Noi siamo in mezzo a un ciclone, un vento fortissimo che scuote tutto ciò che abbiamo intorno e lo minaccia, lo strappa alle nostre mani, da sotto i nostri piedi, alla vista e all’udito. Così, una faccia amica e un luogo che abbiamo frequentato per anni, un angolo caro di una strada, una spalla su cui si sono appoggiate chiacchiere e conforti, discussioni con quell’altro viso e risate insieme a quella bocca. Tutto vortica intorno a noi, e vortica sempre più veloce, sempre più lontano. I passi fatti, i sassi sotto i piedi, le foglie che hanno visto cambiare le stagioni, i fiori piantati e quelli trovati nei bordi di strada, le aiuole dei parchi, i giochi compagni dei bambini e i bambini che hanno cambiato facce e parole, che sono cresciuti accanto a noi…
Più nulla.
Eccoci nel vuoto che ci vortica intorno, adesso. Tutto è stato schizzato così lontano da non essere quasi più raggiungibile. Se non con uno sforzo di ricordo che nessuno ha voglia di fare perché le cose non sono ancora lontane nel tempo e pare strano mettersi a ricordare le cose passate da poco. Anche se lo resteranno, passate.Come fossero successe in un altro tempo, a un’altra persona. E non le possiamo ancora ricordare perché sembra strano.
Siamo nell’occhio del ciclone e tutto è fermo qui dove stiamo. Guardiamo il nostro presente scaraventato lontano come se fosse un passato da dimenticare. Ma qui è tutto fermo e piatto e noi non abbiamo niente da fare, per ora, che stringere le nocche delle dita le une alle altre e sorriderci a vicenda, che noi stiamo bene, in mezzo a quest’occhio. Che tutto va bene. Il gatto guarda dritto con occhi sbarrati e arrotola la sua coda intorno alla mia gamba.
Sull’aereo, poi, ognuno pisola e si gusta in solitudine il proprio vuoto. Il gatto, chiuso in gabbia, miagola disperato ma tanto nessuno lo sente perché è riposto nella stiva, come un carico qualsiasi. E poi lui non ha nessun presente lontano con cui fare i conti. Lui, anzi lei, perché è una gatta, il suo presente se lo porta a spasso in ogni istante di vita e non deve preoccuparsi di metterlo in prospettiva, in relazione, di spiegarselo o di aspettarselo in alcun modo. Sta nella stiva e soffre, la gatta, col suo presente di carico qualsiasi, stipato fra rumori e mancanza di ossigeno.
Gli altri della famiglia, noi, stiamo in cabina e ci prendiamo gusto, invece. A capire questo presente che ci apparteneva fino a pochi istanti prima e che è stato scagliato lontano da una decisione, a un certo momento, di partire e cambiare vita. Di cambiare paese.
Allora ognuno continua a sorridere agli altri e a pensare alle cose e alle facce, alle stanze e agli odori che sono diventati passato. Aleggiano ancora intorno, come un fantasma caro che non si decide a lasciare i ricordi per volare nel niente. Ma per quanto? Il legno del pavimento impregnato di quello che abbiamo cucinato, di come abbiamo giocato, degli animali che ci hanno zampettato sopra e di bebè che ci hanno vomitato. Questa speciale mistura è ancora lì, eppure è già lontana da noi. È già passato.
Beviamo vino e coca cola, sull’aereo. E ci esaltiamo di come sono comode le poltrone e di quanta scelta c’è di film. Tutti con le cuffie a guardare la televisione minuscola accanto a noi. Ne va della vita, sembra, di vedere tutto quello che c’è da vedere e mangiare tutte le noccioline e sorriderci a vicenda. Ognuno con le fragranze lontane e le facce e le luci che ha lasciato, dietro gli occhi. In tutto il cervello, sotto la scatola cranica, queste particelle impazzite che corrono dall’uno all’altro dei lobi, delle funzioni. E legano le sensazioni presenti ognuna a un confronto, a un ricordo, a un’illusione.
Faremo questo e faremo quello. Sorridendo, sempre, ci raccontiamo quello che i ricordi ci ispirano. Quello che il presente che adesso è lontano ci suggerisce per il futuro che, anche quello, è lontano e così nascosto che sembra impossibile ci sia. Ma ci sarà.
Non ci saranno le abitudini, ma ci saranno viaggi e avventure, sorridiamo dicendoci.
Non ci sarà Roma ma ci saranno città enormi e grattacieli altissimi, e gente diversa, invece delle facce solite, gente di tutti i colori e gente strana, che nessuno si gira a guardarla perché in America è così, puoi fare quello che vuoi. Puoi dire quello che pensi. Nessuno si stupisce di niente e se si stupisce lo tiene per sé. E intanto ti accoglie e sorride, perché lì si fa così. Tutti ti accolgono e sorridono. Ci siamo già stati, noi grandi, e voi ragazzi potete stare tranquilli che andiamo a fare tutte queste cose e a vedere tanti posti. La natura grande, grande che ti ci senti perso. Le strade lunghissime dove non incroci nessuno e ti senti libero. La gente che ti aiuta e che non chiede. Vedrete.
Intanto voliamo ore e ore e ore e ore che non ci sono film né noccioline e neppure vino che tengano: sono tante ore. Tante da non trovare più posizione e ragione per essere partiti. Ci dobbiamo davvero infliggere tutto questo? Si chiedono gli arti anchilosati. E il cervello confuso dal vino gli risponde di sì ma non ne è mica tanto sicuro nemmeno lui, in fondo. Perché a forza di raccontare tutto quello che farà e dirà di bello gli si sono anche insinuati dei dubbi e pensa che tutte quelle cose scagliate lontane erano belle anche quelle e c’erano di già, erano sicure. Il cervello si spaventa parecchio, all’improvviso, perché capisce quanto sarà faticoso rimettere insieme qualcosa di simile e doloroso, anche, perché ci sarà sempre il confronto e il ricordo delle cose passate che sono ancora vicine nel tempo e lontane come fossero di un’altra vita, a far da paragone.
Guardate, siamo arrivati! Ma dove sono i grattacieli? Mamma, papà, dove sono i grattacieli? Non ci sono grattacieli, mamma?
Sono in qualsiasi parte degli Stati Uniti e anche in moltissimi altri paesi dell’Asia, del Medio Oriente e anche dell’Africa, oramai. Ma non a Washington. Washington vista dall’aereo fa la stessa impressione esatta che a vederla sul computer, dal satellite. Una distesa verde di un verde intenso cupo e fitto, lussureggiante e tropicale. Deve piovere parecchio, da quelle parti, pensiamo osservando quel verde. E poi pensiamo che sta per diventare le “nostre” parti quel posto così verde dove piove così spesso e al primo steward che passa chiediamo un altro bicchiere di vino.
