Enrico De Vivo
Venticinque anni fa, in Racconti impensati di ragazzini (Feltrinelli, 1999), prendendo spunto dai temi dei miei studenti che gli avevo sottoposto, Gianni Celati parlava di «cerimonia gratuita dello scrivere», aggiungendo: «lo scrivere mi sembra un’attività cerimoniale, perché ha qualcosa dell’ascolto oracolare, l’ascolto di voci enigmatiche, che non si sa da dove vengano»; ma è anche una cerimonia un po’ folle, come ad esempio in Robert Walser, una sorta di parodia di tutte le pose retoriche ufficiali. Ora arriva il tuo libro e dichiara fin dal titolo: Poche cerimonie, che ribadisce l’aspetto rituale, ma mi sembra alluda anche al venir meno di molti alibi.
In diversi passaggi del libro fai riferimento alla “serietà” a cui sembra condannata la letteratura, relegata a contesti decorosi e ufficiali come i riti delle presentazioni, dei premi, della pedagogia scolastica, delle riviste più o meno accademiche che servono solo per far carriera. Tale serietà – mi sembra di capire – costituisce il vulnus più grave che contribuisce alla sua esclusione non solo dall’orizzonte culturale medio, ma soprattutto da una fruizione libera e disinteressata che più di ogni altra (scuola, università, fama) può dare piacere e aiutare a vivere. Puoi aggiungere qualche dettaglio ulteriore a questa idea di “serietà”?
Walter Nardon
Negli ultimi decenni lo spazio per la letteratura si è ristretto e oggi questa sembra incidere in misura inferiore nell’interpretazione di ciò che ci circonda rispetto alle creazioni del mondo audiovisivo e digitale. Parlando di qualcosa che gli è successo, è più facile che un interlocutore citi una serie tv o perfino un podcast, più che un libro: questo accadeva già vent’anni fa con i film e i telefilm, ma oggi succede in misura incomparabilmente più diffusa e capillare, dato che ognuno di noi ha in tasca uno smartphone. Poi non è detto che il riuso di un libro, nella coscienza dell’interlocutore, non faccia più il suo corso. Il fatto però che lo spazio riservato alla letteratura si riduca prevalentemente a quello dell’ambito scolastico e accademico dice qualcosa sulla sua condizione. In queste sedi la letteratura si è fatta più seria perché da una parte ha a che fare con l’apprendimento, le verifiche, i tanti problemi che affliggono la scuola; dall’altra, in università, venuta meno la speranza in una “scienza dei libri”, le cose si sono complicate: al fine di trasformarsi in una vera professione lo studio deve mimare la serietà delle discipline scientifiche volta a ideare progetti di ricerca dotati almeno di una minima possibilità di finanziamento (e saggi a loro corredo che si nutrono di sovrainterpretazioni e che sono sempre meno letti). Tutto questo allontana dalle ragioni della pratica letteraria.
Quanto ai volumi promossi in libreria, ho l’impressione che la letteratura dei grandi numeri debba in primo luogo consolare e poi confermare ciò che si suppone sia l’opinione comune intorno alle buone azioni e al bene. Non si può certo dire che si tratti di una novità perché nel corso della storia si è spesso chiesto alla letteratura di divertire e di educare, ma in questo caso le si chiede di non opporre resistenza e di insegnare qualcosa di già dato, senza farlo sorgere con parole nuove in una lettura complicata, ma confermando semplicemente le aspettative del lettore e restituendogli un po’ di riconoscimento. In questo modo la letteratura si riduce a mero compito illustrativo, mentre dovrebbe cercare di portare in luce qualcosa di nuovo. Non tanto le soluzioni ai grandi misteri della nostra storia, quanto ciò che di noi stessi non affrontiamo, o che diamo per scontato, come la nostra conoscenza sensibile, che in un libro riuscito assume sfumature inedite.
Enrico De Vivo
I riferimenti autobiografici sono spesso il punto di partenza per le tue osservazioni sulla lettura e sulla scrittura, e il tuo libro viene presentato nel risvolto di copertina come “saggio narrativo”, definizione non così frequente per il panorama editoriale, assuefatto ormai alla saggistica letteraria intesa per lo più in senso accademico (e al romanzo inteso come prodotto d’evasione o di megafono dell’attualità). Vuoi spiegare la connessione – immagino decisiva, a maggior ragione per te che sei un narratore – tra racconto e saggio?
