Un’educazione

Talvolta, nell’euforia che lo prendeva, sembravano aprirsi possibilità per sentirsi parte di una realtà che contava, nella quale anche lui rivestiva un ruolo, riconosciuto al modo in cui riconosceva gli altri; ma erano istanti luminosi dai quali sembrava destarsi bruscamente tanto che, in un improvviso e vertiginoso bilancio negativo, d’un tratto piantava tutti a metà brano e tornava a rifugiarsi sui divani.

Il padre, per così dire, era una brava persona. Aveva ereditato un piccolo appartamento nella parte alta del paese, quasi in stato di abbandono, la casa dove una prozia aveva trascorso i suoi ultimi anni di vita. Così aveva preso con sé i figli e aveva lasciato Avio, nel basso Trentino – dove viveva in affitto – per trasferirsi in montagna. Da qualche tempo era vedovo. Nessuno ha mai saputo molto della moglie, morta di malattia, di cui parlava poco: quasi sicuramente era di origine meridionale, forse lucana, di Melfi. Fra il lavoro e le difficoltà dei figli non si era perso d’animo, aveva trovato presto un impiego in un’impresa artigiana nell’ambito della lavorazione meccanica. Ogni mattina saliva sulla vespa nera e si faceva sette chilometri, seduto incomprensibilmente un po’ di traverso sopra un coprisella di stoffa a quadri rosso e blu che si era confezionato da sé. Nei mesi più freddi accettava un passaggio dai colleghi. Di solito, anche d’estate, portava un vecchio giubbotto di pelle marrone scuro, di una taglia superiore alla sua. Dario era quel che si dice un uomo di compagnia, allegro, perfino gioviale, benché a volte, davanti a uno scherzo, reagisse come un animale ferito.

Quanto ai figli, il discorso era un altro. Il maggiore, Carlo, era un ragazzo di vent’anni anni, basso, con la testa grossa, gli occhi azzurri e i capelli castano scuri, gentile e incredibilmente privo di intraprendenza. Parlava lentamente e per lo più si faceva condurre per mano dagli amici, verso i quali dimostrava una riconoscenza quasi inesauribile. Le sue opinioni erano semplici, espresse con discorsi brevi, non di rado reticenti sui veri motivi che lo avevano condotto a maturare qualche convinzione. Finito di parlare, chiudeva gli occhi e muoveva appena le labbra in un sorriso. Non aveva mai fatto sport in vita sua e a stento aveva concluso la scuola dell’obbligo. Per il resto era buono, perciò strumentalmente benvoluto dai giovani più in vista, che in ambito amoroso non sarebbero mai arrivati a considerarlo un rivale e che quindi lo portavano volentieri con sé, in montagna o al lago. Con le ragazze non sapeva farsi avanti, inibito dal carattere e dalla coscienza di una spaventosa inadeguatezza. Talvolta lasciava intendere le sue speranze: vagheggiava non solo come possibile, ma addirittura come concreta una situazione in cui tutti sarebbero stati ugualmente felici, senza danno gli uni per gli altri, un pensiero di cui percepiva la debolezza, ma che nonostante i ripetuti avvisi non poteva permettersi di ignorare perché rappresentava l’espressione più profonda della sua fede. Così il suo atteggiamento in apparenza remissivo non sembrava uno strumento di difesa, o meglio un mezzo per farsi accettare dalla sensibilità un po’ ottusa dei più decisi: il suo animo era generosamente rivolto verso il bene, benché nella maggior parte dei casi ignorasse gli strumenti per provare ad arrivarci e rimanesse quindi confinato nell’inazione. Nessuno poteva dire, però, quanto questo potesse costargli. Quando il padre mancava, se non aveva problemi di lavoro (era operaio part-time in una cooperativa che realizzava prolunghe e cavi elettrici) e benché non fosse un cuoco esperto, Carlo provvedeva ai pasti. Spesso faceva anche la spesa, che arricchiva di snack e di cibi precotti e pronti all’uso.

