Partiamo dall’uscita di «Riga». I tuoi rapporti con il mondo accademico e con l’insegnamento della letteratura sono sempre stati piuttosto critici: che effetto ti fa, ora, vedere un intero volume a te dedicato?
Queste cose sono come quando ci si innamora, che vai fuori un giorno e il giorno dopo non va più bene. C’è l’intervento di Massimo Rizzante che condivido molto ed è anche ben esposto, quindi è una bella passeggiata quella che facciamo assieme. Poi c’è il saggio di Anna Langhorn che chiama in causa Husserl, nessuno ne ha mai parlato prima ma è stato il filosofo che da giovane ho studiato di più. Sono come passeggiate, tutte queste cose, non è che uno debba credere assolutamente a quello che si scrive sulla letteratura, sono esercitazioni per passeggiare un po’ di tempo con qualcun altro, e qui la scelta è stata di amici simpatici, alcuni più ingenui, altri più scafati.
Nel volume c’è una tua autobiografia in 2000 battute, che trovo molto bella e credo renda bene l’idea di una frammentarietà e precarietà della tua vita fin da giovane. Questi continui spostamenti per il mondo senza mai fermarti a fare un mestiere forse spiegano perché nei tuoi libri sia così presente l’idea del viaggio e del vagabondare.
Questo fatto della fissazione ha due aspetti che approvo entrambi. Uno è la fissazione contadina. Ad esempio nei piccoli paesi di campagna in Inghilterra, nello Yorkshire, dove la gente e lì da quattrocento anni: quello mi piace. Mi ricordo che quando stavo in Normandia sono andato da un tale del Calvados, in una fattoria, e ho chiesto a un signore che parlava un francese un po’ antico: «Ma è tanto tempo che abita qua?». E lui mi ha detto: dal 1714. Mi piacciono questi fatti radicali che risalgono a secoli addietro. L’idea del mettere le radici risale al Neolitico. Il Neolitico è il gran passaggio e l’umanità in gran parte è ancora nel Neolitico, anche se non vuol dire che siano rimasti indietro. Come questo villaggio in Africa su cui sto facendo un film, Diol Kad: è nel Neolitico ma non vuol dire che sia più arretrato del mondo tecnologico. L’altra cosa invece, parallelamente, è il fatto nomadico. Io ho vissuto con i tuareg e sono delle bestie a fiuto, che sanno sempre dove stanno andando, ma per me questa è una cosa impossibile, sapere dove sto andando in un orizzonte. Dunque ci sono varie cose che risalgono a epoche lontane e che ti porti dietro. Quello da cui son sempre scappato via è invece la stanzialità borghese, cui tutti aderiamo bene o male, perché anch’io ho la casetta borghese che mi son fatto con mia moglie. Però la casetta borghese è quella che serviva a stabilizzare la popolazione, per far sì che nell’era vittoriana andasse in fabbrica la mattina, quindi la mia simpatia certamente va questi due tipi di forme arcaiche, quella del Neolitico e quella del nomadico.
Nel volume c’è un tuo testo, Il narrare come attività pratica, nel quale usi un’espressione molto bella, ripresa da Wittgenstein, definendo il narratore come un «rabdomante» e fai un discorso sulla scrittura come narrazione aperta agli imprevisti e alle incertezze del vagare, pronta a farsi travolgere dal vento.
Sì, e soprattutto una narrazione non spiegabile con quattro formule. Come dice Wittgenstein, quando ho esaurito le giustificazioni per quel che sto facendo arrivo allo strato di roccia e la mia vanga si piega, non riesco ad andare oltre. La roccia è il fatto che noi non sappiamo cos’è il tempo. Il tempo è una cosa impossibile da spiegare, salvo se io mi metto a ragionare con Einstein, allora riesco a darmi un’idea di come vanno le cose. Ma sul nostro tempo quotidiano non c’è proprio modo di ragionare.