Walter Nardon
Sì, tradizionalmente i saggi letterari assumono una veste più seria, anche se è vero che negli ultimi anni alcuni studi hanno cercato di orientarsi perfino troppo verso il lettore. Un tempo le cose andavano più o meno in questo modo: lo studioso dava per scontata la tradizione, ne assumeva arbitrariamente una parte come oggetto di approfondimento e scriveva un contributo che la illuminava; il critico – che è uno scrittore – da un punto di vista personale e con vari interventi riformulava costantemente questa tradizione; poi c’era lo scrittore, che in quanto lettore esperto, cercava di portare un contributo alla definizione di un problema. Oggi i piani sono meno chiari, tendono a confondersi, ma le attitudini rimangono diverse. Se posso rispondere in questo modo – con i miei mezzi e limiti – credo di essere un buon lettore, se non per numero di libri (c’è chi divora interi scaffali), per intensità di lettura. E credo che il tono colloquiale di un saggio narrativo contribuisca a ridurre all’essenziale un’altra cerimonia, quella con cui di solito si parla di letteratura. Nel libro la riflessione parte da episodi personali che racconto e che riguardano il modo in cui mi sono trovato ad affrontare varie questioni relative a leggere e scrivere, come il rapporto fra oralità e scrittura o la motivazione dell’attività letteraria, o ancora l’apprendistato.
Enrico De Vivo
Oggi – scrivi – «si è persa in parte l’abitudine alla lettura intensiva» e il testo, direi anche con la complicità degli aggeggi tecnologici, è diventato «uno strumento orientativo», mentre fino a qualche decennio fa aveva anche l’autorità, oltre che l’autorevolezza, di dirci quasi tutto quello che potevamo sperare dalla sua lettura. «Ma orientarsi non basta. – scrivi – Decifrare noi stessi e il mondo richiede maggiore attenzione». Allora è vero che i cellulari e gli strumenti tecnologici hanno ucciso la lettura e la letteratura? Abbiamo finalmente un colpevole… Al di là delle battute, però, resta il fatto che è sempre più evidente il fenomeno di chi «in età adulta non capisce quello che legge» forse proprio a causa della dominante considerazione “orientativa” dei libri.
Walter Nardon
Secondo gli storici, la lettura intensiva è quella concentrata, raccolta e dedicata a un corpus limitato di libri che si leggono e rileggono: libri religiosi o, in letteratura, trattati quasi come se lo siano. Pensa alla devozione per i grandi romanzi dell’Ottocento, ma anche a quella per Joyce o Proust; gli autori del secondo Novecento, che forse soffrono il confronto con quelli della prima metà del secolo, ne hanno suscitata meno. I dati sulla lettura non sono così scoraggianti, ma si tratta di una lettura di un gran numero di libri lavorati in modo da sembrare sempre meno scritti. La diffusione dei mezzi digitali, soprattutto degli smartphone, ha favorito una scrittura affrettata (affidata talvolta al completamento automatico) e una lettura che vorrei dire orientativa perché somiglia allo sguardo che un tempo gettavamo su una cartina quando arrivavamo in una città conosciuta solo di sfuggita: serviva per capire la giusta direzione, non per conoscere le strade che percorrevamo. Ecco, mi sembra che questa modalità di lettura oggi si sia decisamente diffusa. Dato che appare sempre provvisorio, il testo ha senza dubbio perso un po’ di autorità. Scherzando, direi che Il piacere del testo, ma anche Come un romanzo, sono nati in tempi che avevano meno a che fare con una scrittura e una lettura di questo tipo. Noi invece ce le troviamo davanti ogni giorno.
Enrico De Vivo
In Poche cerimonie trovo una grande curiosità, insieme a giudizi non proprio espliciti ma chiari intorno alle questioni che intrecciano la narrazione, la scrittura e la tecnologia. Ci sono alcuni riferimenti anche all’Intelligenza Artificiale. La tua formazione letteraria e filosofica quanto influisce e a quanto ti serve per interpretare un fenomeno come l’AI (che a detta di tanti sconvolgerà non poco il nostro mondo a breve) in relazione alle attività di leggere e scrivere?