Intanto si avvicinano gli alberi e le case chiare e piccole. Tante, tantissime case chiare e piccole in fila, in file che si irraggiano in tutte le direzioni, fra recinti chiari e giardini verdissimi, e ancora file e file di case che non si vede dove iniziano e dove finiscono, come se un qualche mattacchione dispettoso avesse preso una città delle nostre, giù nella vecchia e sovrappopolata Europa, e si fosse divertito a stritolarla fra i palmi delle mani facendola cadere un po’ qua un po’ là su una superficie verde e immensa. Una spolverata di gente e di case sulla natura vuota di queste parti. Questa è la nostra impressione mentre atterriamo, del posto dove vivremo per qualche anno. Ed è con l’immagine del parmigiano grattato sulla pasta che entro nel tubo che ci collega all’aeroporto.
Per poi uscirne, dall’aeroporto, con il gatto che grida nella gabbia insulti e disperazione e non si sa se fa più rumore lui o noi che ci vociamo ordini e direzioni, cose da prendere e chi non deve rimanere indietro, attenzione alle macchine, guarda dove vai e chiedi scusa, non importa se non capisce l’italiano, capisce che ti stai scusando, no? Con la gabbia che pesa un macigno ed era l’unico modo di portarsi dietro il gatto perché sulla compagnia aerea americana la volevano così. Un modello con le viti vecchio e superato, pesante e costoso. Che ti chiedi se un anziano ce l’avrebbe mai fatta, a trascinarsi il gatto in una gabbia così pesante per tutto quel corridoio infinito che girava intorno all’aeroporto e che era stretto e pareva non finisse mai e non aveva sbocchi, non aveva tapis roulant, non aveva che muri e altre porte dalle quali ogni tanto si lanciavano fuori i passeggeri di un altro volo e dovevi stare attento a non mescolarti e non perderti e non finire con i tuoi piedi su quelli di un bambino o il tuo stomaco sotto lo zaino di un ragazzo. Ma non sono il paese dell’efficienza, gli Stati Uniti? Ti chiede quel mattacchione del cervello. E tu gli dici di non rompere i coglioni che qui staremo benissimo e che non c’entra niente se ci sono un paio di cose irrazionali all’inizio. Qui staremo benissimo.
Insieme alla gabbia abbiamo un nuovo bagaglio, che non avevamo previsto. È il caldo tropicale che ci si è messo a tracolla per strada e non molla un secondo, ci stringe e ci abbraccia come se avessimo adottato uno scimmiottino fastidioso. E mentre gli altri bagagli ci pesano sulle mani stanche di tante ore di viaggio, lo scimmiottino ci stringe forte e ci toglie le forze e ogni tanto scende dal collo e si mette a saltarci sopra, ai bagagli, li rende così pesanti che non riusciamo a tirarceli dietro, a spingerli sui carrelli. Mentre passiamo sopra e sotto strade, prendiamo e lasciamo autobus, intravediamo lontanissimo il casotto dove affittare la macchina che ci porterà in città.
“Dove sono i grattacieli?” me lo chiedo io, questa volta. I bambini, infinitamente saggi, hanno capito che i grandi hanno una vasta sezione del loro repertorio dedicata alle “chiacchiere tanto per dire” e ci hanno catalogato quasi tutto quello che si sono sentiti raccontare negli ultimi mesi. Si mettono a parlare fra loro o a giocare ai videogiochi.
Guardiamo la muraglia verde e fitta di alberi dai fusti altissimi che non lascia mai la strada da quando vi ci siamo immessi. Miglia, e miglia e miglia e nemmeno una crepa, nel muro verde. Niente da vedere, nessun segno di una civiltà diversa dalla nostra. O magari simile. Bella o brutta, o curiosa, insomma, un’altra. Ma il verde è verde e le foglie sono foglie e se fossimo atterrati per sbaglio in Amazzonia non lo potremmo dire, potrebbe essere vero.
“Guardate, eccoli, i grattacieli!” Che ci hanno gonfiato il petto di entusiasmo, all’improvviso, perché di colpo, dopo qualche casermone un po’ sdrucito e qualche campo da baseball deserto ci si sono aperte davanti strade che avevano altre strade, accanto, e non la boscaglia verde. Siamo a Silver Spring, una città vicino a Washington dove passeremo le prime settimane. Nell’unico appartamento che abbiamo trovato per un prezzo ragionevole. E che accettasse un gatto. Il cervello, maligno, soffia il commento che allora non era mica la prima volta, in aeroporto, che potevano venirti dei dubbi sull’America e come fosse tutto facile e accogliente. Quando avevi passato notti insonni a cercare un tetto che non fosse troppo lontano da dove poi lavorerete e studierete e che non si trovava nemmeno a piangere e nemmeno tutti quelli che ci erano passati prima di te sapevano aiutarti e sospiravano un “ci vuole tempo e fortuna, io ci ho messo tre mesi…”. Tu avevi poche settimane, e non ci hai dormito la notte.
A Silver Spring sei o sette grattacieli ci sono, e sono tutti vicini così danno l’impressione di essere tanti. E poi c’è gente di tutti i colori, davvero, e anche alcuni neri che hanno dei cartelli con degli uomini di Neanderthal disegnati sopra e delle scritte che dicono che noi bianchi siamo così, e che siamo stupidi e cattivi. In altri cartelli ci sono foto di Hitler e la seconda guerra mondiale e i neri che le tengono in mano gridano che quello è il mondo, quella è la storia che hanno fatto i bianchi. I nostri ragazzi guardano la gente che grida e gli sorridono perché non capiscono cosa dicono. Mentre passiamo oltre penso a tutte le guerre che ha fatto l’uomo bianco e che sta ancora facendo. E penso è giusto, sì. E’ giusto, giusto, giusto che veniamo insultati per tutte quelle orribili cose che abbiamo fatto. E passo avanti sentendomi buona perché sono d’accordo.