E come hai risolto questa difficoltà quando in diverse occasioni ti sei trovato a tenere dei corsi universitari? Di recente hanno ripubblicato «Alice disambientata», un testo molto particolare che dà l’idea di un laboratorio aperto attorno al testo…
A me son sempre piaciuti questi libri. Per esempio nel ’90 sono andato negli U.S.A. e ho fatto un corso sul poema cavalleresco. Tutte queste ignorantissime ragazze americane non avevano mai sentito parlare di Ariosto, di Boiardo, del Morgante eccetera. Volevo fare una cosa con loro, scrivere assieme a loro e invece non è stato possibile. Allora ho cominciato a leggerglielo ad alta voce e ho detto: «Adesso tornate a casa e vi registrate mille volte finché non vi viene fuori l’ottava ariostesca pronunciata decentemente».
Ma loro leggevano in traduzione?
No, leggevano in italiano. Ma uno che non legga bene l’ottava ariostesca è inutile che cominci. Deve cominciare dall’ottava ariostesca poi va indietro, va a Boiardo e poi a Pulci. Allora tutte quante si son messe a studiare l’ottava ariostesca e alcune ci riuscivano, altre no. Mi piace molto collaborare. Per esempio il lavoro sulla traduzione di Bartleby fatto in gruppo: abbiamo impiegato due anni e tutti erano entusiasti, ognuno portava il suo contributo, se non fosse stato così sarebbe stata un’altra traduzione. A me piace moltissimo lavorare collettivamente. Invece mi piace poco dir scemenze, dire le scemenze sulla letteratura, dare quelle spiegazioni che non spiegano un accidente. Mi piace moltissimo stare sempre terra terra, quando parlo di letteratura. C’è sempre qualcosa di difficile da esplicitare.
Però a me sembra che anche quando non scrivi narrativa, nei tuoi interventi o saggi, da «Finzioni Occidentali» a quelli acclusi nel volume di «Riga», quest’idea dello sguardo rasoterra sulle cose rimane e si sente, ed è quello che riesce poi a far avvicinare alla materia anche i non esperti.
In fondo tratto la cosiddetta critica come un altro ramo della narrativa. Adesso Feltrinelli mi ha proposto di fare una collana con i miei libri: « I libri di Gianni Celati». Se poi si farà ho intenzione di metterci tutto quello di critico che ho scritto, sulla pittura, sul cinema eccetera, perché penso che non cambi tanto. Il problema è di non incastrarsi mai. Quand’ero al liceo avevo un professore di filosofia cieco. Si chiamava Corrado Festi e mi chiedeva se al pomeriggio gli leggevo qualcosa di questi nuovi testi di filosofia. Avevo sedici, diciassette anni e a un certo punto in classe al professore è venuta la mania di dire: «Beh, allora di questa cosa parli Celati, che la sa». Lì ho scoperto un fatto: che si poteva impapocchiare tutto il pubblico tirando fuori tutte queste cose di dialettica, l’oggettivo, il soggettivo – senza dire niente. Questo in qualche modo, a quei tempi, mi teneva su di morale, però ogni tanto pensavo: «Ma io non dico mai niente, è una roba tutta falsa quella che faccio». Capisco che il parlare di letteratura, di filosofia, di cinema, si appoggia su cose del genere, su qualcosa che qualcuno ha detto e che è diventato un sacramento. Invece è bello trovare le parole, è come quando ci si innamora, e si vorrebbero trovare le parole giuste per dire certe cose che ti sfuggono via completamente, invece di ripetere «I love you, I love you, I love you».
Ragioni spesso del parlare, del raccontare, del leggere ad alta voce. La tua scrittura nasce anche da qui, dall’idea della lettura orale, della lettura come momento collettivo. E questo direi che si riflette in maniera evidente sulla tua scrittura penso in particolare ai «Parlamenti buffi» ma non solo. Anche negli ultimi due libretti, «Costumi degli italiani», c’è sempre la ricerca di un linguaggio che non sia quello «letterario», lontano dai precetti formali della scuola al punto da sembrare scorretto ma in realtà è un linguaggio che molti lettori riconoscono e sentono vicino. Come mai quest’attenzione alla lingua, fin dal tuo primo libro?
