Il Silmarillion, grembo da cui scaturiscono non solo i romanzi di Tolkien ma idealmente gran parte dei romanzi fantasy, dimostra una vivissima attenzione ai luoghi e una vera e propria estasi nomenclatoria. Anzi lo spirito demiurgico di un autore mai come in questo caso, per interposta divinità (Ilúvatar e Ainur che siano), dà i nomi a tutte le creature, ma soprattutto ai luoghi che sono anche più numerosi delle specie originarie. Un intero capitolo, come il 14, descrive per esempio i luoghi del Beleriand dove si distribuiscono le varie famiglie degli elfi. Il luogo si pone all’interno di una griglia oppositiva, tanto elementare quanto decisiva per un mondo primigenio, fatta di luce/ombra, fertilità/sterilità, apertura/chiusura in chiave difensiva etc., ma conta soprattutto perché abitato e incessantemente attraversato dai movimenti delle creature in via di migrazione, stanziamento pacifico o di conquista. Di conseguenza non c’è opera del fantasy che non richieda alla mente del lettore uno sforzo di visualizzazione e di memoria riguardo a personaggi, popoli e luoghi; dunque non c’è lettore di fantasy che non esiga una carta del territorio romanzesco, posta all’inizio o alla fine del romanzo, per potersi ambientare e quindi orientare.
“La Geografia è immitatione del disegno di tutta la parte conosciuta della Terra… Et è differente dalla Corografia, percioché questa, dividendo i luoghi particolari, gli espone separatamente e ciascuno secondo sé stesso; et insieme descrive tutte quasi le cose, ancorché minime, le quali in quelle parti o in quei luoghi che ella descrive son contenute, sì come sono i porti, le ville, i popoli, i rami che escono da’ primi fiumi e l’altre cose simili a queste. Là ove proprio della Geografia è dimostrar tutta in uno e continua la Terra cognita, com’ella stia di natura e di sito, e si stende solamente fino alle cose principali, sì come sono i golfi, le città grandi, le nationi, le genti, i fiumi più celebri e tutte quelle cose che in ciascuna specie son più notabili. Il fine della Corografia è di rappresentare una sola parte, sì come chi imitasse o dipingesse un’orecchia sola o un occhio. Ma il fine della Geografia è di considerare il tutto in universale, alla guisa di coloro i quali descrivono o dipingono tutto un capo.” Come ben spiegato dal passo della Geografia di Claudio Tolomeo, siamo di fronte a uno spazio articolato e interconnesso e dunque il lettore di fantasy mette un segno tra le righe e dà un’occhiata di controllo alla carta tanto più che si addentra in una tipica opera-mondo nel suo senso più proprio, cioè quello geografico, che è appunto la dominante prima del genere. Un mondo la cui geografia, che non ha mai appreso prima, nemmeno nei soli rudimenti scolastici, deve imparare da zero. Ecco perché, oltre alla tolkienpedia, si trovano in rete molte carte dei territori del fantasy, né mancano nelle live.
Il primo approccio geografico consiste nella perimetrazione dello spazio grazie a unità di misura matematiche che troveranno puntuale rappresentazione cartografica: “di questo Egitto la regione costiera misura in lunghezza 60 scheni, secondo quanto noi giudichiamo sia l’Egitto, cioè dal golfo Plintinete fino alla palude Serbonide, lungo la quale si protende il monte Casio: da questa palude dunque ci sono 60 scheni. Quanti infatti fra gli uomini hanno penuria di terra, misurano la terra ad orge; quanti hanno minor penuria di terra, a stadi, mentre quelli che ne hanno molta, la misurano a parasanghe, e quelli che ne hanno in misura sterminata, a scheni. La parasanga vale 30 stadi, e ogni scheno, che è una misura egiziana 60 stadi. Così dell’Egitto la regione costiera sarebbe di 3600 stadi”. Così Erodoto, greco di Alicarnasso, nella prima descrizione esotica de Le Storie (II, 6), cui seguiranno quelle della Scizia e della Libia nel quarto libro o la misurazione della strada che da Sparta conduce ai domini asiatici del Gran Re (V, 52).
