δι’ ένεργείας ές άργίαν…
Carlo Michelstaedter
I personaggi della raccolta di racconti Storie di solitari americani” (traduzione e cura di Daniele Benati e Gianni Celati – Edizioni BUR, Luglio 2006) li conosciamo da tempo, quasi tutti: quelli più famosi ed emblematici,come il Bartleby di Melville, il Wakefield di Hawthorne e l’Uomo della folla di Poe, e quelli più fragili, criminali o sognanti, come il Misfit di Flannery O’Connor o i protagonisti delle storie di Delmore Schwartz e di Kate Chopin. È da tempo che siamo in ascolto delle loro parole, che meditiamo sui loro gesti e ammiriamo le loro finezze filosofiche e morali. Ritrovarli ora tutti in unico libro, in un’unica storia – raccontata e seguita passo passo anche nelle sue implicazioni sociali, storiche e metaletterarie da Gianni Celati in un ampio saggio introduttivo – invoglia a una riflessione generale non tanto sulla loro appartenenza a una letteratura (quella americana) e a un genere (le short stories), quanto sul loro carattere precipuo, su quella che, non solo nel titolo della raccolta, è indicata chiaramente come la loro tara o grazia fondamentale: la solitudine.
La solitudine come ci viene mostrata in questi racconti dell’epoca moderna (il primo è del 1830, l’ultimo del 1953) allude con evidenza all’interruzione del meccanismo sociale della vita intesa come continuazione obbligata, come peso e responsabilità individuale e di specie. Da un’intuizione molto simile a quella di Carlo Michelstaedter, secondo cui “quanto è peso pende e quanto pende dipende”, nascono le esperienze illuminanti e utopiche di Wakefield e di Bartleby, di Flitcraft e del Misfit – esperienze che disperatamente, ma anche con intelligenza quasi sovrumana, tendono verso la leggerezza assoluta del vivere, verso lo sganciamento dell’esistenza da tutti i legami possibili con ciò che sta al di fuori di essa e quasi la ricatta.
I solitari americani si fanno ammirare perché vivono con semplicità a prescindere dalla legge, dalle apparenze e dai dettami sociali, e, così facendo, riescono a farci vedere i limiti della Morale, della Società, perfino della più penetrante e sicura Visione del Mondo – in altre parole: riescono a parlarci senza ipocrisie della malattia della vita. Soltanto attraverso gli occhi e dalla bocca di un solitario che si è messo sui confini dell’essere, noi possiamo vedere e ascoltare quello che siamo diventati, perché il solitario è colui che ha reciso la catena dei bisogni nel suo anello fondamentale: la vicinanza agli altri. Egli non fa a meno degli altri, ma fa a meno del suo proprio bisogno degli altri (fa a meno degli altri come bisogno), e così facendo richiama a sé una salute che non si trova da nessun’altra parte se non nella persuasione di sé. Da queste solitudini sconfinate, e mai ostentate, si arriva dunque a superare, con un agile e semplice gesto (Wakefield) o con una piccola frase (Bartleby), l’imperfezione costitutiva della vita – il cui unico scopo, allora, non sarà altro che la vita stessa.
Come asceti mondani, i solitari americani sono qui, nel deserto che abitiamo tutti i giorni, per mostrarci una via, ma senza mai farci la morale: è in questo che risiede la loro forza quasi soprannaturale, ma anche asociale e utopica. Wakefield, Bartleby, il Misfit e gli altri personaggi moderni che si sono incamminati sulla via della solitudine – che poi non è mai tanto lontana, sta qui dietro l’angolo o sul posto di lavoro o dentro di noi, nei nostri sogni e nei nostri rovelli psicologici – stanno per guarire dalla malattia della vita, e poco importa che la guarigione consista infine nella scomparsa definitiva o nella morte o in una pena ancora tutta da espiare; quello che conta è che essi riescano finalmente a venire ai ferri corti con la vita e a farla consistere in niente altro che in un sano, indipendente movimento a vuoto nello spazio interminato. Siano le sentenze messianiche alla rovescia di Misfit, la frasetta cerimoniale di Bartleby o il mutismo osservativo di Wakefield, noi comprendiamo che la solitudine praticata da questi personaggi suggerisce che qualsiasi attività, per essere felice, non deve essere obbligata e proiettata verso la produzione di un oggetto o il soddisfacimento di un bisogno (anche gli altri uomini possono diventare una catena e un bisogno, Marx docet), ma lasciata andare alla deriva verso una naturale indifferenza e inerzia. D’altra parte, è questa la missione dei solitari, da che mondo è mondo: riportarci il senno – la salute – dalla Luna o da una sperduta foresta, rammentarci l’utopia della vita che, pur senza uno scopo oggettivo, raggiunge la pace soltanto attraverso un lavorio costante e instancabile su di sé.
Bisognerebbe osservare però, a questo punto, che la solitudine spaventa l’uomo moderno come nessun’altra cosa, appunto perché nella solitudine non c’è più nessuno che possa giudicarci e giustificarci l’esistenza, per quanto vuota essa sia. E poiché l’esistenza moderna si fa sempre più vuota, l’uomo moderno ha l’ulteriore bisogno di non restare solo con la propria vita, perché rischierebbe di rimanere stecchito all’istante dinanzi allo specchio della propria inconsistenza. Ha bisogno impellente degli altri come di una droga chimica, della veloce (velocissima) apparizione (solo l’apparizione) degli altri che gli dicano: tu esisti perché hai bisogno di me, perché hai bisogno di tutto. L’uomo moderno ha ricevuto fin da subito la promessa di non rimanere mai più solo: in cambio, gli sono stati assolutizzati e sacralizzati i bisogni in una rete di soddisfacimenti che reificano l’Altro e il Mondo, rendendo tutto estraneo e, allo stesso tempo, impedendo ogni salutare solitudine – favorendo, all’opposto, un isolamento ammorbato fatto di dipendenza materiale e spirituale. Isolati ma incapaci di esser soli – perché è innegabile che nella rete dell’esistenza intessuta di viscidi bisogni, del tutto privi di un’idea di salute, cioè senza la fermezza di Bartleby o del Misfit per abdicare al giudizio altrui, siamo tutti più soli. Del resto, “la salute la dà solo Iddio”, come scriveva Michelstaedter, e noi siamo invece completamente disabituati a sentir pulsare il fiato di un qualsiasi dio nelle pieghe dell’esistenza universale. Siamo soli, ma senza salute – ammassati uno sull’altro, ma sperduti: appunto nemmeno più capaci di intuire la forza divina della solitudine che libera dal bisogno.
“Storie di solitari americani” è curato e tradotto da Daniele Benati e Gianni Celati , studiosi esimi del fenomeno della solitudine moderna, e autori non casuali di opere che ne scandagliano i caratteri e la storia. Ricordo qui velocemente il romanzo di Benati sulla solitudine americana, Cani dell’inferno, e i suoi racconti della raccolta Silenzio in Emilia; poi i Narratori delle pianure di Celati, infarciti di storie esemplari di ribelli solitari, e Fata morgana , che addirittura parla di un intero popolo isolato e sperduto. Benati e Celati: figure a loro volta curiose di solitari, lettori e studiosi appartati, ma sempre pronti ad apparire all’improvviso con un certo strano ghigno in cima al burrone nel quale siamo precipitati – forse per rammentarci, con storie e discorsi sorprendenti e spiazzanti quasi quanto le riflessioni del Misfit di Flannery O’Connor, l’angoscia della vita e la necessità della salute.”