[…] Il libro ha anche l’ambizione di condurre un’indagine sullo spazio linguistico, fisico e corporeo dal quale nasce la poesia. Oltre a Leopardi, il tema di queste pagine è dunque la genesi dell’ispirazione. In quale campo, in quale confluire di esperienze viene a prodursi l’opera poetica? La domanda vale tanto per Leopardi quanto per i poeti che con i loro versi ricreano lo spazio di una zona che è stata loro proibita, un desiderio incerto e inquieto, innocente quanto interdetto, come se con le loro parole cercassero di rimpiazzare uno scibboleth, un segno di riconoscimento che gli è stato promesso eppure mai consegnato; sempre un po’ ragazzi cresciuti sulle colline, e che al primo incontro con la musa cittadina si rivelano più goffi di un novizio.
Risalire il torrente dell’ispirazione fino alla fonte è impossibile, perché ciò che fa di una stringa di fonemi e di sillabe un verso è la constatazione che, dopo aver scovato tutte le fonti e analizzato ogni genealogia, di quel verso non sappiamo da dove viene, né da quale grembo si sia originato. […] In fondo non è un luogo strano, né è riservato unicamente ai poeti infelici. Tutti l’abbiamo abitato, tutti vi abbiamo imparato i primi giochi e sofferto i primi dolori. Tutti l’abbiamo poi lasciato. “Gli uomini che non si voltano”, per citare Montale, non dedicano nemmeno un attimo a ricordare di esserci stati, mentre gli uomini e le donne che sempre si voltano, vale a dire i poeti, ne fanno qualcosa, trasformando in un’opera il loro non poterci tornare. È lo stesso spazio indicato una volta da Mallarmé nella forma di una mandola “dal cavo nulla sonoro”. Una mandola che risiede solo “presso chi al sogno si dora”, la sola dalla quale “verso una qualche finestra, / da nessun altro ventre che da suo / filialmente si sarebbe potuti nascere”. Uno spazio, dunque, generatore o “materno”.
In questo libro ho considerato la scrittura leopardiana come espressione privilegiata di una poetica dello spazio più vicina all’immensità delle distanze astrali che al rifugio di una cameretta. Se ho chiamato “materno” tale spazio, in particolare nel quarto e quinto capitolo, è perché il suo fondamento sta nelle pratiche con le quali “si viene al mondo” in senso culturale e non solo biologico, e che durano a partire dalla nascita fin verso il terzo anno d’età. È attraverso tali pratiche che la madre e il bambino o la bambina (ma alla madre si può sostituire la nutrice, o anche una figura maschile che assuma funzioni di cura materna), affermano l’uno all’altro la loro presenza, imparando e istituendo la reciproca distanza, che dovrà infine culminare in una separazione.
Queste pratiche di cura, contatto, nutrimento, gioco, ma anche desiderio, mancanza e timore di abbandono, sono ampiamente pre-logiche e pre-verbali. Precedono il lógos tradizionalmente inteso come “paterno”, per non dire patriarcale, caratterizzato invece dall’accesso al linguaggio convenzionale e all’ordine del simbolico. Peraltro, il fatto che un poeta indulga in queste pratiche non ne fa un eterno fanciullino. Alcuni poeti rimangono fanciulli, altri no, non diversamente da chiunque altro. Le pratiche dello spazio materno, e in particolare la progressiva sensazione di distanza dal corpo della madre, dunque l’eccitazione della libertà accompagnata dal timore della perdita, fondano però una disposizione, un orientamento esistenziale a pratiche suppletive di invocazione, evocazione e nostalgia. E l’eventuale, futura espressione artistica in cui si manifesteranno sarà pienamente comprensibile solo se ricondotta alle coordinate di quel locus perduto. I contenuti della produzione adulta potranno variare, così come varierà la maturazione individuale del poeta, ma la direzione fondamentale del suo cammino è già indicata nelle bussole che laggiù, in quel tempo remoto, hanno cominciato a puntare verso il loro specifico nord.