È sera e c’è ancora tanta luce e tanta gente per la strada. Ognuno con il suo scimmiotto di caldo aggrappato al collo fa quel che può per sentirsi meglio. Scivola con lo skate a passo stanco fra la gente. Si sventaglia con un lembo del jihab. Si toglie tutti i vestiti e rimane in pantaloncini. Tutti si appoggiano ai muri e si siedono ai gradini di questa piazzetta colorata di mattoni rossi e di insegne, di vetrate di locali che vi si aprono numerosi e illuminati. Nel mezzo una fontana spruzza acqua in alto e la fa ricadere in pioggia conica e rumorosa tutto intorno. È una fontana senza bordi, senza recinzioni. Su piccolissime ceramiche dai mille colori che fanno da pavimento l’acqua cade libera e si apre, scorre e vaporizza. Mentre una decina di bambini in mutande ci corre sotto e ride, si spruzza, si diverte. Il mio piccolo mi guarda e io gli sorrido un assenso. Poi lui però è troppo nuovo, qui. E il suo corpo gli dice che sono le due di notte, in realtà, non le nove come dicono in questo posto. E allora ci sediamo tutti sui gradini lì vicino e guardiamo i bambini che giocano finché uno, grasso con la ciccia che si arrotola sulle anche e sui fianchi e sul petto fino al collo, si siede proprio sulla fontana, sopra il buco da cui esce l’acqua. E l’acqua si ferma. Per un attimo, silenzio. Poi un paio di bimbi che giocavano a spruzzarsi si lamentano che non c’è più acqua. I miei ridono sguaiatamente e noi gli spieghiamo che non sta bene, potrebbero pensare che ridiamo per il suo aspetto fisico e questo non è bello. Ci sono altre fontanelle più piccole, lì accanto, e i bimbi in mutande vanno a spruzzarsi lì.
Lasciando quello grasso a otturare il getto principale finché vuole. Lui sta seduto per un po’ a godersi il risultato portentoso del suo sedere, poi si alza e ricomincia a giocare con gli altri.
Non so perché, ma questo sono sicura che resterà uno dei primi ricordi di questo nostro soggiorno in America.
Il secondo, sarà il primo giorno di scuola.
Le strisce gialle davanti al parabrezza, all’uscita del garage. La macchina avvolta in strisce vivaci che ondeggiano al vento e altre strisce tutte intorno, fra palazzo e palazzo, appese sulle strade all’altezza del petto, fra astanti immobili e ansiosi.
Un’opera d’arte, è la prima cosa che il cervello ha potuto trovare, nel suo imbarazzo di non riuscire a fornire una collocazione alle strisce e alla gente immobile. Ai poliziotti coperti di elmetti e di scudi, agli elicotteri che volteggiano bassi sopra i grattacieli.
Perché è in uno dei grattacieli che viviamo, e ne siamo contenti. Ad un piano basso ma da cui si vedono intorno altri grattacieli e le grandi vetrate che affacciano le stanze alle strade ci fanno sentire come in un acquario ribaltato in cui noi siamo fuori e lo spettacolo e là, nel paesaggio urbano che osserviamo. Nelle facciate coperte di vetri e di luci la sera, di veneziane tirate giù il giorno. La vita degli altri così a portata di occhio, così vulnerabile. È un rito collettivo svegliarsi e entrare tutti negli uffici, schermare di ombra le finestre contro il sole implacabile, avviare il ronzio furioso dei condizionatori. A migliaia, accanto a ogni finestra. E accendere le luci la sera, con le tende su e un’aria stanca e fredda di luci a pioggia giù dai soffitti sulle scrivanie semivuote. Un rito che il nostro grattacielo, fatto di appartamenti, condivide con quelli di fronte, fatti di uffici e di studi. Con quello di Discovery Channel, che ha uno squalo di cartapesta che sembra attraversarlo da parte a parte. La coda e mezzo corpo infilato su un lato, mezzo corpo e la testa con le fauci spalancate che emergono dall’altro. Ci siamo fermati spesso a osservarlo, passandoci sotto. A naso in su per vedere i denti bianchi e lunghi e la gola rossa rossa, spalancata sui passanti, venti metri sopra.
Anche ora la gente sta a naso all’in su e guarda gli elicotteri. Che passano e ripassano tutti e fanno un rumore di flap flap molto forte su cui si mettono a strillare qua e là le sirene agitate di polizia, di ambulanze, di militari.
No, non dev’essere un’installazione d’arte, dopo tutto. Cosa è?
Qualcuno ha preso in ostaggio degli impiegati di Discovery Channel, il resto del palazzo è stato evacuato, mi spiega mio marito. Che ho chiamato in ufficio per dirgli che mi trovavo fra le strisce, ha acceso la televisione e ha visto le riprese degli elicotteri: il nostro grattacielo e quelli vicini circondati da un dispiegamento di forze notevole.Perché non si sa chi c’è dentro a quel palazzo, se ce ne sono anche altri in giro, se vogliono far saltare in aria qualcosa…
Lo scuolabus con dentro i nostri figli sta arrivando carico di pensieri e promesse, tensioni, cose vissute da soli di un lunghissimo primo giorno senza compagni, senza riferimenti, senza luoghi noti e informazioni. Con una sola certezza, che la mamma sarà lì, davanti alla fermata ad accoglierli con un sorriso tirato e le braccia già spalancate sugli inevitabili bronci. Che sono anche belli da fare, i bronci, sapendo che potrai gettarli, fra poco, fra le braccia già spalancate di una mamma.
Ma la mamma intanto deve passare attraverso le strisce e le hanno detto tutti che i poliziotti americani sono nervosi, che non bisogna fare gesti bruschi o avventati, che bisogna sempre parlare con calma e far vedere le mani perché sennò non si sa cosa può succedere.
Eppure, per quanto si sforzi, dalle mascelle serrate della mamma esce poco più di un borbottio scontento in cui spiega la situazione mentre i suoi occhi, più che quelli di una brava cittadina sembrano quelli di una pazza esasperata pronta a farsi saltare in aria lei, se non riuscirà a raggiungere i figli. Perché altrimenti rimangono per strada, senza sapere cosa è successo e senza saperlo chiedere. Senza sapere dove sono e se qualcuno potrà mai andare a prenderli.
In qualche modo il poliziotto vede la scena, la vede in fondo al pozzo disperato delle iridi materne e la capisce. Ma non è per pietà che si decide. È perché la mamma si sta allontanando dal luogo del disastro e non costituisce alcun pericolo. Se avesse avuto ordini di non farlo, non lo farebbe. Lo si legge sulla sua faccia e sulla postura della divisa, che sarebbe così. Ma non è così, invece, e allora la striscia davanti al parabrezza si alza e la mano fa cenno di andare, veloce, e un’altra striscia si alza dopo poco, mentre un’altra mano indica di spicciarsi. E un’altra ancora e poi un’altra. E la mamma è fuori dalle strisce, finalmente. Bloccata in una marea di auto che si incastrano da varie direzioni e che nessuna, sotto lo scintillante caldo dell’afa, fa nemmeno un tentativo di movimento, un suono di clacson, una sgasata nervosa. Tutte rassegnate all’ingorgo eterno.