L’altro figlio, Bruno, dal fisico più asciutto, aveva qualcosa che ricordava il fratello, di cui era due anni più giovane: più o meno la stessa pettinatura, con la riga laterale, sui capelli più unti e questa volta neri. Come Carlo era taciturno, ma per il resto nessuno avrebbe potuto confonderli. Bruno girava per lo più vestito di un giubbotto grigio scuro, con dei jeans larghi e sdruciti e delle scarpe Clarks scamosciate. In tasca, o nel giubbotto, portava con sé un pezzo di faggio lungo poco più di venti centimetri, alla cui estremità aveva avvolto più giri di nastro adesivo blu, fino a farne una piccola impugnatura, insufficiente però a coprire l’intera estensione di una mano. Non era dato sapere se l’avesse fatto per garantire una presa migliore, che il nastro lucido impediva, o se si fosse trattato semplicemente di un’esecuzione lasciata a metà. Per lui quel pezzo di legno, oltre che un’arma di difesa, costituiva “il segno del comando”, che mostrava soprattutto ai ragazzini di tredici, quattordici anni, ai quali si era presentato come il “boss del quartiere”. Anche lui aveva faticato molto a concludere le scuole dell’obbligo, e ora era lavorava in un’impresa edile (ma continuava a cambiare impiego). Benché il suo atteggiamento mostrasse qualcosa di marziale, non era cresciuto in ambienti dove i suoi coetanei nutrivano sogni di autoritarismo politico. Passava le giornate in solitudine. Leggeva fumetti, i vecchi «Zagor» o «Diabolik» e ancor più – se riusciva a trovarli – gli albi dei supereroi americani (Marvel e D. C.). Si appassionava in fretta ai film d’azione. Raccoglieva tipi diversi di minerali: per lo più sassi sul greto di un torrente. Sperava di esercitare la sua autorità sui ragazzi dai quali cercava complicità e consenso, raccogliendoli, comprensibilmente, solo fra i più deboli. Con i suoi pari era meno propositivo. Stava ad ascoltare le loro discussioni in un angolo, appoggiato al muro, scrollando la testa in silenzio, senza perdere la fiducia in un compito che sentiva legato al suo futuro e che avrebbe prodotto un miglioramento generale.

2.

Credo si possa facilmente sostenere che Dario era benvoluto. Sandro Berlinghieri, un carpentiere in ferro che incontro ogni tanto, mi ha parlato più di una volta delle giornate con lui:

«Dario? Era uno spasso, quelli sono stati proprio bei tempi, quando lavoravo insieme a lui e a Marco Barollo. Anche se aveva vent’anni più di noi, Dario ci dava dentro e in più sapeva anche scherzare. Proponeva delle sfide un po’ sceme ma che ci tenevano allegri. Ad esempio, in certi pomeriggi in cui la produzione andava a rilento, Dario andava vicino a Marco e toccandogli una spalla gli diceva ‘Mi sa che oggi faccio il doppio dei tuoi quintali’. Oppure, se dopo la pausa ricominciava il lavoro prima di noi, faceva finta di aumentare il ritmo per vedere se riusciva a staccarci. Noi allora ci vendicavamo contro una delle sue fissazioni. Avresti dovuto vederlo. Sulle sue manie non potevi proprio dirgli niente. Quando era in bagno o impegnato a rispondere al superiore, toglievo il coprisella della vespa e lo montavo al contrario, oppure semplicemente gli nascondevo la borraccia, che teneva sempre nello stesso posto, vicino alla borsa. Erano cazzate che lo mandavano in bestia. Eppure non eravamo proprio dei bastardi, la borraccia era sempre vicina, magari solo nascosta dietro la moto. Ma bastava questo e lui dava di matto, ce ne diceva di tutti i colori. Ci siamo proprio divertiti».

Ad ogni modo, come operaio si era legittimato per quel che faceva: non era stato favorito dalle difficoltà dei figli, di cui anzi nel lavoro si sarebbe dovuto tener conto di più. Si faceva andar bene quel che capitava, cercando di fare il suo dovere.

La sera lo si vedeva al bar, specie di sabato. Non aveva la passione per le carte che divorava parecchi suoi coetanei, specie dall’autunno fino a Pasqua: giocava a briscola più che altro per provare la sorte, cercando di capire come le cose prendevano il loro corso. Inoltre, poiché il Bar Citati mostrava il calcio in abbonamento televisivo, seguiva le partite: era juventino. Ogni tanto gettava lo sguardo all’esterno dove, ai tavolini, anche in settembre inoltrato, Bruno sedeva da solo, davanti a una cedrata (non beveva alcolici), intento a organizzare i piani per il fine settimana.

Carlo restava raramente in paese. Quella sera era andato con gli amici fino a Riva del Garda. Apprezzava il lago come pochi altri luoghi, soprattutto all’imbrunire, quando si accendevano i lampioni nel porto. Seguiva il suo gruppo a passi brevi, le mani abbandonate lungo i fianchi, guardando gli ultimi drappelli di turisti riempire i locali con le borse ingombranti dello shopping. Davanti allo sfarzo, chiudeva gli occhi e sorrideva, abbassando la testa. Poi, sempre con gli occhi chiusi, la rialzava inebriandosi della scia del profumo di qualche amica.

