Nella rivisitazione del passato si assiste spesso a due fasi successive: una prima rievocazione dei fatti, di solito compiuta a ridosso dell’accaduto autobiografico, quasi sempre ferma e generosa; una seconda che si sofferma in modo più cauto ed esteso sui meccanismi della memoria. Così anche nelle forme della narrativa partigiana si parte dai racconti decisamente schierati e nitidi, dai romanzi di Vittorini e Viganò, dall’etica distesa, seppur tragica ed esistenzialistica, di Fenoglio; quando viceversa si annuncia un punto di svolta e chi lo incarne al meglio? Proprio mentre Il partigiano Johnny sembra riaffermare la prima tendenza con una grandiosa opera postuma che appartiene tutta, benché monumento non finito e michelangiolesco, alla fase eroica del ricordo e del racconto, in contemporanea si fa strada un convincente esempio della seconda, I piccoli maestri di quel Meneghello che si è detto ammiratore dell’altra maniera da una distanza. Non si tratta qui di contrapporre un modello titanico e cieco ad uno più sottilmente smitizzante, perché sappiamo quanto in Fenoglio siano ben presenti tutte le ombre della Resistenza su cui con l’andar del tempo gli storici si sono esercitati (la violenza e le esecuzioni, le fratture ideologiche nel partigianato, i difficili rapporti con le popolazioni del territorio etc.). Piuttosto in Meneghello, fin dalla prima pagina, non si entra in medias res nella narrazione ma, tornando sui luoghi dove il protagonista aveva lasciato il parabello, si transita attraverso la cornice memoriale del dopo.
Il racconto fluisce per altro ricchissimo di particolari e aneddoti, come tipico nel maestro vicentino, e non mancano lunghe parti immersive del lettore nelle azioni e soprattutto nei dialoghi e nei pensieri dei personaggi; tuttavia ci si imbatte in segnali inequivocabili, per così dire meta-memoriali, a segnalare smagliature e opacità attorno a luoghi e persone impensabili in un romanzo della prima fase: “Qui la memoria mi fa uno sgambetto; non ricordo più dove fosse il capo, e quando e come saltasse fuori; anche il campo non me lo ricordo più bene, sarà stato press’a poco a metà strada fra l’Ortigara e la malga Fossetta […] Altro sgambetto della memoria; cadiamo, quei quattro ragazzotti che eravamo, fuori della mia memoria”. È insomma evidente che il narratore ricorda e ricostruisce a posteriori, talvolta senza accedere ad una verità indiscutibile, sua e di altri: “Quei giorni sono avvolti in un’aria di confusione; da allora ne parliamo, ne parliamo, quelli che siamo ancora qua, ma una versione ufficiale non esiste, il nostro canone è perduto, la cronologia è a caleidoscopio.”. A posteriori si può anche rinunciare, consci che la ricostruzione non avrà il medesimo valore dell’esperienza originale, definitivamente sfuggita (anche se per esempio incarnata in una persona): ““Il nome non me lo ricordo più, e tanto meno il cognome, e non li voglio cercare nei libri; anche la faccia è andata. C’è una gamma di colore a tre quarti di strada dal biondo verso il castano, c’è il taglio del viso, e l’impianto generale della corporatura, che era grande e forte. Il ragazzo non c’è più, sono restati questi rimasugli che lo rappresentano.”.
Se Meneghello è un esordiente della narrativa resistenziale, che ha assorbito il nuovo clima letterario degli anni Sessanta, diffidente verso certe ingenuità del neorealismo e portato piuttosto a sperimentazioni di vario tenore, che fa filtrare nella sua originaria vocazione memoriale già espressa nel capolavoro Libera nos a Malo, Calvino aveva invece alle spalle un’altra storia. Il suo esordio di scrittore, “nato alla letteratura attraverso la Resistenza”, era del dopo guerra con Il sentiero dei nidi di ragno, romanzo eccentrico per protagonista il punto di vista (il monello Pin), picaresco e avventuroso con un’inserzione ideologica (le riflessioni del comandante Kim) che non smentisce, ma semmai rafforza, il modello della prima fase narrativa. La memoria infatti è reinventata con fantasia sbrigliata in una vicenda senza soste, supremamente romanzata, e nello stesso tempo messa in riga sul piano etico e politico dal citato capitolo centrale. Proprio per tale pregresso (cui si possono aggiungere i racconti di Ultimo viene il corvo) il testo-manifesto di questa seconda fase della narrazione memoriale è Ricordo di una battaglia, pubblicato sul «Corriere della Sera» nel 25 aprile 1974, ed oggi nella raccolta postuma La strada di San Giovanni. Già dal titolo del racconto che si inserisce in un progetto, interrotto dalla prematura morte dell’autore ma sufficientemente organico, di scritti memoriali (la bellissima rievocazione ligure del padre nel testo che nomina la raccolta, l’Autobiografia di uno spettatore), appare piuttosto chiara la transizione di focus.
