La S della GIPSI esce alquanto ammaccata dopo il 1989. La solenne smentita della storia investe il più grande partito comunista d’occidente, che nella storia aveva sempre confidato. Una clamorosa, generalmente rinfacciata posizione “io sono ok, tu non sei ok” crea una preoccupante crisi d’identità risolta alla Bolognina con il cambio di nome, tipico dei criminali e dei transessuali commenta Marco Ferreri. Dentro l’ipertrofia del Bambino si nasconde ancora la superiorità morale del Genitore confermata dalla locale bufera chiamata Tangentopoli, mentre ora lo scopo è sedersi, pienamente riconosciuti, al tavolo degli Adulti (“io sono ok, tu sei ok”), con pari dignità. “Siamo uguali” si grida di qua, “ma diversi” ricorda il Berlusconi della discesa in campo contro la “sinistra illiberale” (poi, sempre e di nuovo, i “comunisti”). La GIPSI constata con orrore – fusione con il centro cattolico, scelta di leader improbabili – il voler rientrare a forza dentro il Discorso dell’imprenditore, quello orizzontale delle merci (anche culturali) tutte uguali se non nel prezzo.
Dopo cinquant’anni circa la camicia di forza che imbragava la politica italiana si stracciò e vennero alla luce le piaghe purulente e da sotto saltarono fuori i demoni ululando. Quando cade un ordine irrompono i barbari. Con alcuni altri amici la BDN andava, un giorno dei primi anni Novanta, ad assistere per goliardia a un comizio di Umberto Bossi. La prima cosa che li colpisce è il cupo entusiasmo d’una gente non abituata fino ad allora alle manifestazioni pubbliche: si stava formando un popolo che aveva fatto le prove generali nell’esplosione di Mani pulite e che pendeva dalle labbra del leader, proprio mentre quello, tradizionalmente aggregato, della sinistra, pur esistendo ancora dopo il lungo candeggio degli Ottanta, cominciava il suo irrefrenabile sbandamento senza punti di riferimento. Occhetto era quello che si vantava di leggere i libri Adelphi. Una lunga vacanza della figura politica, così desiderata e rimpianta per affidabilità, passione, visione costruttiva, e non tanto rimpiazzata dai magistrati, come si dice, ma dai comici: l’acido del riso versato su quel poco che restava. Loro, gli imbucati, leggevano appunto «Cuore» come la «Pravda»: il giornaletto verde di presa per il culo era una guida, le sue firme gli intellettuali da ascoltare, il sarcasmo l’ultima resistenza e nobiltà morale. Anche se per quanto li riguardava erano già allora inconfessabilmente insoddisfatti dal pensare che Andreotti e non la morte fosse considerato il vero male, e dal trovare prevedibili i bersagli, gli atteggiamenti e i gusti, dai loro stessi tondi occhiali giusti, dai cantautori giusti, dai registi giusti, dalla merda giusta. Stufa di esprimersi per vece pasquina e voce di lettere al giornale, la GIPSI uscì dalla soffocante comunità autoreferenziale prima del grosso dei lettori, per creare qualcosa di ancor più narcisistico e asfissiante, ma più a taglio proprio, come la BDN (Banda Della Nausea, ricordo).
Con orrore dovevano constatare che Bossi era l’unico in Italia ad avere un progetto politico. Allo spalancarsi neocapitalista reagiva con il rinserramento nella piccola patria etnica, quella delle facce e del dialetto che gli stavano intorno, e che li avevano sempre fatto sentire stranieri, certo; eppure stava inventando una mitologia tutta geografica e un linguaggio. Quest’ultimo, colorito ed espressionista fino all’oltranzismo, viene del resto deliberatamente rivendicato dal leader dionisiaco e ascritto al dna ruspante e terricolare del movimento: “la Lega è forza popolana, quindi usa immagini forti e iperboli”. La furia lessicale investe lo Stato e la sua capitale, gratificata, nel caso più gentile, dell’ormai classico epiteto assonanzato di “ladrona”, nonché le zavorre territoriali del meridione alla cui gente sempre ci si riferisce in termini di “parassiti, assistiti, falsi cassintegrati, falsi pensionati, impiegati pubblici nullafacenti che svolgono poi altre attività ignote al fisco e agli economisti di questo paese”, dice il capo nel suo libro sul federalismo. Gli stessi alleati sono soltanto compagni di strada mal tollerati, quasi sempre geneticamente diversi, con cui a priori non bisogna mescolarsi (“il problema della Lega […] è quello di essere distinta e distinguersi da loro”), in assoluta allergia per distese relazioni, vincoli troppo rigidi o partiti unici.
