… I’ vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca sol per maestria”Guido Cavalcanti
Prima ipotesi – uno spettacolo di burattini
Leggendo In cuniculum (Edizioni La Carmelina, 2009 – poi Zibaldoni 2013), opera prima di Lapin – scrittore mascherato da coniglio, ma vero e profondo come quasi nessuno dei suoi contemporanei mascherati da se stessi – c’è un solo modo per non cadere nelle sue trappole metafisiche e patafisiche: accettarne la provocazione con serietà infantile fino in fondo, perché il punto non conta svelare le regole del gioco, ma continuare a giocare, e se possibile a rilanciare il marchingegno che Lapin stesso mette in movimento. Gioco mai fine a se stesso, come nella letteratura potenziale, e marchingegno senza razionalismi, come nella “letteratura pura”, In cuniculum assomiglia piuttosto a un automa, esattamente come il suo autore nel quale felicemente si specchia – automa tutto scatti nervosi, spiriti volatili, sogni a occhi aperti, che ci aiuta, però, con le sue fantasticazioni, a superare la paura e ad accettare il nostro destino animale e mortale con gioia insensata, come bambini che allo spettacolo dei burattini, senza saperlo, discoprono il velo con cui quasi sempre la cultura inganna la natura.
Origine di Lapin
Lapin non parla, riferisce Angelo Angera, curatore di In cuniculum, ma scrive su foglietti volanti, come Beethoven quando era sordo. Scrive di tutto: aforismi, racconti più e meno brevi, notazioni entomologiche, frammenti di pensiero, testi sacri, nonsense, riflessioni sulla musica e sul teatro, e tanto altro ancora non facilmente classificabile – come il suo autore, del resto, assimilabile piuttosto ai mostri per coalescenza del Paleolitico. La maschera da coniglio che indossa viene da lontano, per la precisione dal Paleolitico superiore, da un’incisione rupestre che attesta la prima apparizione di un uomo con una testa da coniglio circondato da cacciatori con lance. Si è ipotizzato, a tale proposito, il collegamento della maschera del coniglio ad antiche religioni, a rituali di passaggio di maschere, dai quali misteriosamente, a un certo punto, Lapin deve essere stato escluso e costretto alla fuga nel suo cunicolo, all’interno del quale per diversi millenni scriverà e costruirà maschere e burattini. Insomma, Lapin sarebbe una specie di stregone rimasto all’improvviso senza pubblico e senza mestiere, ovverosia – come suggerisce Angera – un Papa del nulla.
In cuniculum
Lapin viene fuori dal cunicolo, secondo alcune testimonianze, nel 1572, e da questo momento in poi saranno piuttosto chiare le tracce dei suoi spostamenti, che riguarderanno la Francia (nel Settecento), l’Inghilterra (sono attestati rapporti con Foscolo) e l’Italia, dove Lapin entrerà in rapporto con alcuni archeologi, per ovvi motivi particolarmente interessati alla sua storia. Nel Novecento, Lapin avrà rapporti di stretta amicizia con Erik Satie e, più recentemente, con il fotografo Marco Belli e la regista teatrale Viviana Piccolo , che ha ideato la maschera che attualmente indossa Lapin, accogliendolo poi nella propria compagnia. Ma l’evento culminante della biografia e dell’opera di Lapin è una festa in occasione del capodanno dell’anno 1985 a Ibiza. Qui, a causa dell’assunzione involontaria di droghe, Lapin getta in un braciere per la carne alla griglia i foglietti manoscritti della sua opera biografica, che aveva raccolto nel corso degli ultimi due secoli sotto il titolo In cuniculum. Di questi foglietti, alla fine della festa, Lapin, ritornato lucido, riesce a salvarne una parte, che poi il filologo Angelo Angera sistemerà, d’accordo con l’autore, nel libro edito nel 2009 dall’editore La Carmelina di Ferrara.