Vengo da una famiglia con un padre e un fratello che parlavano sempre di libri a tavola e io non li sopportavo perché mio padre ogni tanto faceva volare tutto, se mio fratello aveva un’opinione contraria. Quindi a sette anni avevo già deciso: prima di tutto volevo scappare dalla famiglia e poi mai più occuparmi di quelle cose. In realtà volevo diventare uno scienziato, un linguista. Ho avuto un grande insegnante di linguistica, Luigi Heilmann, e ho avuto la fortuna di avere un professore di lingue come Carlo Izzo , che era amico intimo di Ezra Pound, e mi faceva leggere tutte le sue lettere. Izzo non capiva niente di linguistica, mentre Heilmann era quello che io consideravo uno scienziato, quello che dice le cose come ha studiato per dirle. E così io volevo fare. Ci ho provato in un momento in cui avevo deciso di smetterla con la letteratura e per un anno ho lavorato. Invece di fare un corso universitario di inglese come mi chiedevano, senza dire nulla a nessuno ho fatto un corso di linguistica con un professore di linguistica inglese, Guy Aston, alla facoltà di lettere. Non ho detto niente a nessuno, ho scritto un opuscoletto da dare agli studenti e sono stato molto soddisfatto, mentre la letteratura non mi lascia mai così soddisfatto. A un certo punto c’è stato un amico che lavorava all’ospedale psichiatrico di Pesaro che ha cominciato a portarmi questi fascicoli dei matti, in particolare di uno che io trovavo geniale. Poi ero molto amico di Basaglia e lui trovava che quello che facevo era essenziale, cioè capire cosa c’è in questa intensità dei matti quando scrivono. Basaglia non era un gran teorico, era proprio un uomo alla mano, l’ho amato davvero. Dopo sono stato militare e mi sono ammalato e poi mi è venuto da scrivere come i matti, a titolo sperimentale.
Ed è nato «Comiche»…
Esatto, Calvino le ha viste e le ho pubblicate. Ma Calvino non si è mai accorto che io scrivevo come i matti. Però ricordo che quando ero andato da Einaudi avevo proposto di tradurre Adolf Wölfli, questo matto paranoico pittore bernese, che ha scritto delle cose favolose di tipo orale. Alcune ne ho tradotte sotto falso nome nel «Semplice». Qualcuno mi aveva insegnato, quando studiavo linguistica e il flusso di coscienza di Joyce, che la cosa più importante della lingua in realtà non è tanto la struttura e l’apparato, ma l’intensità, l’intensità delle parole e tutti i manierismi che noi adottiamo per l’intensità. Sono andato avanti per un po’ su questa strada. Dopo quella lingua dei matti è venuta un’altra lingua, legata alla mia famiglia, a mia madre. Mia madre non dico fosse analfabeta ma leggeva sillabando, è andata a scuola fino alla terza elementare e quindi il suo italiano si era adattato in un certo modo, e allora mi è venuto questo fatto dello scrivere qualcosa che passava attraverso la bocca. Avevo degli amici e tutte le settimane ci trovavamo per leggere i pezzi che avevo scritto, ed era quello che mi interessava. Come tutte le foto di me vestito da pagliaccio che ci sono qui in «Riga», a me è quello che mi è sempre interessato e più reso felice: fare il pagliaccio. E quindi andavo a leggere «Le avventure di Guizzardi», l’ho letto tutto agli amici e non ci ho messo nemmeno una virgola perché capivo che quella era la nenia di mia madre, e in una nenia non ci puoi mettere le virgole. Ero anche influenzato da un’altra cosa, a quei tempi. Io sono stato sposato a una donna tunisina e quindi avevo passato molto tempo a Tunisi e avevo cominciato a studiare l’arabo. Avevo tanti amici arabi e parlottavo un po’ una cosa che non si è mai capito cosa fosse perché me la insegnava la «dada» di mia moglie e mi serviva giusto per andare al mercato. Mi ero innamorato dell’arabo e delle canzoni e della musica araba, il «maluf», andavo ad ascoltarlo a chilometri di distanza dalla città dove stavo allora, Cartagine. Ecco, quella era la nenia, quella che in musica si direbbe oggi musica modale. Credo di aver sempre applicato la musica modale alla mia scrittura. Questa cosa è stata per me la vera rivelazione, scoprire che non c’era bisogno di fare le frasi, le esibizioni, ma che è una modulazione delle parole che si può portare avanti anche mettendoci i punti eccetera. Questa è stata la mia educazione, che mi son fatto da solo per via di tutti questi avvenimenti. E il mio terzo libro, «La banda dei sospiri», è stato scritto in queste condizioni: ero in una casa in America con persone di tutte le nazionalità e alla sera mi ritiravo in camera perché volevo scrivere qualcosa di non anglofobo, volevo che fosse nella mia lingua di casa, quella dei miei zii, dei nonni. Molti lo prendono per lombardo, ma non sono convinto.
