
In memoriam G. C.
Chi, precipitando da chissà quali vertigini giù giù fino ad attraversare l’ultimo cielo e poi contro le acque della baia di Saint-Jude, prima della morte avesse il tempo di considerarne i contorni, e il loro implacabile precisarsi all’approssimarsi di quella… Senza dannazione non ci può essere vera geografia, né viaggio alcuno: turismo, tutt’al più. Satana precipitando attraverso le acque e le tonnellate di roccia e di metalli incandescenti primo cartografo, ogni mappa niente più che nostalgia per quello sguardo di angelo non ancora fatto demone, ma già per sempre escluso dal regno dei cieli. Chi, Satana, cadendo?
Giù, giù, giù…
Le onde del nord sembrano essersi volute scavare il semicerchio della baia come una tana tra i rovi, chiusa alla violenza dell’oceano dall’isolotto di Lyshn a imitazione di un cranio umano di cui l’isolotto sarebbe allora una prima e orfana vertebra. Ancora non si distingue alcuna forma vivente: non da questa altezza, né l’uno dall’altro i tetti delle case e le vie, e le vie dalle campagne. Solo la prateria bretone si spalanca alle spalle del paese come una continuazione del mare. Non fosse per quegli irregolari rettangoli in cui, scimmione squilibrato, ossessivamente ritaglia ogni terra, quasi non si direbbe sia mai esistita l’ombra di un essere umano sopra quello che per ora non è che un cerchiolino azzurro in un bordo di coste altrimenti disfatto e lacero. Il morsichino di un verme lungo il bordo di una foglia. È uno dei suoi primissimi ricordi: una foglia appiccicaticcia di tiglio, il piccolo bruco verde che la mastica. Avvicinando la foglia all’orecchio, potevi sentire il rumore delle mandibole dell’insetto, fattosi assordante prima che una mano adulta ti colpisse sulla faccia, una mano attaccata a nessun volto, un anello d’oro quasi assorbito nella carne di un dito troppo ingrassato.
Eri volato in terra?
Chissà se la terra, quando la raggiungerà, lo sbalordirà con lo stesso bruciore di quello schiaffo silenzioso e improvviso. Ah, quasi ci si dimentica dell’impatto, né del resto si ha più il benché minimo ricordo del perché ci si trovi lì. Un aereo è esploso? Un paracadute non si è aperto? Un turbine d’aria ci ha rapito da terra verso queste altitudini irrespirabili e ora ci abbandona? Quasi ci si dimentica perfino di essere vivi e dell’allarme che si dovrebbe provare ad essere quassù. Chi, Satana, cadendo? È il momento di massima vicinanza ai corpi celesti, e alla loro indifferenza. Ma come ogni cosa quaggiù di continuo si sfa, e persino gli astri prima o poi precipiteranno in un infinito mare, ecco che cominciano quasi per magia a disegnarsi le prime strade, e i bordi luccicanti delle risaie a sud est dei confini della città: e la città stessa, ecco, appare, e con lei il futuro, che per noi tutti è lo stesso che dire morte.
Giù, giù, giù…
Eppure eravamo certi che mai e poi mai una caduta avrebbe potuto ucciderci. Nostro padre dietro di noi, pronto a prenderci per la collottola proprio prima che spiccassimo il volo tra le colonne che contornavano la torre medievale di… ma da quale torre mai si potrebbe precipitare per ritrovarsi così lontani dalla terra da dimenticare persino di appartenerle?
Chi, Satana…
Il reticolo di vie della città vecchia, in cui la menestrelleria degli storici locali, indifferente ai più recenti risultati dell’archeologia accademica, come un montanaro geloso dei propri formaggi, insiste a leggere un’impronta cartaginese, ritaglia in trapezi scaleni e piazzette triangolari la zona centrale della baia, sorta di tiara abnorme e irta di aculei sospesa sopra l’Hôtel Étoile-de-mer, centro gravitazionale della spiaggia di Saint-Jude e meta presso che inevitabile per chiunque passi anche solo poche ore nella città.
Giù, giù, giù…
Pare quasi di rimpicciolire man mano che la terra si approssima. Eravamo giganti, prima di precipitare, e la furia con cui la terra ci chiama a sé quando ci separiamo da lei trascende, forse, il mero calcolo newtoniano, o almeno così pare al bambino mentre l’azzurro della baia si approssima. Il trasparente e crudele mistero della caduta. I corpi si attraggono, precipitano uno contro l’altro schiavi di una necessità precedente alla vita e forse persino all’essere: la necessità satanica della caduta.
Oramai si distinguono le vie intorno all’antico centro chiamiamolo pure, anche noi, cartaginese: ad est un avvolgersi sinuoso e circonvolutorio, quasi la sezione del cervello di un gigantesco cetaceo, non fosse che gli apparentemente insensati va e vieni si avvolgono in realtà lungo le pendici e le vallette dell’altura che separa il corpo centrale della città dal quartiere del Porto Nuovo, di là dalla baia e verso il mare aperto.
Dall’altra, a occidente, un affioramento meno pronunciato ma talmente ripido e friabile che ormai nessuno vi costruisce più nulla. Lo si attraversa con un tunnel di poche centinaia di metri che mette su nuove spiagge e quartieri residenziali. Sulla sua cima ormai abbandonata sopravvivono, mezzo inghiottite dalla vegetazione, le capanne, le rotaie e i canali artificiali di un parco divertimenti fatto costruire all’inizio del secolo scorso dai primi proprietari dell’Hôtel Étoile-de-mer. Al corpo del parco divertimenti la direzione dell’hotel aveva voluto anche aggiungere alcuni bungalow di lusso per gli ospiti più riservati e facoltosi. Per un certo periodo negli anni ’90 uno di quei bungalow godette di una morbosa forma di interesse quando dai registri risultò essere stata l’ultima dimora europea conosciuta di Josef Mengele prima di salpare per il Nuovo Mondo e lì far rigermogliare il fiore di sangue che non ha bisogno di alcuna terra e alcun giardiniere.