Quando Essenza, la ragazza più intelligente e meravigliosa della compagnia, dice che Bossi in fondo è anche un bell’uomo – magro, con dei muscoli allungati da lavoratore – accettano tutti l’irreparabile.
Mentre ci si baloccava volentieri con l’enfasi della liberazione dalle identità, l’identità nomade, foucoltiana e deleuze-guattariniana, “post-metafisica, intensa, multipla, che funziona all’interno d’interconnessioni”, per dirla con Rosy Braidotti, Bossi strillava alla platea che circondava la BDN: “Lombardi! Non importa che età avete, che lavoro fate, di che tendenza politica siete: quello che importa è che siete – e che siamo – tutti lombardi. Questo è il fatto realmente importante ed è giunto il momento di ricordarlo dandogli una concretezza politica.” A lungo sui muri cittadini l’eloquente ed onnipresente manifesto elettorale dei primi anni Novanta, con una Padania-gallina che sfornava le proprie uova d’oro direttamente nella cesta di un’obesa massaia insediata sopra la scritta “Roma”, peraltro assai spostata verso meridione.
Le falsificazioni storiche, fondate su vittimismo e rabbia (nonché sul marciume appena scoperchiato), accendevano dall’alto quelle facce perfettamente fisse attorno alla BDN e al palco, come nei cartoni animati quando la bacchetta di Merlino con la sua luce favolosa trasfigura in successione la schiera degli addormentati: “Io sono un uomo della Nord-nazione sottomessa, depredata, colonizzata” dichiarava a «Il Corriere della Sera» del 6 dicembre 1995. In copertina del libro-raccolta del 1996 dei suoi discorsi, Umberto Bossi appariva a mezza testa, nascosto da un braccio teso, indicante con l’indice un punto imprecisato, forse un tempo intravisto nella sua visione: “Non nascondiamocelo: è in atto la lotta tra Davide e Golia. I sogni dei nemici del popolo devono morire all’alba. L’alba federale.” Purtroppo per lui l’anarchica apertura per via giudiziaria dei possibili nel 1992, che aveva saputo incarnare nei suoi modi improvvisati e smargiassi, mentre la sinistra ufficiale la pativa senza idee, si chiude nel 1994 con l’avvento di Berlusconi. Stante la mancanza delle condizioni storiche per lo sfascio dello Stato nazionale, a differenza che nella vicina Yugoslavia, l’obiettivo, ora del federalismo, ora della secessione, viene spinto sempre più oltre al modo d’un miraggio per i fedeli riuniti in piazza, che comunque non se ne accorgono nemmeno. L’apertura in Italia, la “porca” Italia che, come nel 1948 al cuore ci ha ferito (U. Saba), è durata un paio di stagioni, per trovare rapidamente in Berlusconi il restauratore del vecchio ordine nelle nuove forme dell’imprenditoria sovrana. Con il 1994 si chiudono gli anni Novanta, diceva la GIPSI che aveva vent’anni nell’Ottantanove, e che con le letture furenti e gli amori universitari aveva di già terminato la propria formazione. Anche per il mondo l’appuntamento a qualcosa di nuovo daterà 11 settembre 2001.