Francesca glielo aveva chiesto: «Ti piace il mio nuovo profumo?»

«I profumi mi danno alla testa».

Coglieva, come era in grado di farlo, gli stimoli che la vita gli offriva. Tuttavia, la sua espressione risultava enigmatica perché quando rifletteva ad alta voce sugli effetti che producevano in lui non solo i profumi, ma anche la lacca per capelli o il cioccolato, l’impressione era che non parlasse fino in fondo di sé, ma delle percezioni di qualcun altro: non era agevole comprendere se tutto questo fosse indotto dalla sua gentilezza, o dall’impossibilità di identificarsi in ciò che provava. Ma il sabato sera, in mezzo all’intraprendenza chiassosa degli altri, si mostrava particolarmente di buon umore. Seguiva con interesse i discorsi sulla musica rock, ai quali per lo più annuiva o rispondeva con brevissimi interventi.

Con l’aiuto di due ragazzi delle medie, Cisco e Roberto, il sabato sera precedente Bruno era invece andato nella campagna poco fuori il paese a tagliare il recinto di rete metallica di Riccardo Gioberti. La ragione principale del gesto era quella di dare un avvertimento al pensionato perché la finisse di rimproverarli quando andavano in bici per i campi e soprattutto perché si era permesso di dire a Bruno che «non avrebbe mai combinato nulla di buono». Dopo una breve riunione a tre, che aveva passato in rassegna varie accuse, Bruno aveva proposto di cominciare a farla pagare al vecchio, prima di tutto con un gesto simbolico. L’avevano messa ai voti ed era passata a maggioranza (Cisco aveva votato contro). Quindi, fra la delibera e l’esecuzione del piano era trascorsa poco più di un’ora e mezzo. Le galline del vecchio Gioberti avevano recuperato d’un tratto un’insperata libertà.

3.

Dopo Francesca ed Emilia, la terza ragazza del gruppo di cui Carlo si era invaghito si chiamava Lucrezia. Non viveva da noi. Originaria di Varese, studentessa del primo anno di Sociologia alla Statale di Milano, passava un po’ di tempo ospite di sua cugina Anna, quasi coetanea. Usciva con alcuni amici che avevano preso l’abitudine di andare in discoteca fino ad Andalo.

A questi si era aggiunto facilmente anche Carlo.

Di norma lui osservava gli altri dai divani, annuendo scherzosamente quando veniva invitato a entrare in pista. Se qualche rara volta la sua ritrosia cadeva ed era infine convinto, seguiva un consiglio che gli aveva dato Claudio: «Muoviti a ritmo di musica, ma il più lentamente possibile». Così spingeva gli amici a disporsi in cerchio in mezzo alla pista, felice di far parte della compagnia. In quelle occasioni si fermava anche per tre pezzi di fila. Talvolta, nell’euforia che lo prendeva, sembravano aprirsi possibilità per sentirsi parte di una realtà che contava, nella quale anche lui rivestiva un ruolo, riconosciuto al modo in cui riconosceva gli altri; ma erano istanti luminosi dai quali sembrava destarsi bruscamente tanto che, in un improvviso e vertiginoso bilancio negativo, d’un tratto piantava tutti a metà brano e tornava a rifugiarsi sui divani. Anche se stare con gli altri gli faceva bene, nessun segno esteriore lasciava supporre che le frequentazioni in gruppo gli avessero fatto superare qualche difficoltà. Né si può dire che con Lucrezia, bella e consapevole delle sue doti, si fosse proposto. Si limitava a servirla con devozione, offrendosi di svolgere per lei le commissioni minime, come recuperare il cappotto in guardaroba.

Nella settimana successiva alla serata in discoteca, Lucrezia cambiò strada: cominciò a uscire con Patrizio, un amico un po’ sopra le righe le cui preferenze lo portavano verso un altro gruppo, più chiuso e spento, quello dei drogati (da noi non sono mai esistiti i tossici: c’erano solo i drogati). Carlo continuava a seguirla, per così dire, a distanza di sicurezza. E in effetti, ciò che dava nell’occhio non era tanto il fatto che Lucrezia si facesse vedere con un giro diverso, ma la presenza di Carlo, che seguiva cinque persone mal combinate a passi veloci, con le sue gambe corte. Gli altri, più bruschi di Patrizio, gli avevano fatto capire che non era il caso che continuasse a seguirli, o in altre parole che era proprio «ora che si levasse dai coglioni», visto che i loro traffici andavano tutelati. Per quanto lo considerassero «un ritardato», infatti, non era detto che non fosse in grado di spifferare quello che vedeva. Del resto, da lui avevano poco da cavare, dato che il suo lavoro gli portava un salario così basso che girava quasi senza soldi in tasca. Non c’era verso di coinvolgerlo in una colletta.