La mamma prega e stringe i denti mentre vede le scene delle ultime notti, bambini con occhi gonfi e bambini insonni. Che ricordano in lunghi e fastidiosi elenchi tutte le persone che hanno lasciato a Roma e che non troveranno il primo giorno di scuola, e tutte le cose che non vedranno mai più, tutte quelle che non faranno. E hanno già preparato il broncio da giorni e giorni e per notti intere ci si sono allenati. Con una sola certezza: che potranno gettarlo fra le sue braccia spalancate…
La mamma recupera le rabbie e le sottigliezze, i trucchi proibiti imparati durante i tanti anni di guida estrema in paesi africani, mediorientali dove l’ingorgo non è un incidente di percorso ma uno stato della guida costante e regolare, quasi una marcia diversa a cui doversi abituare. Ma soprattutto a Roma, dove l’ingorgo è quotidiano eppure viene quotidianamente vissuto come un insulto, un inaccettabile contrattempo da espellere con la massima violenza dalla propria vita. Facendo tesoro di queste preziose esperienze, la mamma si affanna sui centimetri e suona il clacson e sgasa nervosa. Prende un paio di svolte proibite, anche, e arriva con solo un piccolo ritardo alla fermata dello scuolabus. Il quale, però, sta anche lui nel suo ingorgo e ci sta senza tutti quegli anni di sfilamenti e soprusi, pazienze e furbate che lo possano spingere a stringere i tempi. Ma non importa. Quello che importa è che quando il camioncino giallo arriva, rumoroso e puzzolente, col suo ritardo di un’ora, la mamma è già lì, con le braccia spalancate.
Il terzo ricordo è il Maine. Il Maine fresco e lungo, da percorrere in ore di interminabile luce e splendore di sole sull’oceano e boschi all’interno, calette rocciose, barche belle e nette ancorate ai porti di legno.
Ne parliamo spesso, dentro il grattacielo, del Maine. Che a me e mio marito ha lasciato una nostalgia struggente per l’aria limpida e i ricordi tersi di quelle case tutte grandi e di legno, dipinte e pulite come non mai e circondate di giardini verdi e puliti, ordinati come non mai. E che nelle prime ore di viaggio vengono ammirate e fotografate, assistono a soste frequenti e paragoni insicuri. A me mi piace di più quella tutta gialla. A me quella con le finestre sul tetto. A me quella con la veranda.
Con l’aiuola di fiori di campo, con la casa sull’albero, con la bandiera americana appesa al balcone…
Che poi si ripetono, i balconi e le verande, le case sugli alberi e le bandiere americane, ad un ritmo quasi regolare. Un’infinita schiera di piccole variazioni distinguono le dimore degli americani nel Maine, che sono quelle di ogni sobborgo residenziale americano ma con in più un nitore di linee e brillantezza di colori che credo vengano dal paesaggio intorno, così salmastro e pulito e fresco da riverberarsi nella concezione delle case, come anche in quella delle barche e dei moli, dei ristoranti protesi sul mare sulle verande di legno.
Sennonché a un certo punto del viaggio le variazioni e le linee nette, l’ordine e la specchiatezza ci avevano un po’ stufato. Nessuno si fermava più a fare paragoni, a fotografare e nemmeno a commentare. I bambini disegnavano sui blocchi da disegno. Noi e i nostri amici guardavamo le mappe. Altri turisti continuavano a saltellare dentro e fuori dalle auto, a esclamarsi e indicarsi a vicenda gli “ohh, guarda quella lì” davanti alle variazioni di verande, giardini, bandiere e finestre sul tetto. A sognare le esistenze privilegiate di chi possiede questa o quella dimora da fiaba, su quel gruppetto di rocce che guarda l’oceano, con il faro bianco poco distante e i gabbiani che volano intorno gridando alle onde. E che ha anche le calette di sabbia, fra gli scogli, dove si possono distendere a prendere il sole che qui non brucia mai e a giocare a palla senza sudare e mangiare senza crema sulle mani. Che fortunati.
Nessuno di quei turisti ha quel sentire viscerale, epidermico, istintuale e atavico che ho io contro certa proprietà privata. Perché ci sono concetti come mare e battigia e scogli e foreste che non si accostano nemmeno, nel mio immaginario, all’idea di uno che si è preso quel mare, quella battigia, quella scogliera e tantomeno la foresta. Che è quello che fanno questi proprietari di varianti infinite di casa americana.
Io, alla bellezza di cui non posso fruire, non mi esalto. A che pro guardare le calette dove non posso immergere i piedi? Quale pasto senza crema e scottature sugli scogli che non sono recintati ma che non si possono neppure attraversare?
Già ci siamo fatti cacciare da un paradisiaco angolo di Maine, con boschetto e radura, lago e ninfee sull’acqua. “Questo non è un parco, è proprietà privata”. Ha detto il proprietario. E noi abbiamo raccolto le scarpe e le borse, i panini e le risate, acchiappato i bambini che ancora si rincorrevano fra i tronchi e scaraventato tutto in macchina.
Almeno le recintassero, le cose! Grido io, esasperata dall’interruzione di quell’idillio bucolico. Ma qui non esiste, di recintare! Mi dice la mia amica americana. Qui la proprietà privata non si tocca e basta, non c’è bisogno di proteggerla. Mi dice suo marito. Io affondo sull’acceleratore e spingo le ruote e i nervi fino al primo angolo di mondo che non solo non è recintato ma non è nemmeno di nessuno, perché è di tutti. E in mezzo a quella distesa di sabbia fresca e immensa, con gli spruzzi ancora nitidi e salmastri di vento sulla faccia e le bocche piene di grida e di risate ci facciamo i bagni nell’acqua rotolante e fredda, ci distendiamo al sole che non brucia e odoriamo le rose canine tutte intorno, a perdita d’occhio riverse sui cespugli enormi che bordano la sabbia. Ci riempiamo di nostalgie future per il silenzio e la luce del Maine. E anche le case ci faranno bei ricordi.
Nel grattacielo, nella casa che i ragazzi chiamano “casetta” e che a loro piace da morire perché è piccola e liscia di moquette, mobili nuovi e grandi vetrate. Ce ne stiamo lì tutti stretti e la gatta si annoia come mai nella sua vita. Non può uscire, ci guarda sconsolata e avvolge la sua coda dignitosamente intorno alle ore morte, con cura sulle zampe anteriori mentre gli occhi si socchiudono sul circostante.
Mio marito ha cominciato per primo a muoversi, a conoscere. È saltato sul lavoro come su un’astronave che passava di lì. Fermata unica, casa-ufficio. E si è proiettato in quella galassia a noi sconosciuta in cui lui incontra persone e fa cose, produce, è utile e attivo, si guarda intorno, capisce. Si sa già muovere e cita posti, spiega percorsi e situazioni.
Io guardo l’acquario al contrario. Osservo i ragazzi che giocano e mi siedo accanto al gatto. Vorrei avere una coda da avvolgermi intorno alle mani.