A proposito della famiglia, c’è questo rapporto ambivalente: da un lato la fuga dalla famiglia, dall’altro, una volta lontani, il recupero dalla lingua materna.
Credo sia una cosa quasi naturale, non ci ho mai pensato molto. In quel caso era il fatto di ridurmi alla sera nella mia cameretta. Come mi succede spesso. Io ho sempre scritto perché non ho voglia di andare in giro, per nessun motivo più nobile; mi metto lì e mi passo un po’ di tempo. Questo fatto di passare un po’ il tempo è la cosa migliore dello scrivere. Se devo guardare tutti i miei pezzettini sparsi di roba che ho scritto, quella mi sembra l’utilizzazione migliore. Quando non sai cosa fare, scrivi. Ormai abito fuori dall’Italia da vent’anni. Ho lasciato l’università nel ’78, ho dato le dimissioni al Dams perché mi hanno fatto arrabbiare. Poi me ne sono andato in Inghilterra, nel ’90, sono quasi vent’anni. Stando lontano dall’ Italia il mio inglese è deteriorato in maniera incredibile, non quando vado in America, lì non me ne accorgo che parlo inglese. In Inghilterra si è deteriorato restringendomi a casa a studiare e lavorare, e invece quello che è cresciuto è il mio attaccamento alla letteratura italiana. E questo risale a questioni che probabilmente hanno a che fare con i nostri cicli biologici, è qualcosa a cui ci si attacca, come dire che se abbiamo un’anima è quella cosa lì.
Nel frattempo però, nell’arco di tutti questi anni, sei stato anche un grande traduttore, hai tradotto testi molto importanti, penso alla «Certosa di Parma», «Bartleby» eccetera, e adesso da quanto so stai lavorando alla traduzione dell’«Ulisse» di Joyce.
Tradurre è una cosa fatta così: se tu non ti dimentichi che stai traducendo dall’inglese, dal francese eccetera, ossia se vuoi stare attaccato all’inglese o al francese eccetera, va male. Te ne devi dimenticare, avere l’orecchio, sapere come vanno le cose, ma dimenticartelo mentre lo scrivi, e quindi è la lingua italiana che prevale su tutto. Ne parlavo con Jean Talon che adesso sta traducendo «Un homme qui dort» di Perec. All’inizio stava attaccato al francese e io gli ho detto «Devi dimenticarti il francese, con un orecchio devi sapere che è francese ma deve saltar fuori che è italiano». La traduzione, secondo me, sono esercizi di italiano.
La difficoltà nel tradurre Joyce è proprio questa, nella traduzione si perde tutto o quasi, chi ha tradotto il testo finora non è riuscito a fare emergere il romanzo.
Sono rimasti tutti molto attaccati all’inglese. Traduttori molto bravi e attenti al senso letterale, ma ne sono usciti senza un filo di musica, un filo di humor.
Meglio allora essere infedeli ma rendere il senso di un testo?
Sì certamente. Devi reinventarti tutto nella tua lingua. La tua lingua è fatta per essere reinventata in quelle condizioni e io devo dire che quando traduco sono felicissimo, è una delle cose che mi rende più felice, più felice di quando devo scrivere delle cose per forza, quello mi rende infelice.
Sempre parlando di libri, ma tornando in Italia, conosco la tua passione per Antonio Delfini e so che stai curando un volume dell’autore modenese per Einaudi.