– Hai presente quando alle elementari si andava all’“Ufo”? –
ANDREA – Piccolo paradiso dell’acquisto di libri, che poco ci interessavano, ma anche dello scambio 2 a 1 per il banco. Era tutto un rovistare sotto l’occhiuta sorveglianza del proprietario, alto su una pedana dietro il bancone come un Re ranocchio, tra scansie strapiene di Tex, Zagor, Diabolik, roba semiporno e soprattutto fumetti Marvel. –
– Perfetto. Da questi ultimi siamo stati catturati fino alle scuole medie e fino all’immedesimazione: Alessandro Tonolini era la Cosa, anche se non ne aveva affatto il fisico ma certo tendeva a rompere tutto, Lucio Bottazzoli, un mancino che effettivamente prendeva fuoco subito, la Torcia umana, Maurizio Galbiati, un vero intellettuale in erba che al liceo si sarebbe chiuso in stanza per mesi accendendosi una sigaretta dietro l’altra a tapparelle abbassate, Mr Fantastic; io, per gentile concessione degli altri che avevano scelto per primi, e con inopinato cambio di sesso rispetto alla saga dei Fantastici quattro, l’uomo invisibile del nostro affiatato quartetto. –
ANDREA – E tutto sommato, bisogna ora ammettere, la scelta coatta andava con precisione a battezzare il dato di carattere. Per altro eri riconosciuto, in nome delle primigenie e vaste letture, quale maggior esperto nel campo dei Super eroi. Classifica dei forzuti: 1° Thor, 2° Hulk, 3° la Cosa; il dottor Strange non aveva riportato in vita Gwen Stacey, fidanzata dell’Uomo ragno uccisa dall’arcinemico Goblin, perché ormai ad uno stato troppo avanzato di decesso, e così via sdottorando e inventando. –
– Va bene, per un sentimento nostalgico, per quei rinculi del sentimento che non fanno mai bene al morale, mi sono messo ad acquistare un po’ di raccolte nuove, così a caso con piglio turistico. Non l’avessi mai fatto: un’evoluzione stilistica incredibile, quasi disturbante sul piano visivo. All’ordine regolare dei rettangoli e quadrati che mi ricordavo, adesso corrisponde una dilatazione, oppure un repentino rimpicciolimento, una serie di formati diversi e cambi acrobatici di prospettiva. Soprattutto un’esplosione, come se il giornalino scoppiasse addosso al lettore. Qualcosa di simile alle grafiche dei giochi elettronici. In particolare I Vendicatori, tanto gremiti di figure rispetto alle storie dell’eroe solitario e così aggressivi nella frammentazione sparata addosso. Le scene di gruppo per interni – che condividono con gli X Men – occupano le due mezze pagine in continuità orizzontale con uomini mascherati sgargianti e metallici, ragazze ammantellate, figure tra l’umano e il bestiale sedute in poltrona o assiepate in piedi con le armi a riposo, piccole bolle di parole galleggianti attorno e irrelate rispetto ai parlanti, il vecchio Hank, tutto peloso, blu e muscolato sopra il grande camino; l’unico riquadro è un dipinto che ritrae alcuni componenti degli antichi Vendicatori. Ebbene tale folla in riposo è pronta ad animarsi (sempre nei trequarti alti delle due pagine senza riquadratura), senza che te l’aspetti, ad esplodere sbalzato verso il lettore in una sarabanda di corsa, volo eterogeneo di esseri multiformi, armi, deflagrazioni e colori. Mi son sentito vecchio. –
ANDREA – Giura! –
– E ho capito i nostri anni Novanta. Meglio del Bauman dello smantellamento politico dei confini e dei rapporti sociali che si può visualizzare nell’apertura degli spazi e nel trabordare rapido, aggressivo, colorato e multiforme delle merci. –
ANDREA – Certo, certo “la deregulation universale: l’indiscussa e assoluta priorità accordata all’irrazionalità e alla cecità morale della competizione del mercato, la libertà senza limiti garantita al capitale e alla finanza a scapito di tutte le altre libertà”. –
ESSENZA – Accelerazione di movimento dopo la stasi della Guerra Fredda, come nelle canzoni dei Nirvana, coperte di polvere sotto i calcinacci del Muro, nell’inizio di Underground di Kusturica con il bombardamento di Belgrado che spalanca le gabbie dello zoo liberando gli animali feroci per le strade. –