Guardo il palazzo che era stato preso ostaggio, sotto la minaccia di un pazzo. Non erano terroristi e non erano nemmeno tanti. Era un ecologista forsennato che aveva attaccato da solo il canale dei documentari per sensibilizzare la gente sui problemi della natura. E siccome lo stava facendo con una pistola puntata sugli impiegati degli uffici, nessuno ha nemmeno ascoltato, perché lo faceva. Gli hanno sparato e la cosa è finita lì. Un sospiro di sollievo, si tolgono le strisce, gli elicotteri atterrano e la gente con il naso all’in su se ne va a casa.
Al palazzo sono state tolte le decorazioni. Non c’è più lo squalo ad attraversarlo, adesso, ma una cementizia normalità.
Tutto intorno, le strade spianano lo spazio in geometrie enormi. Salite e discese lievi, pendii grigi che aprono in città vasti angoli di incontro e di commercio, di relax e di passeggiate. Alternati a palazzi e grattacieli, solidi e solidi di architettura squadrata e sovrapposta. Piani lunghissimi sulla vita quotidiana della gente che attraversa questi luoghi, ognuna spedita, ognuna con un suo fine in mente e un mezzo per arrivarci.
Ognuna.
Ogni mamma col suo piccolo in braccio o in carrozzina, legato davanti o dietro la schiena. Ogni giovane con i suoi libri nei quali è racchiuso il suo futuro, o il suo lavoretto per racimolare soldi per il presente spicciolo. Ogni anziano con la sua vecchiaia, trascinata dagli scooter per disabili, o dal guinzaglio di un cane che lo porta a passeggio. Ogni padre di famiglia con la sua brava aria di compiere volentieri il suo dovere. I bambini per mano nel pomeriggio dedicato alla piscina, o ai lanci di palla nei giardini.
I bambini, loro, non sono ognuno ma “bambini”. Nei recinti dei cortili scolastici, nei parchi dove inseguire i prati di corsa, spingendosi sulle altalene, ascoltando i pazienti rimbrotti degli adulti per strada. I bambini sono insieme, sono bambini. Preparano il loro futuro di ognuno ma non lo fanno ognuno per conto proprio. Lo fanno in un colorato e chiassoso insieme di voci e facce. Di colori e espressioni e lingue varie.
Ma tutti insieme in questa comune esperienza di essere bambini e di esserlo insieme.
Cosa tiene insieme gli altri non è dato capirlo. Gli adulti americani di questa parte di America. C’è in giro un’aria rarefatta di scopi e impressioni, di fedi esposte tanto da non risultare più sensibili.
C’è la campagna elettorale che furoreggia con proclami ad ogni angolo di strada. Seri imitatori vestiti come l’uomo politico che impersonano tengono in mano cartelli con il loro slogan e agitano la manina ai passanti. Nei giardinetti delle villette hanno piantato cartelli di metallo, ognuno col nome di uno o più candidati. Che stanno sugli adesivi delle auto, sulla posta imbucata nella cassetta delle lettere, sui messaggi registrati che partono al telefono appena si solleva l’inconsapevole cornetta.
Davanti alle sinagoghe ci sono i cartelli di supporto per Israele. Davanti alle chiese i messaggi di Cristo per i cristiani.
C’è un uomo con un cartello contro la pedofilia dei preti, lungo una delle strade principali. Da bambino è stato molestato e da dodici anni porta il suo cartello per strada.
Ognuno con il suo diritto a parlare, ognuno con il suo messaggio. Ognuno.
“È vero che qui tutti possono dire quello che vogliono, eh?” dicono i ragazzi. Che in Italia hanno imparato a dissimulare le convinzioni per essere accettati e sono molto colpiti dall’impunità che vige da queste parti.
In Italia su quel cartello ci avrebbero scarabocchiato sopra. Osservano. E a quello lì prima o poi gli avrebbero menato. Deducono.
Qui, sui vialetti curati delle villette fioriscono cartelli di metallo scintillanti e intonsi. Stanno accanto con i nomi candidati al congresso, i rivali con i colori diversi, con gli slogan opposti, a disputarsi l’attenzione di chi passa. Sui vialetti contigui di due vicini di casa. Ognuno con la sua proprietà privata e la sua privata convinzione politica.
Anche noi, adesso, abbiamo la nostra variante. Legno e giardino, tetto grigio, assi dipinte. Ma non ha il candido nitore del Maine e nemmeno l’accuratezza graziosa del resto della strada. Ha troppi affitti e troppa distrazione sulle spalle e porta i suoi anni con un’aria di cagionevole trascuratezza. Forniti di una squadra di instancabili peruviani, ci siamo presi i lavori sulle spalle. Perché lo charme del tempo non diventasse uno sciame di tarme e perché gli sgocciolii e gli scricchiolii restassero in un’accettabile dimensione di casa con un “carattere”. Gli arzigogoli di ferro battuto raschiati via dalla ruggine, le assi recuperate all’impermeabilità, i vetri ragnatelati di spacchi sostituiti. E ogni angolo di casa bruschinato e cerato, dipinto, aerato. In un furore di aggiustamento che vorrebbe assomigliare alle pulizie di primavera paesane ma che come benedizione finale non ha l’acqua santa e le preghiere bensì un container di 2000 piedi che si svuota di colpo nei suoi spazi vuoti.
Quando dal ciclone, all’improvviso, vengono risputati verso di noi oggetti e oggetti, vestiti, medicine e calze, pettini, giochi, libri, quaderni e quanti ma oddio quanti oggetti che ci trasciniamo da anni in giro per il mondo. Un po’ più rovinati, ogni volta, un po’ più opachi e stufi di muoversi per navi e climi diversi, gemendo di umido, spaccandosi di secchezza, scolorendosi sotto i caldi torridi e patinandosi di freddo, a seconda di dove turbini il ciclone.
Noi accoltelliamo gli scatoloni con una specie di esultanza dionisiaca. Sempre più esperti, sempre più veloci, tuffiamo le mani negli imballi soffici e ne tiriamo fuori tagliacarte, spray nasali, maglie di lana e ciabattine per la piscina. E poi ci genuflettiamo a recidere gli incartamenti più grandi e svoltiamo strati e strati di carte e cartoni per liberare i totem di casa. Librerie. Divani. Tavoli da pranzo. Letti. Ci prostriamo a lucidarli e nutrirli di cera, offriamo incensi e candele profumate per rendere grazie al fatto che tutto è arrivato, e tutto intero.
Con i vicini che si affacciano, discreti e gentilissimi, offrendo biscottini e foto della famiglia con i nomi scritti sotto perché non ci si possa confondere fra i genitori, i nonni, il cane e i quattro figli. E noi goccianti di fatica e di dubbi sulla razionalità del sistema italiano dei trasferimenti dei dipendenti del ministero degli affari esteri all’estero, ci distendiamo la faccia in sorrisi beati che anche questa è un’altra profezia che si avvera: i vicini gentili che ti accolgono con calore.