Seconda ipotesi – un parto dell’immaginazione
In cuniculum si presenta come uno zibaldone, suddiviso in undici capitoletti, intitolati ad esempio “Frammenti politici”, “Castighi”, “Dialoghi religiosi con Pulcinella”, “Cuniculum in cuniculum”. Per la verità, Lapin preferisce parlare, invece che di frammenti, di “tisons” (tizzoni), per ovvi motivi collegabili all’esperienza di Ibiza, e anche perché pare che siano realmente tutti bruciacchiati i foglietti superstiti di quella festa. La prima cosa che salta agli occhi in questi testi è la loro perturbante prossimità al mondo animale. Dappertutto nei “tisons” circola una fauna variegata, sospesa tra realtà e finzione, che rende In cuniculum molto simile alle opere di Bosch o ai Bestiari medievali, con l’unica differenza che nell’opera di Lapin non c’è alcuna morale sottintesa, ma tutto scorre come un naturale parto dell’immaginazione. Naturale perché i racconti con squali che sognano e scoiattoli che entrano e escono dal corpo umano, hanno un legame profondo, più che con Bosch e i Bestiari (con i quali intercorre piuttosto una parentela di superficie), con la coazione a ripetere dell’infanzia e con il suo gusto per la parola associata alle cose e agli esseri viventi per analogia, e quindi cosa animata essa stessa. In cuniculum, come si intuisce fin dal titolo, è un invito a discendere nelle profondità abissali dell’inconscio, dove albergano esseri di tutti i tipi, al fine di stringere alleanze pacifiche, come quando da bambini eravamo capaci di trasformarci in tutte le cose e in tutti gli esseri viventi, e riuscivamo a parlare di tutto con tutti.
Inconscio e identità
Una particolarità paradossale dell’inconscio in cui sguazza Lapin con le sue scorrerie tra su e giù, dentro e fuori la tana, è che si trova tutto squadernato all’esterno, non ha nulla di individuale e di personale (Lapin non è una persona, ma una maschera!), è tutto proiettato nel mondo in cui viviamo. È rassicurante ma non sicuro – come Lapin è mite e violento insieme. “Ogni gesto, ogni parola di Lapin – ha scritto W. Benjamin – è una variazione sul tema dell’andar via di casa per scoprire cos’è la paura”. Nello spazio aperto della scrittura di In cuniculum, che è lo stesso spazio sconfinato dei sogni, Lapin fa i conti con tutto ciò che di antiumano l’uomo ha creato intorno a sé e dentro di sé. La paura è il limite sociale della civiltà e dell’umanità adulta: Lapin lo valica, ma procedendo all’indietro (lo Stato di Hobbes, al contrario, è la matrice del procedere in avanti, del progresso), e giungendo alle soglie dell’infanzia senza rischiare di diventare infantile. Per riuscire a parlare dell’infanzia, non ci vogliono scrittori di idiozie, ci vogliono pure maschere, e Lapin è una di queste. Le sue evoluzioni sono evoluzioni sulla soglia del mito, scevre di preoccupazioni per la cosiddetta “opera” – e per eseguirle, Lapin abdica alla sua identità, ossia all’unica cosa per la quale oggi un uomo sarebbe disposto a dare la… vita! Privo così di un nome e di un cognome, Lapin può inventare nuovi miti, offrendo una guida credibile al lettore moderno nella selva luminosissima, abbacinante della famigerata realtà oggettiva. I nuovi miti messi su da Lapin hanno la vivacità primitiva e oscura del pensiero che non si è ancora liberato dal groviglio delle emozioni. È il pensiero che non ha ancora messo da parte la sua facoltà fantasticante e la sua ossessiva ricerca del misterioso cunicolo che ci trasporta in un amen nel mondo capovolto dei sogni, che da sempre è già qui.