In un episodio, la sua vicenda si incrociò involontariamente con quella del fratello, che era sempre in cerca di una missione e che, scorto una sera Carlo con Ivo Rubio, uno degli eroinomani messi peggio, senza tenere una riunione con i suoi giovani scudieri, aspettò che il fratello tornasse a casa e che Ivo rientrasse zoppicando da solo verso la sua. A quel punto, uscito all’improvviso da un vicolo col volto coperto da un passamontagna, Bruno estrasse di tasca il segno del comando e pestò Ivo a sangue. I familiari lo raccolsero un’ora dopo, ritenendo erroneamente che si trattasse ancora una volta delle persone che frequentava e che non riusciva a pagare. L’inchiesta finì lì. Né i suoi amici ebbero qualcosa da ridire quando un paio di giorni dopo lo rividero comparire malconcio.

4.

La faccenda si era complicata. Poiché Anna insisteva che sua cugina lasciasse perdere Patrizio e che tornasse a girare con lei e gli altri, davanti a ripetuti dinieghi, piena di timore, prima di poter essere considerata responsabile di una serie di comportamenti sempre più compromettenti e pericolosi, parlò della cosa in famiglia e con sua madre fece una lunga telefonata agli zii. Due giorni dopo, questi arrivarono in paese alle sei di mattina. Fecero scendere Lucrezia ancora in pigiama. Mentre la madre faceva in fretta la valigia, pregando sua sorella e Anna di pensare eventualmente a qualche oggetto dimenticato, il padre senza mezzi termini prese Lucrezia per il collo e, contrastando le sue deboli lamentele, la spinse in macchina, dove poi salì in posizione di guida, chiudendo dall’interno. La moglie lo raggiunse pochi istanti dopo e Lucrezia salutò il paese a tempo indeterminato.

Carlo si persuase che la colpa fosse sua. Tornato dal lavoro, camminava per il paese cercando il suo errore più grave, quello che doveva averla offesa al punto da costringerla a fuggire.

Il lunedì successivo, appena entrato in officina, Dario disse a Sandro che aveva un problema, ossia che suo figlio – «che non sapeva guardarsi allo specchio» – si era messo in testa la più bella ragazza vista in paese, una che studiava alla Statale di Milano, mentre lui a fatica aveva finito le medie. E che ora, sicuramente per toglierla dalle cattive compagnie ma probabilmente anche a causa di suo figlio, i suoi erano venuti a portarla via di forza:

«Dimmi tu se non è un coglione. Ci mancava anche questa».

In paese la faccenda divenne presto nota. Sandro naturalmente negava che la responsabilità maggiore fosse da attribuire a Carlo, cosa che anche Dario arrivava ad ammettere, aggiungendo, però – e questo era indubitabile – che il comportamento di suo figlio non poteva essere stato giudicato irrilevante. Al che Sandro aveva tentato una sintesi rassicurandolo che il caso era stato comunque concluso per il meglio e che in sei mesi «nessuno ne avrebbe più parlato. Figuriamoci a Varese».

Ma Dario si angustiava.

Visto ciò che stava succedendo, Anna prese l’iniziativa e cercò Carlo in uno dei suoi giri pomeridiani. Anche lei studiava (primo anno di Lettere a Trento). Aveva un temperamento sensibile, moderato da un robusto buon senso che la allontanava dalle posizioni puramente emotive. Lo trovò nel parco davanti alla biblioteca e lo invitò a bere un caffè.

Si sedettero in un angolo del Bar Citati, a quell’ora quasi vuoto. Amplificando la vicenda e mettendoci un po’ del suo, Anna cominciò col dirgli che, anche se non si sentiva di incoraggiare i suoi sentimenti, Lucrezia ne era stata lusingata e anzi non aveva nulla da rimproverargli. Carlo la seguiva con uno sguardo che contemplava in quelle parole non un commento alle sue azioni, quanto misteri più profondi, che non erano se non accidentalmente riferibili a lui; scomposta nelle sue forme, la rappresentazione della realtà aveva perso i punti di riferimento e gli appariva davanti come un’immensa distesa di materia indistinta e incomprensibile. Anna aggiunse che erano emersi altri dettagli di cui lei stessa era venuta a conoscenza troppo tardi, ossia che Patrizio con Lucrezia aveva forzato la mano e non solo con le canne e il resto, ma che mentre era fatta le era saltato addosso, l’aveva presa e non si era fermato. Insomma, Lucrezia stava correndo i rischi più gravi. La gente di quel giro, come forse anche Carlo aveva capito, non era sempre nelle condizioni di trattarti bene.