Walter Nardon
Il libro si apre su una domanda inevitabile: che ne è della scrittura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ossia nell’epoca in cui la macchina ha imparato a generarla autonomamente? A differenza della scrittura automatica dei surrealisti, questa lo è sul serio. Mi sembra che l’invenzione di ChatGPT, Gemini e simili possa incidere sulla scrittura quotidiana più o meno quanto l’invenzione della fotografia ha inciso sulla pittura. Chiama chi scrive, come allora chi dipingeva, a una diversa responsabilità sul gesto che compie, che non si può più dare per scontato come è stato bene o male dai tempi di Platone. Dopo l’avvento della fotografia non abbiamo smesso di dipingere, ma la pittura è cambiata. Penso sia il caso di tornare a chiedersi che cosa facciamo quando scriviamo e perché lo facciamo. C’è quella famosa battuta di Wittgenstein che riporto nel libro: il cane aspetta il suo padrone, perché non può aspettare che ritorni mercoledì (o dopodomani, come è scritto nelle Ricerche filosofiche)? Perché mercoledì, o dopodomani, come tutto ciò che abbiamo fatto con le parole interessa a noi, e non a un’altra altre specie. Dobbiamo quindi chiederci perché abbiamo messo insieme le parole in quel modo, raccontando storie, ossia decidere in quali giochi la macchina può entrare (leggendo i codici a barre dei prodotti, calcolando le occorrenze di un termine in un testo, scrivendo annunci pubblicitari) e in quali la sua presenza va ritenuta meno rilevante (non per il risultato, ma proprio per l’attività che lo produce): decidere quando porre fine al girotondo che abbiamo incominciato e quando vale la pena di riprenderlo. L’AI oggi scrive sceneggiature – la protesta degli sceneggiatori a Hollywood in questo senso è emblematica – e vista la ripetitività dei modelli delle serie tv sulle piattaforme non stupisce che possa farlo efficacemente. Non credo però che abbiamo cominciato a raccontare storie solo con gli ingredienti che in alcuni contesti sono diventati veri articoli di fede: conflitto, arco di trasformazione e via dicendo. C’è chi ritiene che abbiamo incominciato a raccontare storie, come abbiamo cominciato ad adornarci, per essere riconosciuti. Se è vero che la macchina può già crearci un racconto giallo (possiamo scegliere fra alcuni sviluppi possibili), incontra però maggiori difficoltà a riprodurre un racconto di osservazione, come La passeggiata di Walser, per tornare su un autore che citavi all’inizio, o ciò che è appunto un’esperienza della sensibilità non ancora verbalizzata e quindi non passibile di essere ritrovata in forma verbale in rete. Così sa trovare un ringraziamento gentile sì, ma non perfettamente adeguato alla persona a cui dobbiamo indirizzarlo. Sono tutti giochi diversi, secondo Wittgenstein, e richiedono una nostra partecipazione vigile, attenta. Dobbiamo capire che raccontare una storia di finzione, nel momento in cui lo facciamo, serve anche a noi (in termini di conoscenza, non di risarcimento, di autocompensazione) oltre che a chi ci ascolta o ci legge; e non solo per il risultato finito, che pure resta importante.
Enrico De Vivo
Tra le buone ragioni per leggere e scrivere che elenchi c’è il legame affettivo, inteso nel senso della relazione che si instaura tra il giovane appassionato di letteratura o di lettura in generale e un autore. Usi la formula “destino artigianale” per indicare la speciale identificazione che avviene nel corso della lettura non solo con i personaggi, ma anche con chi li ha inventati. Puoi spiegare meglio in che cosa consiste il “destino artigianale”? Sembra che tu alluda a qualcosa di profondamente umano e antimetafisico.