Terza ipotesi – una parola che non fa la differenza
Come un Messia da baraccone, Lapin viene a incantarci con le sue storie animalesche perché vorrebbe farci capire delle cose particolari. Ad esempio: “La passione che i bambini mostrano di avere per gli animali è la stessa che animò Adamo nel giardino terrestre. Non fu Eva il suo primo amore, ma le fiere; per loro imparò a parlare; solo in seguito, poco prima della cacciata, egli chiese per sé una compagna, e la chiese perché anche lui voleva essere animale tra gli animali. Non fu la parola a dannare l’uomo, infatti egli nell’Eden parlava; fu la conoscenza del bene e del male a rovinarlo. Perciò, la ricerca del Paradiso non potrà che coincidere con la ricerca di una parola ignara di quelle due potenze maledette, ma tutta dedicata alla vita e alle creature di Dio”. L’uomo, secondo Lapin, comincia a parlare non per distinguersi dagli animali, ma per avvicinarsi ad essi. La parola non fa la differenza, ma l’uguaglianza. Quello che fa veramente la differenza è qualcosa che i filosofi chiamerebbero “morale”, che Lapin preferisce definire semplicemente “potenze maledette”. Per andare al di là di tali “potenze maledette”, bisogna cercare una parola che non sia capace di concepirle se non come inessenziali alla vita. Staccato il cordone ombelicale della “morale”, l’uomo può parlare la sua vera lingua, dando voce a quello che resta di animalesco nella sua natura. Per cominciare a parlare, noi abbiamo bisogno degli animali, di pensare agli animali muti, di sentire la loro mutezza per interrogarla. Se l’animale tace, noi finalmente parliamo – o meglio: scriviamo. Fin da bambini è così. Da adulti è molto più difficile, e tocca farsi aiutare, ci vogliono degli esseri di un altro mondo – o delle maschere – che discendano benigni a resuscitare in noi la curiosità, che abbiamo perduto, per il mutismo animale.
La storia della ninfa Io
È come nella storia della ninfa Io, raccontata da Ovidio nelle “Metamorfosi”, che inventa la scrittura dopo che Giove l’ha trasformata in mucca (Io: nome non casuale, perché I e O sono le lettere da cui, secondo il grammatico rinascimentale Geoffrey Tory, hanno origine tutti i grafemi dell’alfabeto). Quando il padre Inaco le si avvicina, ignaro, lei, piangendo dentro di sé, traccia le due lettere del suo nome sulla sabbia, nel tentativo estremo di farsi riconoscere: “littera pro verbis quam pes in pulvere duxit”. La metamorfosi è tutta in questa immagine: la mucca Io scrive, la ninfa parlava. L’uomo parlava, Lapin scrive. La scrittura è ciò che resta dell’uomo che abitava nell’Eden insieme agli animali. Lapin che scrive è ciò che resta di più umano all’umanità, una specie di possibilità estrema, da ascoltare con attenzione, ma senza troppe pretese. Regressione ultima, dunque, fino allo stato animale – solo così si riconquista la parola scritta e si riconquista l’infanzia del genere umano, la sua condizione di partenza, quella in cui è stato possibile “liberare la mano”, come dicono i paleontologi. Eravamo e siamo animali: automi animati dagli spiriti naturali.
Ultima ipotesi su Lapin – una proliferazione di maschere
Nel corso della storia dell’evoluzione umana, a un certo momento (“a metà strada”, sostiene Angera), nella serie ininterrotta di passaggi rituali di maschere e funzioni stregonesche, deve esserci stato un incidente. Qualcuno deve aver annusato la possibilità che, dietro la maschera, potesse annidarsi una specie di impostore dedito ad attività losche, criminose, inaccettabili. Questo impostore ha cominciato a scrivere proprio dal momento in cui è stato scoperto, o forse scriveva già da prima, o forse era stato individuato appunto perché scriveva. Che cosa scriveva? Storie , quasi certamente. Inventava storie farcite di animali, dove gli animali perdevano l’autorità totemica e venivano degradati al livello della commestibilità e della vicissitudinalità, come ogni altro essere vivente. Aveva la mania di scrivere su foglietti sparsi, al lume di candela, seduto a uno stretto tavolino. Se c’è una figura che può essere assimilata a un tale impostore, questa è lo scrittore moderno, di cui Lapin è la verità e la menzogna al tempo stesso. Lapin è la verità della menzogna dello scrittore moderno. Se togliete la maschera a uno scrittore, quello che appare è “una specie di