Lui rimase in silenzio. Ripassava i volti del gruppo: Rubio, Messina, Zelda e Paolo, Eddy, Celestina, tutti messi insieme dal bisogno. Pensava che, se non aveva colpa per la fuga di Lucrezia, poteva però avercela per non essere intervenuto.

«Non ho fatto niente per lei».

Anna cercò di rincuorarlo (la sua presenza si era rivelata determinante perché era servita da deterrente nei confronti dei più violenti), ma non riuscì a convincerlo. Carlo non credeva che la sua presenza potesse valere qualcosa, né c’era verso di fargli cambiare idea. Quando poi venne a sapere, direttamente dal fratello, ciò che era successo a Rubio, si caricò di un peso che arrivò quasi a schiacciarlo. Ci volle una decina di giorni prima che si riprendesse. Non riusciva a farsi una ragione del perché, seguendo semplicemente gli altri e pur non avendo fatto niente di diverso dal solito, né detto qualcosa di nuovo, fosse stato causa di questi episodi. Aveva timore che ormai ogni cosa che aveva davanti gli sfuggisse; in altre parole che qualcosa, dentro di lui, si fosse rotto, al punto da rendergli ogni realtà incomprensibile. La frequentazione del bar, un’uscita in discoteca, per lui erano diventati puri mezzi di sostentamento: vi cedeva perché ne aveva bisogno come del cibo, per mantenersi in vita, ma non le considerava più occasioni per divertirsi.

Anche suo padre era esausto. Talvolta, a cena, incoraggiava il figlio a uscire, imponendogli di non sacrificare la sua serata per lui (Bruno mangiava sempre da solo). Sapeva che Carlo faceva più fatica degli altri a tirare avanti, ma collegava questa condizione alle sue ingenue fantasie d’amore che rischiavano di sfinirlo, a un sentimento sovrabbondante – come lo è sempre l’amore – in questo caso complicato dalle scarse possibilità concrete di trovare qualcuno che lo corrispondesse; del resto, si diceva: «Siamo stati tutti giovani, e anche lui, con i suoi limiti, fa quello che può. Solo che soffre il doppio degli altri».

Ma le preoccupazioni del padre cominciavano a farsi più serie per le vicende dell’altro figlio, il quale in apparenza non era per niente occupato da questioni amorose, quanto da situazioni minime – o almeno così Dario sperava – in cui cercava qualche forma di riscatto per sé e per gli altri. Dario era venuto a sapere della recinzione di Gioberti, che aveva visto al bar e col quale si era accordato per un piccolo risarcimento, ma pensava che Bruno rimanesse in questo ambito d’azione. Aveva provato a parlargli, ma non c’era stato niente da fare («Tu non puoi capire quello che sto pensando»). A torto, lo credeva incapace di prendersela davvero con qualcuno. Quando il padre di Cisco aveva confidato a Dario la sua preoccupazione riguardo alle avventure con Bruno («Già mio figlio ha qualche problema a scuola, non vorrei che ora si mettesse nei casini»), Dario gli aveva risposto assicurando che suo figlio era occupato da fantasie «lette nei fumetti, viste nei film», ma che poteva dormire tranquillo perché, «avendo i suoi limiti, non avrebbe fatto male a nessuno».

5.

In realtà, Bruno non si era fermato. Continuava con i suoi progetti, con le sue azioni dimostrative. Qualcosa, però, attorno a lui stava cambiando. Qualche voce aveva cominciato a circolare, perciò gli amici di Carlo, quando vedevano Bruno attraversare la piazza a testa bassa (va detto che né l’uno, né l’altro dei due fratelli aveva la patente), sorridevano pensando che, dopo aver liberato un pollaio, si sarebbe potuto dedicare ai canarini da appartamento. Lui li sentiva e sopportava in silenzio lasciandoli ai loro scherzi, mettendo la mano in tasca e pensando che prima o poi, come era capitato a Rubio, sarebbe venuto anche il loro turno.