Ma dobbiamo frenare presto l’ardore e rinunciare all’idea che avremo un pasto caldo e che i figli potranno contare su una casa arredata e piena di comfort per andare a svagarsi qualche ora. Dobbiamo restare tutti a mangiare sul pavimento, invece, e come unico extra guardare la gatta che si stupisce intorno e ogni tana che trova ci si infila e solo la voce del cibo riesce a stanarla ma dopo parecchio tempo. I vicini sono puntuali con i loro ritmi e le loro abitudini e non prendono in considerazione di farli aspettare o, peggio, di alterarli per un evento esterno come l’arrivo di una banda di sconosciuti sgomenti. I nostri ragazzi ci guardano, seduti in terra, e hanno la grazia di non dire nulla.
Ed è allora che ti sembra di capire quello che ti restava oscuro, e cominci a mettere insieme i dati raccolti nei mesi passati ad osservare le singole individualità che vagano per questa terra senza darti l’impressione di una connessione, di un terreno comune d’intesa, un senso di appartenere a qualcosa che non sia un macro-sistema come gli stati federali, il capitalismo, le stelle e le strisce. Che cosa unisce questa massa di individui? Ti sei chiesto per tanto tempo. Finché, grazie ai vicini e i biscottini e il sottrarsi a contatti più impegnativi ti si insinua il dubbio di una risposta semplice, ovvia e freddina. E, anche, ti si insinua il dubbio che qui tutti la sanno ed è meglio che non la dici a nessuno sennò passi per essere più scemo di quello che aveva inventato l’acqua calda. Perché che qui si sta tutti insieme per poter essere ognuno per conto suo ti sembra all’improvviso il segreto di pulcinella e ti sembra anche che ci voleva una mente distorta da secoli di senso di appartenenza a comunità spicciole come il comune, il quartiere, la parrocchia o la famiglia a non capirlo.
Poi pensi che è colpa tua, se vedi le cose in questo modo. Che è perché ancora non ti è passato lo sgomento e stai ancora lì, con le radici sospese in aria che sgocciolano in giro pezzi di terra e lacrime. Poi però pensi a quando eri arrivato in Siria, dove tutto era davvero esotico e estraneo. Dove la luce e gli odori e persino la consistenza dell’aria parevano venire da una dimensione diversa e sconosciuta. E dove, pure, fin dal primo momento, ti eri sentito avvolto da milioni di sottili tessuti; fili di lingua, abitudini e doveri che intrecciavano le persone tra loro e che quando le guardavi ti pareva di vedere un tappeto di tradizioni vivente, tanto era chiara la trama dei loro movimenti, dei loro reciproci rapporti. Così chiara che sapevi cosa pensava la gente anche quando non diceva niente. E sapevi sempre dove ti collocavi tu, in quella trama fitta e complessa: avresti potuto dirlo in qualunque momento, in che punto del disegno stavi, e dove ti vedevano gli altri.
Qui, negli Stati Uniti, di fili ce ne sono milioni. Diverso, ognuno, per colore e dialetto, colore di pelle e posizione di preghiera. Fili che si sono trascinati quaggiù, in epoche distanti e diverse, volando da soli da spazi lontani, per approdare nella terra della libertà o trascinati a forza da tanto lontano, per garantire la libertà altrui. E liberi sono adesso, questi fili, di starsene ognuno a vibrare nel vento delle proprie circostanze, delle scelte che ha compiuto. Svolazza nell’aria e si impiglia intorno, si intreccia ad altri fili, di tanto in tanto, poi prosegue il suo viaggio ventoso. Così vari, diversi e liberi, da non riuscire a riempire mai del tutto le enormi maglie della grande rete che li circonda. La rete degli Stati Federali, del capitalismo, delle stelle e delle strisce. Che restano tanto larghe apposta da continuare a far trascorrere liberamente l’aria e i fili.
Intanto la casa prende forma e si riempie. Comincia ad assomigliarti un po’, a ricordarti anche chi eri e cosa facevi. Tutti più ad agio e comodi. Calzati, vestiti e nutriti a dovere. C’è quasi un rilassamento fisico, in questa riappropriazione materiale delle abitudini spicciole. Poter dormire fra quella stoffa, pettinarsi con i denti di quel pettine, ascoltare la musica riprodotta da quel particolare apparecchio. I figli si rincuorano e prendono coraggio. Il marito prosegue più sicuro nella sua baldanzosa scoperta. La gatta si stiracchia sulla vecchia coperta.
Peccato che a te, nel frattempo ti è venuto una sorta di disturbo a causa del quale non hai tanta sensibilità e tutto ti pare un po’ opaco e attutito, quasi ti avessero fatto un’anestesia leggera. Le cose stanno lì, intorno e anche vicine, ma tu non le senti del tutto. Sono mute, sbiadite, non ti parlano e non ti raggiungono.
Siccome ci sei già passato, lo sai che a volte succede, è una delle conseguenze dello straniamento del trasferimento, non c’è da prenderlo troppo sul serio. Passati gli eroici primi tempi in cui ci sono cose di primaria importanza da provvedere come una casa sulla testa, una scuola per i figli, mezzi di trasporto, cibo e medicine. Aggiustato tutto questo e tutto quello ti ci sei già trovato, a stare in questa anestesia che un po’ ti paralizza, anche, perché rallenta le facoltà mentali e i movimenti e ti toglie la forza di fare anche le cose più immediate.
Lo sai che poi passa, che poi avrai voglia di normalità e l’anestesia si discioglierà dentro il corpo e dentro la testa, verrà metabolizzata e se ne andrà lasciandoti di nuovo energico e sensibile. Ma ci vorrà ancora del tempo e sai anche questo.
Peccato, perché intanto ti trovi a vivere situazioni che avrebbero un potenziale molto alto di interesse, e tu non riesci a coglierlo. Ti trovi alla cena con ex membri del congresso e imprenditori di livello e tipi svegli che procacciano i soldi alle campagne elettorali. E il loro discutere degli eventi più importanti del pianeta come se il presidente degli Stati Uniti riuscirà ad avere una seppur striminzita maggioranza al congresso per portare avanti la sua politica di riforme o dovrà cedere a una schiacciante maggioranza repubblicana e mollare i bisognosi al loro destino. Così anche come delle ragioni di creare un organismo che tuteli i prodotti italiani all’estero evitando che i loro nomi vengano usati per propinare immonde nefandezze ai consumatori. Nonostante trovi giusto tentare nuove strade per la produzione di energie alternative e di far conoscere in America il carnevale italiano, nonostante tutto questo tu, leggermente sopito e anestetizzato, riesci solo a concentrarti sul biascichio della dentiera del tuo vicino di tavola, che ti sorride ogni tanto e forse anche ti parla perché si sente in dovere di intrattenerti un pochino, com’è nelle buone creanze dei vicini di tavola. Tu sai che non è il caso di parlargli di anestesie e di roba simile allora sorridi e ascolti il biascichio.
