccolta di racconti partigiani La ragazza scalza (Einaudi 1975), uno dei suoi due testi di narrativa pura. Si ricordano le azioni della Brigata nella primavera del ’44 e le sensazioni, vissute in prima persona, dell’attesa dell’inverno “come uno spettro, che assorbe la ragione e le impone una determinata paura. Ognuno di noi si sentiva più solo, all’avvicinarsi dell’inverno; il pensiero piegava dolcemente verso una forma più chiusa di aspirazioni”, ovvero il tepore della casa e della famiglia, la speranza di un annuncio via radio che potesse fare tornare l’entusiasmo. Ciò perché “è semplice essere forti e coraggiosi in determinati momenti della vita: ma al partigiano si richiedeva questo per un tempo illimitato. Non si diceva : per due mesi, per tre, per sei, presterai il tuo servizio… Ricordiamoci che ognuno doveva sbrigare questo con la propria coscienza. Ognuno era un volontario”. A fronte poi dell’invito del generale Alexander a tornare in pianura si scatenò una forte discussione che vide protagonista il nuovo comandante Walter Fillak (Martin) nel tener duro per la lotta invernale (“quelli che rimasero parvero rinnovare la propria promessa, di persona, con la compostezza di individui che sanno bene quello che fanno”). Tutino ne ricorda anche le capacità di disciplinamento, organizzazione di reparti e distaccamenti, e coordinamento specie con i più quadrati reparti del biellese, capaci per esempio di intercettare grandi partite di stoffe grigio-verdi nemiche, tingerle e farle mettere a disposizione grazie al lavoro delle ragazze del Fronte della gioventù. Un colpo di mano tedesco, guidato da un traditore, permise però ai tedeschi di sorprendere l’intero gruppo dirigente nel febbraio 1945 nella zona di Lace; solo Tutitno, che era andato ad interrogare un prigioniero in una cascina distante un centinaio di metri, si salva fuggendo alla “luce di luna che si rovescia opaca sulla neve”, mentre alla sue spalle sente spari e vede alzarsi le fiamme dal paese. Per questo tragico frangente è significativo che l’autore, che già aveva dichiarato “ricordo col cuore, facilmente, quei giorni”, ricorra invece al proprio diario; i compagni saranno tutti giustiziati; a Martin stringono un cavo telefonico al collo, che si rompe quando il camion parte all’improvviso, facendolo cadere a terra; vanno a cercare un’altra corda e lo lasciano appeso un’ora e mezzo, per poi sparargli in pieno viso. Il suo lavoro di strutturazione non era passato invano ed infatti la Brigata sopravvive all’ennesimo rastrellamento, passando al contrattacco nel mese successivo. L’ultimo episodio di particolare tensione lo si rinviene invece dalla biografia quando, proprio con la guerra agli sgoccioli, il narratore fu mandato con pochi altri, forse apposta, dagli americani di Ivrea al paese di Castellamonte ancora occupato dai nazifascisti; bloccati nel camion vanno a parlamentare con un ufficiale tedesco che ha tutta l’aria di volerli passare per le armi, ma che alla fine riceve l’ordine di resa dal suo capo di Caluso e sbatte i tacchi davanti al telefono. Tragedia sfiorata, che termina in commedia, insieme all’ultima presenza armata di occupanti in Italia.
Il primo anno del dopoguerra vede un non raro squilibrio tra il ruolo ricoperto nella Resistenza e quello di “apprendista” nella vita civile, che comporta disturbi nervosi, insonnia, esaurimento e necessità di riposo in montagna. Una certa spossata apatia, per esempio a fronte della madre che tiene nascosto in casa un generale repubblichino, non denunciato dopo un colloquio, che se ne andrà tranquillo a svernare nella Spagna di Franco. In verità una cifra di disagio che sembra accompagnare una lunga e tormentosa adolescenza: “rimasi chiuso in me stesso senza riuscire a vedere chiaramente dentro di me”. Accompagnata dalla volontaristica e vana ricerca di una fidanzata, “acerbo, sognatore” vivrà una sequela di brevi, tormentate relazioni e susseguenti abbandoni, anche nei due matrimoni con Orsetta e Dulce, anche se molti assicurano di una fama di seduttore. Ma c’è un certo compiacimento nel descriversi non all’altezza, come uomo definito e padre presente, così come scrittore: i racconti vengono rifiutati da Vittorini, quando entra nella redazione del «Politecnico», e non apprezzati Pavese, e più tardi da Pratolini (casigliano a Roma, presso cui andava a vedere la televisione); “riuscii a deludere tutti” è una battuta riassuntiva del periodo e non solo.
Tuttavia la carriera giornalistica bene o male si avvia a «L’Unità» come inviato in provincia per seguire gli scioperi (ancora il dettaglio masochistico: colpito da uno sfollagente alla Montecatini) e a «Pattuglia», foglio del Fronte della gioventù di Berlinguer, conosciuto tramite il suo braccio destro Pecchioli, compagno di Resistenza. Ed anche le prime uscite dall’Italia con la delegazione giovanile italiana del Partito in Cina nel 1950 per il primo anniversario della Repubblica Popolare di Mao; con notazioni diaristiche sulla gente comune incontrata (“sorridevano come mossi da una molla interiore, non protocollare, ricordavano figure di elettricisti che si arrampicavano su tralicci o saltimbanchi che raggiungono altissime sbarre dei trapezi”) a fronte di dati e visite ufficiali, Un contrasto tra verità del Partito e osservazioni personali che perseguitano Tutino per tutta la vita, a cominciare dalla constatazione della povertà diffusa rispetto all’accoglienza per loro nella tappa in Urss verso l’Asia.