Tuttavia, le voci più insidiose non riguardavano i suoi atti di vandalismo (scritte sui muri di alcune baite di campagna: «Ve la farò pagare», «Figli di puttana»), che suscitavano fastidio, né la violenza segreta, quanto la frequentazione abituale dei ragazzi delle scuole medie, che negli adulti – non solo nel padre di Cisco – aveva destato numerosi sospetti. Quella di un manovale maggiorenne che passava tutto il suo tempo libero con dei tredicenni non per ragioni sportive, ma proprio per affinità di vedute, e in sostanza per amicizia non si poteva certo ritenere una condotta generalmente approvata. Al di là del giudizio sulle sue capacità cognitive, secondo i vicini di Dario erano proprio le amicizie di Bruno a suonare ambigue. Lui e i ragazzi passavano il tardo pomeriggio ai giardini, parlando del futuro e facendo scoppiare qualche petardo che lui portava con sé. Poi giravano insieme in bici per i campi. Se come il fratello parlava poco, taceva incomparabilmente più dell’altro sulle questioni affettive. Concentrato, austero, dava l’impressione di condurre un’esistenza monacale, dedita a poche e chiuse ossessioni. Dal suo vecchio walkman, alternava musica italiana melodica e heavy metal internazionale. Ma il dubbio sulle sue preferenze ormai si era fatto largo; e del resto, come aveva detto Faber (allenatore della società sportiva, categoria allievi), i ragazzini di quell’età cominciano a parlare di sesso anche troppo presto.

Dopo un paio di settimane, Carlo era tornato a farsi vedere al bar, soprattutto con Claudio, a cui lo sforzo che sosteneva sembrava commovente.

«Vedi – aveva detto a Claudio – lo so che ho molti limiti, ma forse con me se la sono sbrigata troppo in fretta».

Di fronte agli adulti del paese continuava a manifestare deferenza, come dovesse scontare la vergogna per il male che la sua famiglia aveva portato con sé. Al bar, i discorsi sul calcio e il ciclismo lo distraevano dal digiuno di attenzione a cui si era ridotta la sua vita. Se ne stava in un angolo a ginocchia strette, braccia conserte, sporgendo in avanti la testa: sorrideva, annuendo ai passaggi più divertenti dei discorsi degli altri e beveva il suo tè alla pesca. Parlava forse ancor meno del solito, ma sembrava sulla via del recupero.

Qui però comincia un altro episodio, che di nuovo arrivò a incrociare la sua strada con quella del fratello.

6.

Fra le attività che concorrevano ad allietare Carlo nel suo periodo di ripresa, la musica dal vivo meritava senza dubbio il primo posto. Più che altro, un paio di volte aveva avuto l’opportunità di seguire il gruppo di amici in macchina fino a una radura posta appena sotto il paese, vicino a un casale isolato (e sempre chiuso: il nuovo proprietario viveva a Verona). Dato che non faceva ancora freddo, due di loro, e per la precisione Massimo e un certo Yuri, che studiava a Bologna, avevano portato con sé le chitarre e si erano messi a cantare con gli altri. Suonavano i pezzi più noti: Vasco, De Gregori. Carlo era rimasto in silenzio: la sua voce, tutta di gola, era troppo debole; talvolta, nei momenti di emozione, si rompeva riducendosi a una semplice emissione gutturale. Ma la musica lo confortava. Sentirla prendere forma in quel preciso istante e in mezzo agli altri (fatto che un tempo, e anzi per varie epoche, era risultato tanto comune) era per lui fonte di un ristoro indefinito. In effetti, a molti quella radura era sembrata un luogo ideale per ritrovarsi. Il podere non era recintato, il nuovo proprietario lontano, se qualcuno cantava non disturbava nessuno. Per questo, quando cinque ragazzi di Ferrara arrivati in paese chiesero dove accamparsi per un paio di giorni, Claudio suggerì loro il prato, senza alcuna esitazione.

Erano amici di Massimo; anzi, per la precisione Francesco era suo cugino, ed era venuto con Isabella, la fidanzata, a cui si erano aggiunti Miriam, Sergio e Ruben, tutti giovani universitari (avevano da poco superato la Maturità). Francesco e Isabella avrebbero trovato facilmente alloggio presso gli zii, ma avevano deciso di condividere la trasferta in tenda con gli altri. Così si erano sistemati. E Massimo e soci, la sera, erano scesi da loro, compreso Carlo, a cui le nuove conoscenze – all’oscuro della sua vita – portavano ossigeno.