E anche l’altra perla, l’evento mondano d’eccellenza dove si conta chi c’era e chi non c’era e anche quest’anno c’era un sacco di bella gente. Nella sala immensa dell’Hilton, per la serata degli italoamericani di vaglia. Cardiochirurghi, imprenditori, stelle dello schermo e ancora imprenditori, e ospiti dall’Italia, un produttore famoso. In fila sul palco d’onore sono seduti a un lungo desco addobbato riccamente. Come sono addobbati e ricchi tutti i tavoli della sala immensa, in un mare di tende e tovaglie, moquette e lisci tappeti dove abbonda il tono crema dei colori e quello forte delle voci, mentre camerieri si affrettano intorno carichi di immensi vassoi e gli altoparlanti vociano chi sta salendo sul palco delle onorificenze e perché. Poi vociano i discorsi di quelli che presentano quelli che salgono sul palco. Poi vociano i discorsi di quelli che salgono sul palco. Mentre sui teli giganteschi appesi chissà dove si ripetono ai lontanissimi angoli della sala i video che fanno vedere il cardiochirurgo che opera, l’imprenditore che fa affari, il capitano d’industria che compra la squadra di baseball.
Anche quella sera ti sentivi un po’ strano, un po’ storto, spostato di lato. E l’unica percezione acuta e improvvisa è stata quella della inadeguatezza del tuo inno nazionale, che dopo quello americano, dove tutti gli italoamericani si erano irrigiditi con le mani sul cuore e gli occhi alle opportunità che il grande paese aveva loro offerto, quello tuo t’era parso cosetta un poco rigida e salterellante, come un bambino che imita una danza difficile. Ma soprattutto nessuno s’è messo la mano sul petto e nessuno, per non spaventarsi troppo, ha guardato tanto in là sulle opportunità presenti e future. E a te ti si è dissipata un momento l’anestesia e ti sei messo a ridere come un deficiente, meno male che l’orchestra pestava forte e nessuno ti ha sentito.
Ci sono delle cose strane, a proposito di questo modo opaco e lontano di sentire le cose. Alcuni avvenimenti, come l’inno nazionale, si fanno strada all’improvviso e così fortemente delimitati, netti e pungenti che non ci vuoi credere, visto come ti sentivi imbambolato fino a poco prima.
Come quando mio marito ha corso tutte le scale di casa e mi ha raggiunto sotto la doccia, con gli occhi spaventati e increduli, e la sua bocca ha ripetuto un paio di volte il concetto prima che il mio cervello si rassegnasse e gli aprisse la porta per farlo entrare.
La gatta è morta.
Mi è arrivato diritto, questo dolore. E era strano come, in mezzo a tutto quel niente e poco di percezioni che avevo intorno fino a quel momento questa sia rimasta così isolata e piena. O forse proprio per quello, perché era l’unica.
Siamo scesi a raccoglierla in mezzo alla strada, scempiata da chissà chi, chissà in quale momento della notte che lei voleva sempre trascorrere fuori, dopo le settimane di prigionia nell’appartamentino di Silver Spring. Non era la sagoma sfigurata la cosa peggiore, né il pelo sotto al quale stava una cosa rigida e fredda invece della solita consistenza morbida e accogliente. La cosa peggiore era il senso di distrazione. La poca cura, la poca attenzione, il poco disturbo che ci eravamo presi fino a quel momento per un essere così caro. Che non avevamo capito che lo fosse. Trascinata dall’Africa dov’era nata in Italia, e poi dall’Italia negli Stati Uniti. Per morire spiaccicata davanti alla variante di casetta appena trovata…
Si vive di paure. Di perdere il lavoro, di ammalarsi , di perdere i figli o l’affetto di un amico. Si ha paura di invecchiare, di non piacere più a chi ci ha amato. Di soffrire di disturbi cronici o di non riuscire a pagare le spese. Ma mai e poi mai si ha paura di perdere il gatto. Chi ci aveva mai pensato? E questo dolore non calcolato è l’unica sensazione che ho percepito, forte e chiara, per tanti giorni.
Intanto piove e piove come avevamo visto dall’aereo quando ancora non pioveva e ci eravamo detti oibò. La parete di rumore è su tutte le cose. Anche i grilli, che hanno sempre fatto un frastuono roboante intorno alle casette della strada. Le casette che variano un tetto, una palizzata, una veranda con o senza il dondolo, le colonne all’entrata, le aiuole di piante aromatiche e quelle di fiori. Ora stanno zitti, i grilli, oppure ci provano a berciare il loro suono stridente e cupo ma non si sentono, perché stanno dietro la parete rumorosa della pioggia. E la nostra casetta e quelle intorno gocciolano e gocciolano mentre nelle strade corrono gonfi e soddisfatti i torrenti creati dalla pioggia. Si piegano le cime dei castagni alle scosse violente della pioggia.
E le querce vecchie e possenti fremono sotto i colpi. Ogni tanto cade un ramo. Grande, si stacca con uno schioppo netto e precipita fra le frasche intorno. Lo sentiamo chiaramente, la notte, perché dietro la nostra casa c’è un bosco e nessun rumore oltre la pioggia e gli scricchiolii degli alberi e i rami che si staccano e cadono.
Cadono anche sulla grande strada poco lontana, una delle arterie che partono dal centro di Washington e collegano la città alle altre cittadine e agli altri stati intorno.Noi stiamo in una città che si chiama Bethesda e che sta nel Maryland. Il confine con Washington DC dista pochi chilometri da casa nostra e niente può dirti quando lo stai attraversando. Resta lo stesso paesaggio semiurbano, con le casette americane e le loro varianti, coi parchi e i boschi di castagni, querce e abeti sparsi intorno. Gli alberi si affacciano rigogliosi e verdissimi sulle arterie stradali e intrecciano i loro rami ai fili del telefono e dell’elettricità. Che qui viaggiano bassi bassi, all’altezza dei primi piani delle casette, e spesso sono carichi di edere e intricati coi rami. Ogni tanto vengono strappati dal vento o dal peso della pioggia e insieme agli alberi rovinano giù sulla strada.