Walter Nardon
Come per altre attività, cominciamo a leggere e a scrivere perché lo abbiamo visto fare a chi ci sta intorno, quindi l’aspetto affettivo è rilevante, ma quando si tratta di letteratura, dal Romanticismo in poi, è subentrata la necessità di motivare questa scelta. Nelle epoche precedenti, garantendo un rapporto tra forma e contenuto, il sistema dei generi semplificava la scelta e la motivava a sufficienza. In seguito, quando la motivazione non si è più fondata su ragioni formali ma sull’interiorità, è sorta la necessità di motivare l’irripetibilità del proprio punto di vista. Nel primo Novecento abbiamo assistito a strategie di motivazione estremamente tormentate, come quelle di Musil, di Broch o Gadda; eppure, in autori a loro quasi contemporanei, le cose sono andate in modo profondamente diverso: non tutti si sono afflitti per la perdita del “grande stile”. Non si sono disperati per questo né Céline, né Nabokov, ad esempio. Né, prima, Proust o Joyce. In un capitolo del libro passo in rassegna numerose motivazioni successive per concludere (temporaneamente, prima di riprendere il filo parlando di apprendistato) con Manganelli e Calasso. Nel saggio dedicato alla “letteratura assoluta”, Calasso dichiarava di credere a «un sapere che si assimila alla ricerca di un assoluto», che a suo avviso legava autori come – ne cito solo alcuni – Proust, Calvino, Montale, Valéry, Auden, Nabokov, Kundera. Io non sono convinto che tutti questi autori parlassero della «stessa cosa», né li vedo impegnati nello stesso esercizio religioso, che per Calasso è il modo in cui gli dei si manifestano come «eventi mentali»; mi sembra invece che si possa dare una nozione di arte meno paganamente connotata, fondata sulla solidarietà umana di chi condivide lo stesso destino artigianale. In questa prospettiva, scrivevo, si può capire per quale ragione Nabokov stimasse eccezionalmente Tolstoj, che tutto può essere reputato tranne che un campione della letteratura assoluta.
Enrico De Vivo
«Ci vogliono entrambe le azioni, la lettura e l’osservazione della realtà», scrivi, facendo riferimento alla lettura decontestualizzata alla quale ci invoglia l’utilizzo dei dispositivi elettronici e della rete in generale. In pratica – capisco io, con l’aiuto di una bella citazione di Proust – si potrebbe quasi dire che i lettori internettiani di oggi assomigliano piuttosto a dei letterati attaccati alla pagina come unica realtà estraniante, decontestualizzata da tutto ciò che la circonda, da ciò che, soprattutto, la rende profonda (non superficie pura, come quella di uno schermo).
Walter Nardon
Uno dei fenomeni che mi dispiacciono di più, e che probabilmente deriva dall’eccesso di serietà di cui dicevamo prima, è la perdita di fiducia nella giustapposizione fra ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Niente commistione, niente mescolanza fra alto e basso, intendo proprio la semplice successione di esperienze diverse in una giornata: il calcio inteso come calcio, e i libri come libri. Fino a circa trent’anni fa, al di là dei rimproveri di circostanza, nessuno si preoccupava davvero per il tempo dedicato allo sport, alla musica, ai fumetti, ai telefilm rispetto a quello dedicato allo studio letterario, ossia c’era piena fiducia sul fatto che il lettore potesse distinguere fra i fumetti e le poesie di Sereni. In seguito, da una parte si è nobilitato letterariamente ciò che non era considerato letteratura (sport, musica pop, fumetti ora celebrati in graphic novel, cucina), dall’altro le novità della rete hanno indotto chi si interessa alla letteratura a spendere ossessivamente tutto il suo tempo on line, perdendosi nel labirinto fra post, articoli e commenti.