Naturalmente, tutti ignoravano che quella radura, per così dire, fosse già stata presa, anzi dichiarata terreno occupato, anche se nessun segno era stato posto in tal senso sul prato, o sulla strada d’accesso, rendendo dunque impossibile la comprensione di ciò che era accaduto. Ai margini della radura, però, fra gli alberi, con l’aiuto dei suoi assistenti, Bruno aveva costruito due fortini, la sede del suo quartier generale. L’improvviso insediamento degli stranieri in una terra che lui e i suoi avevano faticosamente colonizzato lo costrinse a una difesa d’urgenza. Nel tardo pomeriggio, da un punto sovrastante la strada, lui e gli scudieri avevano seguito tutte le manovre con cui Francesco e i compagni, ignari, avevano sistemato le loro tende. Aveva visto come Miriam e Roberto litigassero per scherzo su chi dovesse piantare i chiodi nel terreno, e così i baci tra Francesco e Isabella. Di fronte alla necessità di intervenire, Bruno consigliò prudenza, pensando che il giorno dopo, venerdì, sicuramente gli intrusi sarebbero andati a fare qualche escursione. Personalmente – disse agli altri – godeva di un vantaggio: avrebbe finito di lavorare a mezzogiorno. Quindi l’appuntamento poteva essere al parco già alle due. Li congedò raccomandando puntualità. Sulle prime aveva pensato di dar fuoco all’accampamento, ma l’incendio, oltre che farsi difficile da gestire, avrebbe potuto mostrare un po’ di fumo visibile nell’ultima parte del paese, che avrebbe potuto spingere qualche persona a insospettirsi. Non bisognava lasciare nulla al caso.  

Così il giorno dopo, all’ora concordata, Bruno e tre ragazzi (oltre a Cisco e Roberto c’era anche il più grande Mariano) arrivarono nella radura che mostrava solo tre tende chiuse. Come il capo aveva intuito, non c’era nessuno. Non ci fu alcun momento solenne, prima di agire: si trattava del semplice sabotaggio di un’incursione. Bruno si guardò attorno con la sua espressione concentrata, serio come lo si può essere davanti a un passo inevitabile. Al suo ordine, gli altri tre sfasciarono le tende mentre lui, con un pesante secchio di vernice nera rubato nell’officina dove lavorava il padre, copriva con cura i resti dell’accampamento nemico. Avrebbero poi festeggiato al parco, in paese (nello zaino aveva con sé le patatine comprate per tenere alto il morale della truppa).

Gli era tuttavia sfuggito un dettaglio, ossia che il giorno prima Francesco aveva pregato Massimo di andare l’indomani pomeriggio a dare un’occhiata che tutto fosse a posto, cosa che questi fece, arrivando con la moto da enduro mentre il rito di purificazione stava per concludersi. Spenta la moto e colta in un istante la faccenda, Massimo si gettò su Bruno, a cui il segno del comando questa volta non bastò, dato che Massimo era più robusto e decisamente più forte di lui. Così il nostro Bruno, dopo aver ricevuto un pugno in faccia e due all’addome, fu costretto a terra ed ebbe la peggio. Steso sulla schiena, aveva un’espressione indefinita – disse Massimo – non tanto lo sguardo di chi è sconfitto, bensì quello di chi trova che la forza in quel frangente non sia dalla sua parte, perciò rinuncia a opporsi conservando le energie per un momento più opportuno. E infatti si arrese con una mansuetudine inedita alle condizioni di Massimo, che gli legò le mani dietro la schiena e lo costrinse a salire in moto con lui.

Terrorizzati, i ragazzi avevano preso le bici ed erano fuggiti.

Mentre salivano per la strada, Bruno avrebbe voluto buttarsi dalla moto – Massimo lo sentì dare un paio di scossoni – ma evidentemente, fatti due conti, considerò che non ne sarebbe valsa la pena.

7.

Le ultime tracce di austerità che nel tempo erano stinte rendendo più chiaro il grigiore del nostro paese non avevano frenato le voci sull’episodio. Del resto, in un borgo privo di notizie di rilievo, la vicenda presentava numerosi ingredienti perché se ne parlasse a lungo, a cominciare da un colpevole pressoché annunciato, da cui i più si aspettavano o temevano qualcosa. Peraltro, i danni non furono nemmeno così clamorosi, visto che alcuni vestiti e oggetti all’interno delle tende si erano salvati; l’impatto dell’episodio fu però amplificato fino a renderlo minaccioso. Anche questa volta Dario mise mano al portafoglio, ripagando tutti nel tentativo riuscito di evitare la denuncia penale; ma in questo caso pagare non fu sufficiente, e non tanto per Francesco e soci, o per Massimo. Dopo aver concorso, sia pur in misura minore, al risarcimento, i genitori dei ragazzi coinvolti intimarono a Dario di far visitare Bruno e di inserirlo in qualche programma di osservazione psicologica, altrimenti avrebbero proceduto loro con la denuncia ai fini di ottenere il suo allontanamento e un chiaro divieto di avvicinamento ai giovani. Nel coro delle voci contro Bruno, oltre a una condotta ambigua verso i ragazzi (peraltro senza riscontri definitivi) uscì anche un altro episodio di violenza, questa volta contro Piero, un disabile in sedia a rotelle (la testimonianza della cugina di Piero risultava però contraddittoria). Lo stesso maresciallo capo dei Carabinieri, Carmine Uscaroni, informato dell’accaduto, consigliò Dario di prendere i provvedimenti adeguati.