Mentre la pioggia si sofferma, di tanto in tanto, gocciolano gli alberi, da ogni foglia, sui lunghi tronchi scuri, gocciolano le siepi e le aiuole delle casette. Gli scoiattoli vorticano su e giù dagli alberi e ne approfittano per scattare in giro alla ricerca di cibo. Insieme ai corvi che saltellano sull’erba, pressati, e i picchi che zampettano sui rami. Ma sono pause brevi, giusto il tempo di guardare fuori e sentire che la parete di rumore della pioggia non c’è più. Poi la pioggia riprende e tutto viene di nuovo coperto. Di giorno e di notte. L’aria ha cambiato consistenza, ormai, e si è solidificata in questo stato semiliquido che ci fa sentire tutti un po’ precari e frettolosi, come se avessimo sempre voglia di qualcos’altro. E intanto pensiamo agli ettari e ettari di bosco in cui sono perse le casette e ai grandissimi robusti alberi che stanno a succhiare tutta quest’acqua. Non ci sono pozze, non ci sono pantani. Anche dopo una settimana senza sosta, anche dopo dieci giorni. Su questa piana verde potrebbe piovere anche per un mese, pensiamo, e non ci sarebbe nessun maltempo.
Io guardo l’acqua che scroscia, sento la parete di pioggia che si abbatte sulle cose e di tanto in tanto cerco una forma strana che passa lungo le pareti di casa, negli angoli e nelle tane nascoste, o che mi si acciambella in braccio mentre leggo, che sgattaiola fra le gambe quando è l’ora del cibo. Senza insistenze, senza imposizioni, quasi chiedendo se va bene, che lei sia lì, se è tutto a posto. Perché è così che fanno i gatti, mi dice una mia amica. Ed è vero. Così discreti e silenziosi da far parte della casa, da diventarne quasi i garanti, gli esseri fatti di impalpabili movimenti che tengono insieme il senso del focolare e lo alimentano con il loro semplice esistere.
Poi cessa la pioggia.
E il cielo si spinge su in una prospettiva di vertigine azzurra e luminosa. Senza nubi, senza nebbie, senza limiti all’orizzonte. Poggia scintillante, pulito e felice sui boschi e sui tetti, sulle strade larghe e sui solidi di cemento. In città e nei suburbi, sulle autostrade, tutto scintilla di luce. Poi comincia a risplendere di toni più vivi, ogni giorno. Via via che il verde cupo degli alberi cede alla linfa che rallenta e si ferma, ai primi freddi che circondano le foglie e gli steli la notte lasciando un velo che non è ancora brina sui prati. Nella vita che si rallenta esplodono i colori più forti e più vari.
In pochi giorni, quasi di sorpresa, tutto intorno comincia a esserci un ridacchiare di colori sparsi, vivaci di rossi e di gialli e verdi che paiono tenui come quelli della primavera ma che virano poi verso arancioni violenti e magnifici, mescolati con tutto il resto a ogni metro di strada.
Bello! Dici, un mattino, guardando il mattino dalla finestra. E decidi che quel giorno camminerai e camminerai finché ti sentirai completo dentro e potrai uscire fuori da questa crisalide stretta che ti si è formata intorno ai sensi. Allora ti vesti comodo come tutti quelli che escono nei suburbi al mattino e se ne vanno a spasso coi cani e con le crisalidi. Poi cammini e cammini, dentro ai boschi, e ti perdi, nei sentieri freschi e impervi dove si arrampicano solo i possessori di cani molto grossi che qui possono scorrazzare liberi. O qualche intrepido in mountain bike che non teme gli sforzi dei muscoli e il fiato corto. Guardi i colori brillare sulle foglie, fra i rami scuri.
Guardi una lepre che scappa frusciando sulle foglie secche e un picchio che si accanisce su un tronco. E scoiattoli su e giù fra i rami, ogni due dei tuoi passi, si affrettano ad acchiappare ghiande e riempirsene la bocca, scappando su verso le tane invisibili. E senti che questo camminare fra i colori e gli animali, comincia a scacciar via il torpore e in qualche momento ti pare anche di sentirlo, che qualcosa scorre e circola dentro. Come un siero velenoso che finalmente si sposta. Ma non è attraverso gli occhi che passano le sensazioni, si sa. E nemmeno gli orecchi possono più di tanto, perché gli schioppi e i fruscii, il vento che scorre fra profluvi di foglie secche non possono arrivare fino agli anfratti nascosti e bui dove si sono rintanate.
È il naso che può farlo. È odorando le misture fragranti di bosco e di pioggia, di sole che asciuga i primi strati e rinvigorisce gli aromi seccando il tappeto di aghi e foglie gialle, che accade. Quando i sentieri che evaporano in fretta nel nitore della mattina, fra i riverberi odorosi della pioggia, dei cani, della gente che passa e degli alberi che invecchiano, si sovrappongono a altri sentieri invisibili e sfasati, spostati lungo assi di rimembranze e associazioni incontrollabili. Il naso fiuta queste nuove piste di istinti e ricordi e seguendoli finalmente le trova, le sensazioni. Nascoste dietro a pensieri lontani, perse in piane bruciate e vuote, su per dirupi accidentati e dietro paraventi stantii. Le stana senza spaventarle, le prende per mano e le fa trotterellare fuori, al gran passo via da quei posti distanti e morti. Le spinge fino alla superficie del tuo essere, dove fra fruscii e colori, sui sentieri profumati, escono allo scoperto.
Palpiti e sgomenti, sorprese e gratitudini riprendono il loro posto e tu ti senti completo e pronto. E allora cammini e cammini e cammini finché, per la prima volta, senti che sei arrivato in un posto.
Ed è con una integrità nuova e ancora vulnerabile delle percezioni che ti ripresenti in società. Per accogliere nella tua storia la musica classica offerta in onore dei veterani e dei feriti di guerra. Giovani e meno giovani che si affollano sotto la grande struttura accogliente dell’ambasciata. Moderno design estremo e intrepido. Così essenziale e colorato da scacciare l’idea del dovere burocratico, delle scartoffie e dei compromessi. Spazio disponibile, in affitto, per eventi sociali, commemorativi, di promozione. Un’azienda che fa affari con l’esercito ha pagato, e si è affittata lo spazio per il concerto.
Si assiepano nel suo vasto centro, nella hall polifunzionale, questi veterani e feriti, uomini e donne, soli e accompagnati. Sono tanti, sono giovani e meno giovani e sono tutti mutilati a dovere. Di un braccio, di una gamba, del sorriso. Mentre i loro familiari li scortano, li spingono sulle carrozzelle, gli stanno intorno ma non addosso.
Tu senti la musica, mangi al buffet, guardi e sorridi, stringi mani, ascolti. Mentre dal palco ti arrivano i suoni di discorsi palpitanti onore e amor di patria. Giustizia, difesa della libertà. Ci sono alcuni bambini che si aggirano per i tavoli del buffet con l’aria seria e la cravatta troppo grande al collo. Danno l’idea di non averla prevista, questa cosa, di aver perso un pezzo di genitore in guerra. E in controluce, verso le garbate lampade delle sale dei ricevimenti, le vedi chiare come ectoplasmi minacciosi, le crisalidi che gli si stanno avvolgendo intorno.
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