Scusate, non voglio buttarmi a parlare per forza anch’io di provincia. Molti l’hanno già fatto, e bene, molti ancora lo stanno facendo. I territori bituminosi delle province di pianura e di montagna alimentano felicemente la letteratura italiana, e tanti hanno già riflettuto assai meglio di me su questo rapporto fecondo tra invenzione letteraria e geografie della provincia. Lo ha vissuto sulla propria pelle, per esempio, l’emiliano Silvio D’Arzo, o Ezio Comparoni (per tacere degli altri alias). In lui la provincialità era così profondamente radicata da spingerlo appunto a utilizzare diversi pseudonimi pur di non essere riconosciuto. Rintraccia le linee essenziali di questa liaison conflittuale l’introduzione di Ivan Tassi alle tre versioni del racconto “Casa d’altri” pubblicate con rigore filologico da Diabasis nel 2010. Nelle sue lettere all’editore Vallecchi, D’Arzo ha creato, attraverso finzioni biografiche, falsi dati anagrafici e nom de plume, una ragnatela protettiva dalla notorietà di provincia, che gli suonava come una peste da cui difendersi negando, negando sempre di essere lui. Va bene, i suoi scrupoli erano effetto di un’evidente angoscia depressiva, coltivata nella solitudine di un pudore estremo che rifiutava veri rapporti umani. Ma la provincia che D’Arzo o Comparoni temeva, quella fatta di edicolanti e tabaccaie, parenti stretti e lontani, vicini di casa, amiche della madre, frequentatori di parrocchia, redattori di rivistine e via così, non era frutto delle sue nevrosi: è reale, ancor oggi, gode di invidiabile salute, esercita un perenne giudizio sulle cose del mondo che pure non sa mettere a fuoco e capire fino in fondo, e, concedendo allo scrittore del luogo (qui cito D’Arzo stesso) una fama da “campione ciclista cittadino” o da “tenore”, lo immiserisce, lo umilia, proprio perché non lo comprende. Meglio, ripeteva D’Arzo, l’anonimato continuamente verificato e messo a punto, meglio aggirarsi come un’ombra sconosciuta nelle vie troppo familiari.
La provincia (italiana, ma non solo) è vasta, multiforme, onnicomprensiva. Quello che vorrei tracciare in questa rubrica, se mi riesce, è invece un territorio più modesto e appartato, e assai meno conosciuto: è quella provincia di confine che, per effetto di Alpi o altri impedimenti geomorfologici, si trova circoscritta, rannicchiata su se stessa, lontano dalle grandi inquietudini della provincia di pianura. Ne so qualcosa perché ci vivo – soffrendo un po’, e allungando gli occhi, quando mi riesce, al di là del profilo dei monti.
Quando si vive in una condizione di marginalità (non priva di svantaggi, d’accordo) come quella in cui vivo io, quassù, si va in cerca di autori che abbiano già trovato un vocabolario a cui attingere. Così, divagando dietro a questo bisogno di maestri, qualche anno fa mi sono imbattuto nel triestino Stelio Mattioni, un autore (qualcuno ricorderà le belle, severe e pure un po’ scontrose edizioni Adelphi degli anni Settanta) intriso di questo senso dell’essere al margine. Margine tra uno stato e un altro, ma anche tra una stanza e l’altra (“Dolodi”, romanzo pubblicato postumo nel 2010 da Zandonai), tra terra e mare (“Vita col mare”, Adelphi, 1973), tra una classe sociale e l’altra (“Tululù”, Adelphi, 2002), tra realtà e (per non dire, banalmente, sogno) rimuginio (“Il richiamo di Alma”, sempre Adelphi, 1980). In lui, nella narrazione di questa perenne, inestricabile vocazione alla marginalità, mi sono riconosciuto. In lui la linea di confine tra una condizione e l’altra non sembra un segno geografico, quanto piuttosto una misteriosa piega organica, vivente: si sposta nottetempo, oscilla, confonde, inganna. C’è un altrove, di là, ma resta vago – l’aldiqua non è meno indeterminato, pur della precisione dei dettagli.
Nei suoi romanzi Trieste non pare presentare quella vocazione cosmopolita che ha presso altri autori, protesi verso la Mitteleuropa quanto verso l’Italia e sospesi in una feconda incertezza culturale e linguistica: è piuttosto un’estensione chiusa e diffidente di borgo, che al massimo comunica con le campagne e i villaggi circostanti, per quanto colli e acquitrini non rendano facile la relazione (con il borgo di Muggia, ad esempio, in “Vita col mare”); è una città che non “parla” come una città, anche se nei suoi viottoli si può naufragare: è assieme familiare ed estranea, nutrita di memorie personali e indifferente.
Uno dei tratti dominanti della provincialità, e in particolare per chi sente di viverci suo malgrado, è la scontentezza: che ora si fa mugugno, quando l’ispirazione non c’è o ha il fiato corto, ora elegia malinconica, ora invettiva feroce (facile a questo punto pensare alle intemerate di Thomas Bernhard contro la sua Salisburgo e l’Austria tout court; meno immediato, forse, pensare ai taglienti j’accuse di Jacques Chessex verso i suoi cantoni). E coloro che rifiutano quel che si trovano accanto e attorno, sono sprezzantemente rifiutati e ignorati dal piccolo establishment locale. Anche per questo la scontentezza spinge anche ad allungare lo sguardo, a una curiosità anche un po’ sofistica. Gli scrittori di confine sono così, pencolanti tra due diverse nature o condizioni o lingue, insoddisfatti di entrambe, incerti tra la fuga nel cosmopolitismo e l’arroccamento sdegnoso. In cerca sempre di qualcosa, comunque.
La vera provincialità è questa, non il bozzettismo sorridente, il quadretto laborioso, l’erudizione da membro di accademia, la nostalgia delle piccole cose antiche – verso questi ripieghi impigriti lo scrittore di confine prova un ribrezzo non sempre colorato di umorismo. Ma questo bozzettismo di maniera è la maniera dominante in provincia, quella più foraggiata dalle istituzioni locali, quella che gode di maggiore credito nella pubblicistica locale: lo scrittore di confine è dunque un estraneo, o tale si sente, in casa propria, e talvolta illividisce, di fronte a questo: allora si dà alla parodia del bozzetto, inscena bucolicità perverse, persegue piccole e forse inutili vendette letterarie; più spesso alza lo sguardo e il naso, dopo un sospiro, inspira più a fondo in cerca di nuovi odori.
Trovo una bella definizione di questo spirito di provincia nei “Souvenirs sur Igor Strawinsky” di un altro svizzero, Charles Ferdinand Ramuz, del 1929 (rileggo in questi giorni le schiette pagine di Ramuz nelle Editions de l’Aire, 1978; non credo che l’operina sia stata mai pubblicata in Italia). Scrive Ramuz (e traduco io, alla bell’e meglio): “Attorno a noi c’era (e ancora c’è) un’immensa coalizione di abitudini e gusti la cui riprovazione d’istinto colpiva tutto ciò che avrebbe potuto turbarla”. Eccola, la temibile passività, l’inerte immobilità della provincia montana, che l’arrivo dell’esule compositore russo negli anni della Prima Guerra Mondiale sconvolge, per via della musica irregolare, disarmonica, che riverberava dalle finestre del suo appartamento, così diversa dalle armonie mansuete dei cori virili alpini (erano le note sghembe e sferraglianti de “Les noces”).
Il discorso, come temevo, si fa complesso. Meglio tornarci su in una prossima occasione.
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