Dopo aver scontornato il territorio dell’Egitto, Erodoto comincia a caratterizzarne l’interno: fino a Eliopoli “è largo, ed è tutto piano e acquitrinoso e melmoso”; stretto da Eliopoli verso sud: “Da una parte infatti si stende la catena montuosa dell’Arabia che va da settentrione a mezzogiorno” (II, 7). La geografia fisica dentro ai confini, estesa su carta, serve la percorribilità; ed ecco l’attenzione per la lunghezza e le caratteristiche delle vie di comunicazione, strada di terra (“nera e friabile” o “rossiccia dal fondo piuttosto sabbioso”, “piuttosto argillosa e dal fondo alquanto roccioso” V, 12) o fluviali come il grande Nilo su cui il cronista si dilunga in splendide pagine che fondono lo spazio con il tempo di navigazione calcolato in mesi. Fino ad arrendersi all’impossibilità di rinvenirne le fonti: destino doppiamente bizzarro per uno storico.
Erodoto, come i sapienti delle opere fantasy, come Gandalf che ha battuto in lungo e in largo la Terra di Mezzo, è un dotto lettore di libri, un ascoltatore di testimonianze ma pure un viaggiatore che ha cominciato a vedere il mondo attraverso l’esilio della famiglia a Samo, per spingersi poi nella Grecia settentrionale, ad Atene, in Italia, in Persia e appunto in Egitto. Come Ged, il mago e uomo d’azione tra gli arcipelaghi della Saga di Terramare, Erodoto è un geografo da tavolino e da spedizione: “Da nessun altro potei venire a conoscere alcunché, ma solo tant’altro potei sapere, stendendo le mie ricerche il più lontano possibile, e andando a vedere di persona fino alla città di Elefantina, da qui in poi invece attingendo informazioni solo per sentito dire” (II, 29).
Conoscere le antiche storie, i luoghi, per curiosità, per la necessità di difenderli, captando in anticipo le voci con atteggiamento mercuriale: Gandalf è in primis un ascoltatore; anche di ciò che non si sente. Eppure Erodoto dichiara di non poter attingere le fonti geografiche del grande fiume, né le fonti orali o scritte che lo definiscano; questa nostalgia per l’inafferrabilità dello spazio totale rivela un altro tratto tipico del fantasy: ancora di Ged relegato infine in una piccola dimensione domestica o degli elfi sospirosi per un altrove che sta nella tradizione cantata o nel sogno collettivo.
Il lettore di fantasy, che fa esperienza di un mondo completamente sconosciuto, condivide con l’autore demiurgo la creazione attraverso una creazione secondaria parallela e guidata. Eppure la vastità primordiale scaturita da Ilúvatar, le distese pianeggianti a perdita d’occhio dei Dothraki in Martin o l’Oceano aperto che si estende nell’Orizzonte est di Le Guin sfumano con amarezza nell’inattingibile. Il fan del fantasy si picca di conoscere quanti più nomi delle più varie plaghe, dove si trovano, chi li abita ora e chi li ha abitati, ma non può sfuggire alla malinconia del non conoscibile causata dall’intrinseca smisuratezza del genere. Una minuzia cartografica da esploratore si accompagna dunque nel lettore di fantasy ad un “disio” romantico che non può mai trovare piena soddisfazione.
Dal punto di vista romanzesco risulta piuttosto chiaro che la cornice geografica e i pur affascinanti luoghi devono preludere alla presenza di esseri viventi: “J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses / Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan! / Des écroulements d’eaux au milieu des bonaces, / Et les lointains vers les gouffres cataractant!”. Dal canneto, semisommerso sul fondo, deve insomma aprirsi l’occhio smeraldino di un mostro, come scrive Rimbaud, delle creature si dovranno stagliare tra le creste di montagne impervie, o uscire dalle loro viscere, se no, prima o poi, alla natura stessa toccherà di animarsi come le foresta di Tolkien. Così in Erodoto si incontrano, nel vasto spazio perimetrato, le città di Eliopoli, Menfi, Marea, Elefantina, Meroe, Dafne etc. etc. in una litania sonnambolica di nomi che evocano visioni. Le architetture fantastiche, che tanto hanno appassionato autori come Marcel Schwob o Clark Ashton Smith da offrirle disabitate ai propri lettori, prevedono la mano degli artefici, a loro volta infinitamente vari e misteriosi: “in molte cose hanno costumi e leggi contrarie a quelle degli altri uomini; presso di loro le donne vanno al mercato e commerciano, gli uomini invece standosene a casa tessono; e, mentre gli altri tessono spingendo la trama all’insù, gli Egiziani la spingono all’ingiù” (II,35). E i sacerdoti si rasano il cranio, la scrittura è incomprensibile, mangiano cibi impastati con i piedi, conservano i gatti nelle tombe.