Sì sto lavorando a questa raccolta di testi di Delfini. Di mio ci sarà l’introduzione. La cosa buona è che Irene Babboni , che ha considerato i testi di Delfini filologicamente, ha smistato tutta questa confusione di testi incredibile. Ho passato un anno a frugare dentro questo cassettone pieno di scritti di Delfini, e lì ci sarebbe da farne venti libri.
Nel volume ci saranno anche degli inediti?
No, alla fine non li abbiamo messi per il fatto che deviava troppo dal progetto, ma un giorno o l’altro questi testi voglio tirarli fuori.
Torniamo ai tuoi libri. Quando si leggono i tuoi testi scorrono molto e sembrano quasi scritti di getto, sotto l’effetto di un particolare stato d’animo. Però sei anche un grande riscrittore. Penso ad esempio a «Lunario del paradiso» che hai interamente riscritto, ma non è un caso isolato. Penso anche a lungo montaggio sul tuo documentario girato in Africa. Da cosa nasce l’esigenza di tornare sui lavori passati?
A me sembra un po’ strano, questo fatto che la gente non ammetta l’evidenza che non si è mai finito di scrivere. Si finisce per convenzione, un editore mette delle scadenze o tu non ne puoi più. Non si finisce mai perché si è finito davvero, le cose cambiano ogni giorno e nel cambiare ogni giorno non son mai finite.
Mi viene in mente Arbasino, che riscrive costantemente «Fratelli d’Italia»…
Qui in «Riga», parlando con Maria nne Schneider , che è la mia traduttrice in tedesco, ho detto che un libro non è un fatto cartaceo, è un vento che ti porta via e questo vento tante volte ti becca bene o ti becca male, e dopo tu se ne hai voglia ci devi lavorare. Tante volte non ne hai voglia, ci sono dei libri che dovrei fare ma non ne ho voglia. È un vento che ti viene addosso e quindi non è mai tuo, non sei mai proprietario di quello che scrivi, c’è qualcosa che viene e che ti porta via. Credo che tutti i testi non riscritti, se lo sono, lo sono per comodità e questioni pratiche. Non ho mai riscritto «Narratori delle pianure» perché l’ho scritto in un mese, mi davo un’ora al giorno, è andato bene così, poi non mi è più ritornato in mente. «Lunario del paradiso», con questo fatto del cercare uno stile sincopato, mi ha molto impegnato, perché non funzionava. Sentivo delle ricadute. Ma io i miei libri li riscriverei tutti, se mi dessero dei soldi e mi dicessero che devo riscrivere tutti i miei libri direi: «Va bene».
Tu sei partito dalla scrittura, poi c’è stato l’incontro con Ghirri, molto importante per entrambi a livello umano e artistico, hai girato con lui e altri venti fotografi per la realizzazione del libro fotografico «Paesaggio italiano»…
Sì io vorrei ripubblicassimo anche «Il profilo delle nuvole» che considero un capolavoro, ma vorrei farlo come voleva Ghirri, su carta ruvida, come quella da disegno. Mentre invece gli han messo la carta patinata e quando l’ha vista gli è venuta l’ulcera.
Dicevo quindi che il tuo è stato una sorta di avvicinamento alle immagini per gradi. Prima la fotografia e poi sei arrivato ai documentari. Come è nata l’idea di girare, non ti bastava più raccontare i paesaggi che incontravi?