Eppure, lo ricordano sia Proust, sia Virginia Woolf, per intendere bene ciò che leggiamo, dobbiamo fare la nostra parte. Secondo Proust la lettura non mette mai davvero nel mezzo di una verità, che non possiamo ricevere da nessuno: non ci sono alternative, dobbiamo essere noi a crearla. Leggere non basta. Virginia Woolf sottolinea che perfino un giudizio su un libro non può essere dato a caldo con la sola lettura; dobbiamo aspettare che questa si sedimenti. Dobbiamo fare quattro passi, staccare i petali secchi di una rosa, andare in giardino, riposarci. Dobbiamo fare altro. Poi, improvvisamente, la natura opererà le sue transizioni e il libro ritornerà intatto, riaffiorerà nel suo insieme. Chi ha familiarità con la scrittura può confermare l’esattezza di queste osservazioni ma appunto, come dici tu, chi sta connesso costantemente alla rete scambiandola per l’unica realtà non può venire a capo in profondità né di una lettura, né di se stesso, ossia non può trovare davvero le cose che ha da dire. Che poi la vera vita sia la letteratura lo può dire solo se ha accumulato un po’ di esperienza (e di dolore) nell’altra.
Enrico De Vivo
C’è un’altra implicazione parapedagogica, se così posso dire, sulla quale vorrei provare a sollecitarti. Le «buone ragioni per leggere e scrivere», delle quali tu fai una sorta di compendio nel tuo libro, si riferiscono chiaramente a un’intenzione molto vicina a quella di tanti insegnanti di Lettere, benché declinata con modalità estranee al didatticismo imperante non solo nella scuola. Ecco, noi oggi pensiamo sempre ai giovani quando dobbiamo immaginarci il non-lettore; ma una ripassata di queste queste “buone ragioni” mi sembra che dovrebbe riguardare soprattutto gli insegnanti di Lettere, spesso disaffezionati e disamorati nei confronti della letteratura. Sei d’accordo?
Walter Nardon
Molti spunti per questo libro, e perfino alcuni esempi, derivano da incontri e lezioni che ho tenuto per gli insegnanti e dalle discussioni che ho avuto con loro. Credo che nella sua funzione di “facilitatore di apprendimento” l’insegnante di materie umanistiche sia stato frettolosamente sgravato di responsabilità in merito al suo discorso. Non è più stato considerato un “produttore”, ossia l’autore di un discorso. Questo da una parte ha generato in lui un po’ di sollievo, ma dall’altra ha tolto rilievo al suo ruolo, almeno dal punto di vista culturale: lo si è concepito come un mediatore fra lo studente e un sapere la cui provenienza non è chiara, né messa in questione. Non è più il docente della vecchia scuola delle conoscenze (che viveva solo di contenuti), né l’alfiere della scuola delle abilità (di mal compresa impronta strutturalista), è diventato il responsabile dell’apprendimento di un sapere, quello delle competenze, che potremmo dire “consapevolmente processuale”. Da parte mia, sono convinto che l’insegnante sia titolare del suo discorso (la natura neutra di un discorso mediativo di grado zero, lo sappiamo, è del tutto illusoria). Bisogna però che se ne riappropri. Anche il processo di disintermediazione nei confronti del sapere, favorito dalle piattaforme on line e che in teoria tende a squalificare il docente, spesso non è che una delega delle scelte al mercato editoriale. L’analisi delle ragioni per cui leggere e scrivere, in effetti, appartiene anche all’insegnante, perciò mi auguro che il libro offra qualche spunto di riflessione.
Enrico De Vivo
Concludendo, uno dei capitoli che contiene alcune delle pagine più belle del tuo libro, è dedicato a Proust. Mi voglio soffermare brevemente sulla questione delle immagini, sulla loro centralità nel processo di creazione artistica. È dalle immagini che parte la rievocazione memoriale, ma anche il lavoro letterario, che ha a che fare con «l’intuizione di qualcosa di permanente». Che cosa puoi aggiungere in proposito?
Walter Nardon
Fra le innumerevoli osservazioni che possiamo trarre da Proust, una mi sembra particolarmente opportuna in questo contesto, ossia che la nostra conoscenza sensibile non è mai del tutto separabile dall’immagine che ci facciamo di un fenomeno. La descrizione puntuale di questa immagine, costruita riflettendo su un dato della sensibilità, è forse la forma più elevata della nostra esperienza. Il fatto che due sensazioni identiche, a distanza di anni, ci riconducano involontariamente verso quel dato di coscienza sembra certificare che nello scorrere del tempo esiste qualcosa di permanente. Il racconto di una scoperta come questa acquista importanza mentre lo si fa, non tanto, o non solo, per il risultato finale, che pure resta determinante.