Se il seme del frumento non cade nella terra…
E se fosse possibile precipitare all’infinito, rimpicciolendo sempre di più all’avvicinarsi del suolo, scivolando tra goccia e goccia d’acqua e tra granello e granello di sabbia, e infine senza mai fine, tra le onde, e nelle onde dentro le onde e dentro le onde? Mescolate in gorghi giocattolo da una gigantesca mano invisibile. Seduto in una vasca da bagno così grande che potevate starci dentro tutti e due, giocavi con tuo fratello: “Le onde del mare, le onde del mare…”
Come uno sciame di mosche ora, e man mano che ti avvicini ecco un nugolo di rondini morte sulle onde, anzi no, mentre le prime raffiche di vento ti trasportano e fanno rotolare, guardale, le rondini, prendere il volo e zigzagare sopra la schiuma come lungo le linee di una geometria ulteriore e inaccessibile alla rozzezza ortogonale e ossuta degli umani.
E con un’ultima rotazione lo sciame di rondini si inchioda sul suolo informe delle onde. Sono bambini, come te, in piedi su piccole tavole da surf. Non sei niente, non sei nemmeno il niente, sei seduto sul bordo dell’essere come un gatto davanti a una porta, ma conosci quelle rondini e quei bambini tendi la mano verso quello che arrampicandosi in cima all’onda più alta sembra sul punto di precipitare verso il cosmo. Conosci le altre rondini, e ancora non sai di essere una rondine anche tu. Ma le conosci, e l’orrore è di un millimetro più lontano. Potresti rimanere con loro tra loro e anche senza riuscire mai a ricordare chi sei saresti ancora salvo, perché conosceresti le rondini…
E così apri gli occhi alla vecchissima e continuamente sconvolgente rivelazione della realtà del tuo letto e della tua camera. Ma questa volta stai piangendo anche tu come l’uomo quasi morto del tuo sogno, anche tu sconvolto perché dopo quel volo ancora non sai chi sei. Ovvero, non lo sai più, e sai che una volta lo sapevi: è questo che ti fa piangere e disperare. Chi sei? Non sei niente, non sei né sveglio né addormentato, solo il puro orrore dell’essere. Piangi. E alla fine, anche quando riapri gli occhi sul serio, quel vuoto non ti abbandona. Non sei niente, né sveglio né addormentato. Ma adesso ti fa meno paura, forse perché a questo punto hai già fatto colazione e quindi qualcosa sarai pure, non fosse che i biscotti che hai trangugiato prima di uscire, e questo sole che ti colpisce mescolato con i temporali del Mare del Nord, sarà pure lui qualcosa, e tu non cadi più, non stai più precipitando; me le onde si inarcano quasi immobilizzandosi in cielo, come immense spirali blu o artigli di grifoni incorporei. Non puoi più precipitare, e quindi qualcosa ora sei.
A cosa servono le lacrime?
Com’è possibile che le onde siano più alte dei tetti delle case? E tuo malgrado ti stropicci gli occhi, casomai anche il risveglio non fosse che una continuazione del sogno. Non sei niente, non sei né, né. Riempi gli spazi con quello che vuoi, tutto precipiterà nel vuoto che ti si è spalancato in quell’altro cielo dentro la tua testa. “Le stelle sono le radici dei capelli del gigante dentro cui abitiamo, e noi siamo il suo cervello…”
Le parole a furia di ripetersi diventavano una cantilena il cui significato era finalmente perduto, Leòn… Dedelmàààreee… Leòn… Dedelmàààreee… su e giù come lo saliscendi di una caravella nella tempesta.
Come descrivere questo ultimo abbattersi di deserto azzurro, la polvere che si solleva per centinaia di metri dando al viaggiatore l’illusione di stare navigando le nuvole. In ultimo questa caduta ha il nome di primavera, dici proprio “primavera” aprendo finalmente i tuoi veri occhi, le città come incendi sotto le nuvole, e il pensiero che esista la primavera ti consola finalmente dall’orrore di essere senza essere niente. Ma quell’orrore, lo sai, resterà oramai per sempre in un angolo della tua testolina.
Si è scavato la sua tana.
Sto aspettando nel tuo cervello.
Bentornato. Già già già, anche la colazione era un sogno. Ora sei sveglio. Questo, sì, sei. Segui con gli occhi il tratteggio di luce della tapparella malchiusa, e c’è ancora l’ombra del terrore di quando da bambino piccolo pensavi fossero gli occhi di un cane giallo nascosto nel buio. Lo sei ancora, un bambino. Senti la voce di tua madre, senza distinguere le parole, e quasi invece ti parlano ancora le coperte che frusciano, parlano di onde e precipizi e della baia di Saint-Jude, e il tuo cuore acerbo cui l’anima che ancora si divincola precipitando dal cielo fatica a riancorarsi, riottosa, legna verde brucia e non fa fiamma è la ninna nanna che ti cantava tua madre quando eri davvero un bambino, e ancora adesso quando ti svegli ti capita di ridirlo sottovoce, bruciare senza fiamma come una nostalgia della tenebra.
Occhi gialli di cane nero nella carne.