Quanto a Carlo, oltre al padre, gli amici tentarono per quanto possibile di tacergli la cosa, o almeno di differirgli la notizia: invece la venne a sapere quasi subito, attraverso le lamentele di Miriam, incontrata in strada nel tardo pomeriggio di quel giorno (lei ignorava di doverlo tenere all’oscuro). Nei giorni seguenti lo si vide spesso seduto sulla panchina fuori la chiesa di San Lorenzo, ai margini del paese. Carlo fantasticava una via d’uscita, un pomeriggio sereno in montagna, in cui se ne sarebbe andato da solo con lo zaino, con un po’ di pane e un pezzo di formaggio, lontano dalla gente e da troppe questioni. Sognava un messaggio di Lucrezia. Continuava a rivederla in un quadro esposto al Bar Citati, che ritraeva una donna vestita di rosso (una vecchia pubblicità del Campari). Consapevole che la situazione della famiglia si stava complicando, Claudio aveva cercato di incoraggiarlo.

I colleghi di Dario furono quasi interamente solidali con lui. Per quanto qualcuno dubitasse della sua capacità di incidere sul comportamento dei figli, prevalse la comprensione per le sue difficoltà di vedovo alle prese con due giovani privi dei mezzi necessari per affrontare la vita in comune. In effetti – era l’opinione esposta con invidiabile equilibrio da Lorenz (reparto verniciatura) – la condizione dei due ragazzi, autosufficienti ma incapaci di rendersi concretamente autonomi, poneva una seria questione di ordine sociale perché, se da una parte non esistevano strutture in grado di supportarli, dall’altra difficilmente sarebbero stati in grado di cavarsela da soli.

Interrogato dal sindaco, alla presenza del padre e del maresciallo dei Carabinieri, Bruno diede brevi risposte, alludendo a un’oscura invasione, che i forestieri avrebbero messo in atto contro di lui. Il proprietario del podere venne messo al corrente e invitato a sistemare una stanga alla strada di accesso, nonché una serie di segnali inequivocabili che ribadivano la soglia della proprietà privata e il divieto di ingresso, raccomandazione che eseguì pressoché all’istante.

Al termine di una settimana faticosa, oltre ad aver pagato, Dario aveva dovuto discutere con le autorità, telefonare ai familiari delle vittime, parlare con quelli dei ragazzi e coi suoi colleghi. La sera del sabato, rimasto solo, coi figli chiusi in due camere separate, nella luce della tv a cui aveva tolto il volume, rifletteva sulle ragioni del comportamento pubblico dei ragazzini delle medie, non nuovi a episodi discutibili, e su suo figlio, che coltivava un sogno infantile e impossibile. Se da allora in poi Bruno sarebbe stato segnato a dito, osservato dai Servizi sociali e destinato a piccoli lavori riservati alle persone a rischio di esclusione dalla comunità, Carlo avrebbe probabilmente finito per trovare la sua vita impraticabile, oppressa da rilievi e resistenze dei potenziali interlocutori del paese ingigantite ad arte; allargandosi alla comunità intera, la commiserazione lo avrebbe travolto anche al di là dei suoi limiti, soffocando le sue già deboli risorse d’intraprendenza. Gli avrebbero trovato un posto di lavoro protetto per continuare a compatirlo. Se la natura con loro due era non era stata prodiga di doti, le osservazioni che in quei giorni erano state loro mosse si sarebbero presto tramutate in costume, passando in giudicato non il caso, ma l’intera loro vita. Si alzò per farsi un caffè: era stanco, gli mancavano ancora undici anni alla pensione. Dalla finestra, la luna era uno spicchio di luce. Dopo un’altra ora trascorsa a rimuginare, si convinse che l’unica possibilità per ritrovare un ambiente non ancora compromesso fosse quella di ritornare da dove era venuto, portandosi dietro i figli.

Così, nel giro di un mese, si dimise dal lavoro e si congedò dagli amici. I figli ripartirono con lui senza aver trovato né il riscatto, né l’amore.

Nessuno sentì più parlare di loro.

Questo racconto è opera di fantasia. Ogni riferimento a persone o cose è da ritenersi puramente casuale. (wn)

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