Il primo passo appartiene alla volontà più autocosciente che anticipa l’atteggiamento del Signor Palomar ne Lettura di un’onda (“Volendo evitare le sensazioni vaghe egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso”): “Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un’ora tra il buio e la luce all’aprirsi di quella giornata.” La precisione circostanziata si scontra con il “fondale di sabbia”, “il buio”, “pozze”, “sonno”, “grigio”, “fondovalle”; tutto uno sfondo all’insegna di una generale indistinzione, dell’opaca profondità di spazi ed anni, da cui bisogna forzare i ricordi fuori dalla loro tana “come anguille”, metterli a fuoco attivamente cosicché “si svegliano” e srotolano dalla “spirale del tempo”. Lenta e faticosa si dimostra la “marcia di avvicinamento” ai e dei ricordi, a partire proprio dalla marcia delle colonne per il bosco, alle quattro del mattino, verso Baiardo. Molte le similitudini, insistite le metafore a dire lo sforzo: “spiccicare gli occhi dal sonno” tra queste, perché la visione è centrale sia nella messa a fuoco a distanza sia nella coscienza di allora tra i partigiani (“E ci guardiamo passando, perché fa sempre uno strano effetto il vederci un reparto con l’altro”); visibilità ed esattezza valori da tramandare nelle Lezioni americane.
L’esercizio alla Palomar, spostato nella visione sul passato, focalizza punti di emersione del ricordo, come il momento in cui vengono slacciati con grande sollievo gli scarponi per non produrre rumore: quella sensazione apre di nuovo la strada allo schiudersi della visione, questa volta di sé che cammina guardando per il bosco in calzettoni di lana, e in seguito agli altri ricordi “come lo sgomitolarsi di un filo”, che è anche quello della narrazione. Resta però intatta la possibilità della confusione e dell’errore come nel caso delle cadute nella marcia, causate dalla pesante cassetta di munizioni che sbatte sule spalle e che potrebbero riferirsi a spostamenti avvenuti in altre giornate. Di nuovo un parallelismo: tra la claudicante e scivolosa discesa per il bosco e la “discesa nell’incerta memoria formicolante”, fino a toccare con le piante dei piedi lo stradone carrozzabile per Baiardo, saldo appoggio della memoria, “luogo preciso e a me familiare fin dall’infanzia”.
Una volta illuminato un ricordo preciso, visivo e vivente, “ecco che il buio comincia a diventar trasparente e a filtrare le forme e i colori”, e scaturiscono altre rimembranze; tuttavia si affaccia il nuovo pericolo della sovraimposizione “dei discorsi di dopo”, capaci di ricoprire “con la crosta sedimentata” quanto appena risvegliato e sorgivo. Resta perciò in agguato il rischio di sostituire all’originario un ricordo ravvicinato di quei tempi, con i suoi schemi ideologici e, a livello narrativo, i suoi stereotipi (l’incontro con una ragazza sfollata che osserva i partigiani: “Ecco che un ricordo di guerra e di giovinezza non poteva non portare con sé almeno uno sguardo di donna, al centro del paese assediato nel suo cerchio di morte.”), infine il suo stile datato. Di qui il timore di proiettare “una luce sbagliata, di maniera, sentimentale” che “non può dirci come erano davvero le cose ma solo come credevamo di vederle e di dirle”.
All’interno di tale ossessione per la distinzione rastremata, per la veridicità e la precisione, gli “strappi” del tessuto memoriale sono di certo una maledizione, perché non permettono di tracciare un quadro definito e completo, ma perlomeno non mentono, allentano la tensione fisica e morale del ricordante. E per altro rilanciano la dominante meta-memoriale su quanto del ricordo effettivo e della sua narrazione siano corretti, secondo le molteplici, impadroneggiabili, contraddizioni del meccanismo dialettico tra memoria e oblio: “Quello che vorrei sapere è perché la rete bucata della memoria trattiene certe cose e non altre: questi ordini che non sono mai stati eseguiti li ricordo punto per punto, ma ora vorrei ricordarmi le facce e i nomi dei miei compagni di squadra, le voci, le frasi in dialetto, e come abbiamo fatto coi fili, a tagliarli senza tenaglie.”
Calvino e i suoi restano in retroguardia ai piedi del paese di Baiardo, “alto, vicino e irraggiungibile”, cosicché non solo l’azione, ma perfino il senso privilegiato dall’interpretazione e dalla memoria, cioè la vista, è interdetto “in quel fondovalle da cui non si vede un bel niente”. Bisogna affidarsi all’udito per valutare prima il silenzio, poi i rumori dello scontro, infine le voci e i canti di vittoria; percezione fallace e influenzata dal desiderio che scambia Giovinezza per Fischia il vento: i partigiani che si sono slanciati verso le prime case fanno un brusco dietrofront prendendo la fuga lungo il torrente coperto dai noccioli e aspettando il buio della notte. Si apprenderanno più tardi dai superstiti le vicende dello scontro e soltanto allora il quadro si compone sensato ma attraverso ricordi di seconda mano: “Nella battaglia il ricordo di ciò che non ho visto può trovare un ordine e un senso più preciso di ciò che ho veramente vissuto, senza le sensazioni confuse che ingombrano tutto il ricordo.”
Questo racconto, che insiste sulla volontà e necessità etica della memoria, ma soprattutto ne sottolinea caos, incertezza, buchi e revisioni postume, si sostituisce al gioioso, fluente quanto irresponsabile narrare del Sentiero, e diviene allora simbolo della seconda fase dell’autobiografia resistenziale (nonché delle mutazioni di prospettiva dell’autore sullo scrivere). Una sorta di dilemma manzoniano tra “la memoria dell’immaginazione” e la memoria di pochi frammenti certificati, che finisce nel prevalere di una meta-memoria in cui la battaglia, per altro perduta, non può essere vista né davvero narrata.