[…] S’intende che il riferimento al materno ha una relazione solo accidentale con la biografia del poeta, che in questo libro ha un ruolo molto limitato. In Leopardi la distanza del cielo, della luna e dell’infinito è anche la distanza della (e dalla) donna, e lo spazio materno dell’ispirazione è per lui difficilissimo da attraversare. È lucido e deserto, non ha appigli né luoghi di sosta. Leopardi è un poeta materno indipendentemente dai rapporti di gelido e spietato protocollo che la contessa Adelaide Antici impose a lui come agli altri suoi figli. Del resto, quando madre e figlio giungono a riconoscere reciprocamente la loro distanza l’irreparabile è già avvenuto. Leopardi è un poeta materno non solo, o non tanto, perché ha nostalgia di un amore materno che non gli è mai stato manifestato, ma soprattutto perché è un poeta acustico, costantemente in ascolto delle corde dell’universo, di una tensione vibrante e indefinita nella quale il linguaggio si forma con lentezza, come una stella nello spazio vuoto. Le interminabili note filologiche, etimologie, derivazioni, metamorfosi delle parole da una lingua all’altra che Leopardi insegue, riporta e allinea fin nelle ultime pagine dello Zibaldone, anche dopo aver rinunciato a quell’avvenire di filologo che in gioventù gli era apparso come un ideale, per non dire di quel vasto progetto di comparazione estetica delle lingue europee che lo impegnò nei primi anni della sua riflessione linguistica, sono componenti fondamentali di un costante ascolto del linguaggio che è il vero nutrimento della sua scrittura. Lo spazio materno nel quale si muove Leopardi è la dimensione acustica della poesia, mentre è a una distanza di cielo costantemente limpida e rivolta altrove, contrassegnata da un’assenza di nuvole o da una luna piena e totale, ma anche silenziosa e irresponsiva, che il poeta indirizza le sue missive perdute. Leopardi non può e non vuole riempire il cratere d’assenza sul bordo del quale si muove. È la sua condanna come uomo, ma è anche la fonte della libertà, dell’agio, dell’aria fresca di cui gode la sua poesia.
Questo libro, peraltro, non tratta solo dello spazio del cielo e della madre. Altre direzioni di ricerca vi si affacciano, dalla critica del moderno all’estetica del sublime, niente affatto affatto slegate dall’indagine principale (la trattazione dello “spazio paterno dell’ispirazione”, in relazione alla connotazione patriarcale del sublime, è affidata al sesto capitolo). Ma che cosa pensa Leopardi dell’ispirazione? La lettera indirizzata al cugino Melchiorri, con la quale declina l’invito a comporre alcuni versi d’occasione, mostra un poeta che ha il coraggio di non sottomettere la sua poesia a nessuna costrizione, letteraria o extraletteraria che sia:
Io non ho scritto in vita mia se non pochissime e brevi poesie. Nello scriverle non ho mai seguito altro che un’ispirazione (o frenesia), sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento di vena, e tornandomi (che ordinariamente non succede se non di là a qualche mese), mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile di terminare una poesia, benché brevissima, in meno di due o tre settimane”.
(Lettera a G. Melchiorri, 5 marzo 1824)
Leopardi, che scrive di tutto, non scrive mai delle sue poesie: “Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù… non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui” (Zib. 4302, 15 aprile 1828). Aver aggiunto un filo alla trama della vita è, insomma, tutto ciò che il Leopardi maturo si aspetta dalla sua opera letteraria. Nei suoi primi anni, al contrario, Leopardi credeva davvero che filologia e poesia gli potessero portare una qualche forma di gloria. La sua maturazione personale è anche la storia di un progressivo, inflessibile ritrarsi da ogni ambizione mondana. La mancanza di progetto che Leopardi persegue è però, a suo modo, una forma di progettualità altissima, capace di rigettare ogni soluzione formale che non sia assolutamente interna alla pura e semplice necessità poetica. La poesia può occuparsi di tutto, ma nulla può occuparsi della poesia, nulla può interferire con il suo accadere fulmineo, eracliteo, sovrano. Solo a questa sovranità della poesia Leopardi s’inchina. Per quanto l’intelligenza, la cultura e la passione intellettuale lo conducano a volte a scrivere versi dominati dall’argomentazione e dalla polemica, il suo dettato poetico più profondo è sempre totale, autocomprensivo, immanente a se stesso. È una poesia che crea da sé il proprio spazio.
[…] Come ha scritto Benjamin recensendo una traduzione tedesca dei Pensieri, “la giovinezza di un uomo veramente significativo sarà particolarmente incline a generare un mondo fosco, e Leopardi è sempre rimasto fedele alla sua gioventù”. Ma limitarsi a definirlo pessimista, precisa Benjamin, “trasforma parimenti il suo creare in qualcosa di astratto”. Ha in comune con Hölderlin “la dolorosa purezza” della vita e dell’opera, ma mentre Hölderlin si presenta come il fondatore di una nuova religione, Leopardi assume sempre di più, con il tempo, il profilo dello scettico ribelle: “Al tipo contemplativo e rassegnato del pessimista nel poeta se ne contrappone un altro: il pratico paradossale, l’angelo ironico”. È molto probabile che Benjamin avesse qui in mente l’ironia romantica nelle sue varie accezioni di negatività radicale, da F. Schlegel a Kierkegaard: l’io ironico che, protetto dal suo inattaccabile linguaggio, contempla e descrive la rovina dell’io empirico. E infatti in Leopardi c’è qualcosa di saccente, concede Benjamin, come è tipico di chi ha avuto una precoce maturità. La spada talvolta gli cade di mano ma, chiuso nella sua corazza, sulla cui superficie si riflette un mondo stravolto, l’autore resiste.