Lapin”, qualcosa di sospeso tra mitezza e violenza, tra burla e serietà, tra finzione e realtà. La garanzia, infatti, che uno scrittore sia tale è il suo esser capace di rispondere alle questioni inerenti alla sua identità con un’espressione muta e una biografia millenaria, e infine con qualcosa che assomigli al nulla di fatto – perché dietro la maschera di Lapin, alla fine, “non c’è altro che la maschera di Lapin” (Angera), ragion per cui chi scrive altri non è che una specie di impostore, mascherato quasi per necessità, che viene a interpretare la sua piccola parte nella sequenza interminabile dei Papi del nulla. Egli – questo impostore – assiso sul suo trono sotterraneo, con una maschera di coniglio al posto del volto, contempla il nulla bruciacchiato dei suoi “tisons” senza più preoccuparsi di nulla. Ma continua a scrivere. Ed è così che Lapin, giocherellando con il destino dell’umanità, e capitolando alla grande con i suoi capitomboli all’indietro, salva la Repubblica delle Lettere dannandola una volta per tutte. Chi segue la sua scrittura bizzarra ma mai leziosa, segue le possibilità ancora infinite dell’immaginazione e di quell’atto misterioso e conoscitivo che è far viaggiare una penna su un foglio o un cursore su uno schermo. Grazie a Lapin e a In cuniculum – in chiusura vogliamo dirla grossa – intuiamo forse dove va a parare la grande mascherata dell’evoluzione umana. “Siamo stati cominciati dai piedi”, spiegava Leroy-Gourhan trent’anni fa, riferendosi alla postura eretta che ha reso possibile il linguaggio umano. Probabilmente, finiremo “aggrappati alla penna come a un ramoscello che si sporge sopra un abisso”, chiosa Lapin, l’essere partorito per coalescenza come lo stregone della grotta dei Trois-Frères – testa da coniglio, corpo umano, e autore di un’opera capace di resuscitare, nei cuori e nelle menti degli automi umani del millennio presente, gli spiriti languenti per eccesso di parole vuote.
Precisazione
Lapin non è un personaggio inventato per occasioni situazioniste o per situazioni occasionali. Niente a che vedere con l’idiozia intellettualoide e la fuffa verbale dei “collettivi di scrittura”, e nemmeno con qualche Grande Nome che si masturba dietro uno pseudonimo scrivendo romanzacci. L’affaire-Lapin nasce per venir fuori da tutto questo e da altro ancora. Lapin, anzi, nasce per venir fuori e basta. La paura è il suo alibi per continuare a provare di venir fuori dal cunicolo – e soprattutto per farvi ritorno. Lapin ha una paura fottuta del genere umano, ma è proprio tale paura a ingeneragli fiducia. La paura fa precipitare Lapin all’indietro con fiducia. Come Alice casca nello specchio, Lapin casca nell’abisso della strada che porta verso casa, verso il cunicolo primordiale, dove pare ritrovare, nei suoi “tisons”, perlomeno l’ombra di se stesso. Una tale fiducia è tutta visibile in una scrittura tanto limpida quanto gorgogliante di figure e arabeschi, dolorosa e automatica (altro che “scuole di scrittura”!), avvitata sulla ripresa e l’elaborazione di sogni e incubi, e animata dalla necessità o urgenza dei pensieri da trascrivere, delle analogie da non far cadere nel vuoto, dei nonsense sapienziali da ripetere all’infinito. Lapin scrive come Manganelli e come Borges, con un gusto feroce per la comicità, per il barocco e per la variatio. Seguendo le sue evoluzioni pirotecniche e regressive, scendendo scendendo, il lettore che si affidi con serietà infantile al narratore mascherato da coniglio, arriva finalmente da nessuna parte – alla corte corrusca dei Papi del Nulla. Come Alice nel paese delle meraviglie, così In cunciulum conduce il lettore in un mondo capovolto, nel “Paese degli incubi meravigliosi”, dove le sfingi sono addomesticabili e fanno innamorare gli uomini ingenui e primitivi, dove qualcuno si invaghisce di una striscia di carta, dove gli animali non hanno alcunché di temibile perché non sono totem, ma esseri viventi come noi. Sono, come noi, come Lapin, maschere del nulla. La loro peculiarità è quella di non far parte di nessun potere e di non avere nulla da sostituire, nessun padre mangiato a cui ubbidire postumamente, nessuna paura da incutere. Il coniglio che scrive senza più paura è la maschera più umana che ci sia.
Il disegno che illustra questo testo è di Hannes Pasqualini ed è tratto da In cunciculum di Lapin.