Le sue indecisioni personali – a «Vie nuove» Longo “mi fece notare che conversando con lui pendevo troppo dalle sue labbra. Quando dici una cosa, resti a guardare con ansia l’effetto che fai sul tuo interlocutore, questo non ti giova…” – e le riserve politiche (“Dopo la Resistenza il Pci non aveva detto niente di importante”, di nuovo alla “coscienza della gente”) continuano a rendergli difficile la carriera, senza decisivi avanzamenti e nemmeno sicurezza economica, dato che parte dello stipendio di giornalista finisce al partito: “faticosamente annaspavo alla ricerca di mio ruolo”. Non frequenta la direzione del partito, lo si vede poco a Botteghe oscure; nel 1956 come direttore di «Nuova generazione», scelto da Berlinguer, assume una posizione critica nel primo numero di novembre sui fatti Ungheria, cosicché in aprile è già licenziato per “atteggiamenti personalistici”. La svolta viene indubbiamente attraverso il contatto, rigenerante e fascinoso, con le “ventate rivoltose del Terzo Mondo”, a fronte della chiusura alla trasformazione che sente in Italia. Al «Nuovo contemporaneo» svolge inchieste sull’Algeria, nel 1958 è corrispondente da Parigi e la sua raccolta di testimonianze sarà usata poi da Giovanni Pirelli in Lettere dei condannati a morte della Resistenza algerina per Einaudi. Tuttavia la posizione dei partiti operai, specie proprio quello francese, è poco incline a fiancheggiare i movimenti terzomondisti; i suoi pezzi, percepiti come ostili a un partito fratello, si attirano le critiche di Pajetta e Amendola e una nuova revoca dell’incarico. Anche se in Libano confessa il “desiderio di farsi uccidere”, “modo astuto per mascherare il suicidio o meglio per avere il coraggio di attuarlo”, lo spunto per continuare altrove la giovanile spinta resistenziale continua, con la folgorazione per l’America latina.
Cuba rappresenta da prima ancora una fuga da sé e dal matrimonio in crisi, un nascondimento sotto un incarico utile per gli altri. Tutino vi arriva nel 1964, già alla fine del sogno utopico e dell’accamparsi definitivo del potere personale di Castro. Tuttavia molte sono le amicizie, le relazioni politiche, culturali ed anche amorose, le interviste, che fanno dell’isola un luogo dell’anima. Le diffidenze del regime e le discrete perquisizioni notturne, le incomprensioni in Italia per la sua vicinanza al cosiddetto spontaneismo del Che, di cui dal partito in Italia si diceva che “tra qualche anno nessuno ricorderà neppure il suo nome”, non annullano comunque la sensazione di una stagione di piena vitalità. Ne fa fede la messe di opere: L’ottobre cubano, (Einaudi 1971), Il Che in Bolivia (Roma Editori Riuniti 1996), Gli anni di Cuba (Mazzotta 1973), Il mare visto dall’isola. Racconti testimonianze e cronache di una resistenza (Roma Gamberetti 1998). Un amore e una conoscenza, allargate poi ad Argentina, Uruguay, Cile (Dal Cile esce per Mazzotta nel 1973), Nicaragua, sfruttate poi a «La Repubblica», per cui scrive dalla fondazione al 1986, e che gli valgono diffusa fama di agente castrista; ancora contatti con Piperno, Sofri e perfino emissari delle BR, e lavori precari per Feltrinelli.
Eppure il sottile malessere del ritorno italiano, per cui si sente “solo come un cane”, non cessa, nemmeno con le sedute psicanalitiche: “di me parlavo di sfuggita come un’inafferrabile trota nel torrente”. Sono anche gli anni del peggioramento della salute: l’intervento al cuore, la pancreatite, il ritiro dal giornalismo verso la campagna. Un riflusso di molti della stessa generazione, ma che vede invece un fecondo colpo di coda con l’intuizione di creare nel 1984 un archivio nazionale a Pieve Santo Stefano che accoglie ormai 8.000 testimonianze tra diari (compresi i suoi 19, tenuti dal 1969 al 1983), memorie, epistolari di persone sconosciute: “ricerca sulla vita umana”, cui seguirà nel 1998 la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari voluta con Duccio Demetrio. Si trattava di salvare dalla perdita un mondo individuale e sociale, con l’“impressione di riscattare cinquant’anni di frustrazioni patite nella ricerca della stessa cosa per un’altra via, quella di un’illusione, sempre delusa da se stessa”. Allora se il comunismo al potere fallisce sempre perché “è l’antitesi al potere”, la comunità degli individui che ricordano potrebbe essere l’ultima ed in parte pacificata risposta alle macerazioni personali e alle asprezze della storia.