[…] Non diversamente da altri che si sono posti il compito impossibile di delineare una teoria del piacere (incluso De Sade), anche Leopardi ha finito con l’elaborare unicamente una fenomenologia della tristezza. La costante visione della miseria creaturale sviluppa in lui una malinconia altezzosa, finché il crescente umore atrabiliare gli fa contemplare con scetticismo sempre più sprezzante i poveri tentativi della vita di resistere alle ondate di devastazione spinte dal vento del disordine universale. Ma Leopardi non è un barocco che nelle rovine del mondo cerca l’allegoria di un ordine oltremondano, e se subisce l’estinzione degli affetti non per questo vi si rassegna. Costruire illusioni è molto più impegnativo che distruggerle. La civiltà che crea miti, finzioni, ideali e valori allo scopo di credervi è molto più degna di ammirazione di quella che le passa al facile vaglio della ragione solo per trovarle insussistenti, come se gli antichi creatori di illusioni non fossero stati a loro modo perfettamente coscienti delle fondamenta immaginarie, eppure non per questo meno efficaci, degli edifici che innalzavano.
Leopardi non vuole affatto distruggere le illusioni, perché sa quanto lavoro sono costate all’umanità. Non per questo, però, rifiuta di valutarle per quello che ontologicamente sono, come necessarie schermature di una verità che, come la testa di Medusa, è troppo paurosa per essere contemplata a viso aperto. Leopardi vorrebbe che le illusioni della gloria, dell’onore e della patria conservassero la loro funzione ispiratrice e regolatrice anche dopo essere state rivelate come tali, così come il mistero di un mito rimane intatto anche una volta che sia stato indagato ed esplicitato con gli strumenti della scienza. Il suo è un progetto di classicità restaurata, ma di classicità vera e non neoclassica—e dunque improponibile alla modernità, che è invece l’epoca del mondo nella quale illusioni, ideologie, miti e valori, una volta smascherati, si dissolvono senza ritorno. Non potendo più prendere il posto della verità, le illusioni moderne, una volte decadute, lasciano dietro di sé solo una scia di disperazione. Ed è proprio rispetto a tale dissoluzione che il filosofo-poeta dispiega la sua etica aristocratica e stoica: per credere veramente nelle illusioni, questo è il segreto, bisogna essere perfettamente disillusi. Bisogna insomma conoscere le illusioni nella loro realtà di “cose che non son cose” (Zib. 4174, 22 aprile 1826), se si vuole farne il principio regolatore del vivere civile.
Il progetto appare paradossale, destinato a pochi, e non è certamente concepito perché le “masse” (che Leopardi aborrisce) lo possano abbracciare. D’altra parte, se le illusioni non fossero già da sempre svelate come tali, nulla le renderebbe diverse da una qualunque sovrastruttura ideologica. Solo il loro inestricabile rapporto con la verità le rende tanto insufficienti quanto necessarie. Dalle illusioni non c’è scampo, ma nemmeno dalla verità. Nella loro costitutiva transitorietà, nel loro essere altro dalla verità, le illusioni (le ideologie, i valori) non negano affatto la verità (cioè che nessun valore può presentarsi come assoluto), né possono occultare la loro costitutiva mancanza di fondamento sotto il manto della moda culturale del momento. Più le illusioni sono credute come tali, più rafforzano la loro verità, di essere appunto illusioni e nient’altro che illusioni. Qualunque tentativo di ignorare questa dialettica negativa aggiungerebbe solo un capitolo alla storia del filisteismo.
Nonostante il suo buio fulgore, la verità di Leopardi (che le cose vengono dal nulla per tornare al nulla, e che dunque sarebbe stato meglio per i mortali non nascere nemmeno) non potrà mai estirpare le illusioni che rimangono capaci, per citare ancora Benjamin, questa volta le Tesi sulla filosofia della storia, di esercitare una “debole forza messianica”. Né Leopardi se lo augurerebbe. Necessarie prima, durante e dopo il loro smascheramento ad opera della filosofia, le illusioni ristabiliscono la soglia di non-rivelazione verso la quale la verità e il destino, dopo essersi rivelati, si rimettono in viaggio silenziosi e distanti, carichi di allusioni e segni ambigui, di nuovo lontani, di nuovo da rivelare, astenendosi pietosamente dall’annichilire i mortali con la chiarezza accecante di una manifestazione definitiva. Se un ultimo messaggio ci giunge dall’avventura poetica e intellettuale di Leopardi, forse è proprio la necessità di questa ermeneutica infinita e reciproca di verità e d’illusione, di questa incessante filologia dell’intero universo.
Houston, novembre 2010