Non ci avevo mai pensato. Tutto nasce da una proposta di Rai Tre, quando ancora c’era Angelo Guglielmi: mi avevano chiesto di trasformare in un documentario «Verso la foce», ma era una cosa impossibile. Allora ho avuto l’idea di prendere un bel pullman e di chiamare tutti i miei vecchi parenti di Ferrara e gli amici, tra cui c’erano Ermanno Cavazzoni , Jean Talon , Maria nne Schneider eccetera, e portarli in gita. L’organizzazione era perfetta, loro godevano, era come una gita scolastica. Avevo tre cameramen, abbiamo avuto la possibilità, dal gennaio al giugno del ’90, di riunirci tutte le settimane, uscire e fare delle prove di visione. Naturalmente la nostra guida era Ghirri, avevamo le sue foto, perfino i libri di Piero della Francesca. Ho imparato alla carlona, in fretta e furia perché dovevamo consegnare il film. Ho lavorato insieme a Stefano Barnaba, passavamo tutti i giorni dalle cinque del pomeriggio fino al mattino dopo, per un mese, a montare. È stato un delirio, ma la cosa che ho scoperto e che mi ha tenuto in piedi è stato il fatto che Barnaba era anche musicista e con lui eravamo in sintonia sull’idea che tutto quanto va regolato su questioni musicali. Per esempio, io ero partito astrattamente dall’idea che questo paesaggio doveva essere determinato da un Gloria di Vivaldi e secondo me ci doveva essere un momento in cui si sentiva un passaggio in do maggiore del Gloria che doveva essere l’apice del film. A un certo punto abbiamo visto dei trattori che aravano e facevano dei solchi sulla terra e abbiamo cominciato a lavorarci mettendo in parallelo una musica che cresceva e allora lì ho capito che tutto quanto, in un documentario, in un film, deve avere un senso musicale. Detto questo mi sono trovato contentissimo, mi sono sentito a casa e poi ho trovato un’infinità di musiche e anche ora continuo a trovarne. Pensa che in internet avevo trovato uno che vendeva il cd con le «soundtrack dei film di Celati». Poi non l’ho più trovato.
Come mai questa difficoltà a reperire i tuoi film?
Perché non li pubblica nessuno. Carlo Feltrinelli aveva pensato di pubblicarli ma non c’è mercato. Questo film sull’Africa pare interessi a Feltrinelli, anche perché saranno tre o quattro o forse cinque film, sono episodi, saranno sei o sette ore di film.
Anche qualche tuo libro inizia a non trovarsi più, penso a un tuo testo di cui non si parla spesso ma che a me è piaciuto molto, «Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto», dove tra l’altro scrivi anche sonetti.
Quello lo ripubblicherò, e sarà come le «razos» provenzali. Saranno delle «razos» intervallate alle poesie, tutta la storia di Vecchiatto la racconterò intervallata. Un po’ comeFilippo Ottonieri in Leopardi. Sarà la vita di Vecchiatto. E questo dovrebbe fare parte della collana di miei libri per Feltrinelli. Vorrei che ogni libro sembrasse un ex-voto. La copertina originale in un angolo e sotto scritto qualcosa con una scrittura da bambino che dice: «In questo libro ho voluto così…» con la scritta che va su e giù per la copertina.
Un’ultima cosa. Tu vivi all’estero ormai da molti anni. Spesso bisogna andare lontano per recuperare le origini, come il tuo amore per la letteratura italiana. Ma al di là della letteratura volevo chiederti: da fuori come vedi il nostro (tuo) Paese?
Ho deciso di farmi inglese, anzi vorrei farlo pubblicamente. Com’è possibile che l’Italia sia in mano a uno che mentre tutto sta crollando ci fa i suoi affari sopra? Io non voglio più essere italiano. Accettatemi come rifugiato politico, perché non è possibile pensare alle cose che succedono, sono cose assolutamente turpi. Anche in Inghilterra succedono delle cose turpi, ma c’è un sistema vecchio. Gli inglesi hanno subito una guerra che ha distrutto molte delle loro città e questo ha lasciato un segno. Hanno ancora questo ricordo del ricostruire insieme. Hanno dei giornalisti impeccabili, con la testa indipendente. Quando Bush padre ha dichiarato guerra all’Iraq dicendo «We civilize people», come se gli altri fossero tutti selvaggi, il gruppo di giornalisti della BBC si è unito e ha detto che offriva al presidente USA un documento su cui doveva meditare. Hanno realizzato un documentario sugli Appalachi, le montagne a Nord-Est del Maine, dove non c’è ufficio postale, non c’è l’ospedale e acqua corrente né la scuola, quindi tutti devono andare a valle, di solito verso Chicago, nessuno li vuole lì, tant’è che avevano messo in piedi un quartiere per loro, ma hanno comprato tutte le case e li hanno mandati via tutti. Quindi, dov’è la civiltà? Questa risposta del gruppo di giornalisti l’ho trovata bellissima, e io vorrei far parte di questo gruppo.
Intervista pubblicata su Pulp libri n. 76, dicembre 2008, ripresa poi in RIGA