“Nelle parti settentrionali del mondo, Melkor in ere passate aveva drizzato Ered Engrin, i Monti di Ferro, barriera a difesa della sua cittadella di Utumno… A ovet di Thangorodrim si stendeva Hísilómë, la Terra di Bruma… A occidente del Dor-lmin, di là dalle Montagne Echeggianti, che a sud del Fiordo di Drengist si prolungavano nell’entroterra s’apriva il Nevrast… A sud di Ard-galen, il grande altopiano denominato Dorthonion si estendeva per sessanta leghe andando da ovest a est…” etc. etc. (Il Silmarilion) capitolo 14.
Erodoto delimita lo spazio, lo descrive, e racconta, tra accuratezza e fantasia, del brulicare multiforme dei popoli con la propria storia; ma tutto ciò, che per altro con tutta evidenza enormemente lo interessa, non è infondo che un preludio: arriva poi la conquista dell’Egitto da parte di Cambise. E quindi la lotta del suo successore Dario con gli Sciti e del satrapo Ariande contro le città libiche, fino all’epico scontro tra Persiani e Greci.
Perciò il lettore di fantasy attende la guerra. Il male stava già, con la nota stonata di Melkor (futuro Morgoth), nel perfetto concento della creazione del mondo. Il lettore di fantasy si aspetterà da un momento all’altro che l’ombra riappaia o che si allarghi e dilaghi con forza irresistibile; senza dimenticare che gli elfi diasporici del Valinor hanno massacrato ad Alqualonde i loro confratelli Teleri per rubargli le bianche navi e che la Pace del re è sempre una pace armata tra i Sette regni. La guerra è la maledizione originaria che grava con oscura necessità sul lettore di fantasy; egli fin dalla prima pagina è pronto a scendere in battaglia, per muovere armato a fianco dei suoi eroi dentro lo spazio geografico a ciò preparato.
Ancor più delle Storie di Erodoto è allora l’Anabasi, scritta dallo spartano Senofonte, a ristabilire la proporzione tra geografia e guerra che pare adatta al romanzo fantasy. Come noto si racconta nel primo capitolo dei diecimila mercenari, provenienti da varie parti della Grecia, che si erano messi al servizio di Ciro il Giovane in vista di una coperta guerra per scalzare dal trono il fratello Artaserse II. Alla morte di Ciro nella battaglia di Cunassa del 401 si sviluppa il cuore del racconto: l’armata, sempre combattendo attraverso il territorio nemico, procede nella faticosa marcia di ritorno (capitoli II-IV) verso la patria, le ancora infide colonie lungo il Mar Nero (V-VII). Qui ci interessano soprattutto le basi geografiche del viaggio-combattimento: lo spazio vasto, evidenziato dal narratore secondo la già incontrata misurazione: “Il percorso complessivo della spedizione tra andata e ritorno è stato di 1115 parasanghe pari a 34.255 stadi, distanza percorsa in duecentocinquanta tappe” (VII 8).
Secondo elemento di fascino dal punto di vista dell’esotismo geografico e della tensione narrativa è l’ambiente ostile, inteso dal punto di vista fisico ed antropico insieme. Falino, inviato a parlamentare con i Greci da parte di Artaserse, lo dichiara esplicitamente: “Il Re pensa […] che voi gli apparteniate perché vi trovat in mezzo al suo territorio intrappolati tra fiumi che non si possono attraversare, senza contare che può lanciarvi contro tanti di quegli uomini che non riuscireste ad ammazzarli neanche se vi desse lui il permesso.” (II 1).
Ma cosa c’è di più consono al lettore di fantasy che porsi al fianco di Senofonte, stretto ai guerrieri marcianti con assoluta determinazione e pieni di risorse d’astuzia, in territori sconosciuti e selvaggi, fuori misura quanto a catene montuose e corsi d’acqua, nonché pullulanti di nemici tutti da catalogare?
Se non diffusa e approfondita al modo di un Erodoto, la curiosità del narratore riguarda innanzitutto le caratteristiche militari degli avversari che via via s’incontrano. Così i bellicosi Carduchi, abitatori dei monti, e probabilmente coincidenti con le attuali popolazioni curde: “Come arcieri sono eccezionali: hanno archi da tre braccia e frecce che misurano più di due; tirano il nervo appoggiando in terra l’arco e tenendolo con il piede sinistro. In questo modo le frecce hanno una tale forza da trapassare gli scudi e le corazze” (IV 2). Dei Chalibi viceversa, più che l’abilità, si rendiconta con precisione l’armamento sottolineandone quindi la barbarica crudeltà: “Indossano corazze di lino che arrivano al basso ventre e a queste sono attaccate, al posto delle piastre addominali, delle funicelle ritorte molto fitte. Portano anche schinieri ed elmo e un pugnale alla cintura che somiglia alla daga spartana con cui sgozzano l’avversario abbattuto e dopo avergli tagliato la testa se la portano in marcia e cantano e danzano mostrando le teste mozze ai nemici” (IV 7). E poi ancora Macroni, Teochi, Mossineci nel canto epico del ritorno armato.
La società del fantasy è tutta dei guerrieri (e delle guerriere), che a fatica si capisce come si alimenti. La terra del nostro periodo medievale è divisa in mansi, giornate, solchi o are, che si riferiscono sempre al lavoro della famiglia contadina, alle tecniche e ai sistemi agrari; ma nel fantasy contano i sacerdoti e i guerrieri non i villani.
Forse un antico retaggio della mitologia nordica che presenta “due gruppi divini”, Asi e Vani, di cui i “più ragguardevoli”, secondo Georges Dumezil che li ritiene complementari in una struttura religiosa e non forme di successive epoche storiche, Odhin, Thôrr e Njördhr, Freyr, Freyja. Questi ultimi sono “prima di tutto dei ricchi e dei dispensatori di ricchezze, patroni della fecondità e del piacere (Freyr e Freyja), della pace anche (Freyr), e sono legati, topograficamente e economicamente, alla terra che produce le messi (Njördhr, Freyr), al mare che arricchisce i naviganti (Njördhr).” Odhin e Thôrr “hanno altre cure. Nessuno dei due, certo, si disinteressa della ricchezza né dei prodotti del suolo, ma, al momento in cui la religione scandinava ci è nota, i centri di gravità della loro azione sono altrove: l’uno è il mago sublime, signore delle rune, capo di tutta la società divina , patrono degli eroi vivi e morti; l’altro è il dio dal martello, il nemico dei giganti a cui il suo furore, talvolta, lo rende simile”.
Nel Trono di spade ci sono le libere città costiere che vivono di commerci, ad Approdo del Re, capitale dei Sette regni, affluiscono carri e carri strapieni, specie quando si svolgono tornei, ma non si capisce da dove provenga tale ben di dio; una delegazione di pacifici contadini e di artigiani va per una volta da Eddard Stark, vicario del re, a lamentarsi per le scorribande attribuite a un feudatario dei Lannister, poi di nuovo l’oblio di mille pagine. Una società di guerre orizzontali tra pari o tra razze dunque, astraendo tra il Bene e il Male, mai una sommossa verticale dal basso all’alto; di qui si presume il principale sospetto della mentalità progressista per il genere.
La produttiva e prospera contea degli hobbit è troppo sonnolenta per il lettore di fantasy, che subisce la fatalità dello scontro e, nel contempo, lo richiama per abitudine del genere: egli ha sempre sulle labbra il nome di Thor che, secondo l’Edda, appena pronunciato senza prudenti perifrasi, lo fa apparire all’istante. I protagonisti del fantasy non si allontano dai poveri villaggi della fiaba per arricchirsi o sposarsi bene, se ne vanno per noia, strappati o attirati nella geografia del mondo grande dove la guerra è inevitabile in quanto il male sta accampato da sempre tra gli dei e tutte le sue creature.