ANTALAYA
Sono ad Antalaya, grande città della costa turca al di sopra di Cipro. Il clima è umido e la gente del posto dolce. La signora che gestisce la Pansyon è come una mamma anziana e premurosa. Mi accoglie parlando un perfetto inglese in modo veloce come una piccola graziosa paperina.
Pur essendo turistica, Antalaya (che è assolutamente da visitare) non è aggressiva come Kushadasi. Sono appena tornato da Konya, una vera e propria città orientale situata nell’entroterra turco a 5 ore da qui. È una città santa perché ci sono i resti mortali di Rumi (fondatore dei Sufi) e perché l’Islam impera, mentre qui ad Antalaya lo si nota appena. Konya è stata toccata da S. Paolo e S. Barnaba. Al loro tempo si chiamava Iconium.
Il mondo turco, attraverso il quale sto passando, mi lascia con un insieme di emozioni che sono difficili da esprimere in poche parole. È un mondo composto da molti livelli o strati. Lo si vede esteriormente ma lo si prova pure nell’anima e lascia una certa confusione.
Certamente ha molti aspetti sani che l’Occidente sta paurosamente perdendo. Soprattutto nell’interno si conservano ancora le ‘buone maniere’ di un tempo: negli autobusle persone più giovani si alzano e spazio a quelle più anziane o, generalmente, alle donne. Se qualcuno vede uno straniero in difficoltà gli si fa incontro per aiutarlo. I bambini di pochi anni sono molto svegli e si dedicano pure ai lavori più umili apparentemente senza la svogliatezza e la irrequietudine di quelli italiani. Oggi la prima colazione mi è stata servita da una bambina di 6 anni!
Il mondo femminile è pressappoco divisibile in tre livelli: le donne ‘europeizzanti’, che però non raggiungono mai l’aggressività maschile di quelle occidentali e che vestono come in Occidente; le donne ‘tradizionali’, con un velo colorato e vestito lungo; le donne ‘ tradizionaliste’, tutte coperte e vestite di nero.
Questi tre generi di donne mantengono un distacco discreto ma evidente dagli stranieri (soprattutto nei luoghi a più forte influenza islamica) e, in genere, non pare che incidano molto sulla società esterna.
La società esterna (non quella all’interno della famiglia) è prevalentemente maschile. La nota maschile è fortemente marcata ovunque sicura, serena, paziente e forte. A una certa ora, poi, per le vie della città interne si notano soprattutto gli uomini: le donne scompaiono affaccendate nei mille lavori casalinghi.
Tranne alcune città della costa – più o meno divorate dalla piaga ‘tumorale’ del turismo – noto che questa società è un po’ troppo chiusa in se stessa e forse non ha ben presente di contare poco nel mondo occidentale che incurante di lei prosegue la sua folle corsa consumistica.
Comunque, nonostante alcuni limiti che alla lunga e solo all’interno della Turchia mi paiono soffocanti, noto la semplicità, la pulizia psicologica. Non è gente che se va mal vestita per strada soffre: tutt’altro!
Gli italiani, invece, sono concentrati a volte patologicamente su come appaiono, tutto il contrario rispetto ai turchi!
La società è discretamente pervasa dall’Islam a livelli diversi a seconda dei luoghi. Non lo noto solo dal fare sfuggente e attentamente modesto della donne. Ho avuto due differenti sensazioni in due diverse città.
Kuthaya, centro famoso per la finissima ceramica prodotta da fabbriche e da artigiani locali, è addossata a una alta collina sulla quale ci sono i resti di una fortezza bizantina. Dall’alto si vede una pianura sterminata con molte colline. Da lì ho sentito il canto del Muezzin proveniente dalla città: mi sembrava che si espandesse per chilometri per tutta la terra circostante con un infinito eco.
A Konya il canto dei muezzin sembra che venga dalle sfere celesti, ti sovrasta e non capisci da dove arriva. Ti piove addosso e ti convinci che possa venire solo dal Cielo: ‘Allah-U-Akbar’, ‘Dio è grande’.
Questa esperienza spirituale di orizzontalità e verticalità ti dà l’idea di come l’uomo si debba sottomettere a qualcosa che lo sovrasta e lo circonda, che lo voglia o no. Ti rabbrividisce e in alcuni momenti ti schiaccia.
La paurosa, totale e magnifica altezza di Dio onnipresente.
D’altronde questo concetto rigorosamente monofisita sembra sia derivato da contatti del fondatore dell’Isla m c on il cristianesimo non calcedoniano.
Il bello di questa terra e di questo popolo nel quale ora passo è il suo inconsapevole lato bizantino: perfino la struttura delle moschee assomiglia a una chiesa!
A Konya ho visitato il Museo di Mevlana. I primi discepoli di Mevlana vivevano esattamente in interni come quelli dell’Athos!
Domani prosegue la mia corsa in questa strana, affascinante, partecipe eppure estranea realtà turca. Risalirò fin sulla costa del mare per Fethiye e Bodrum. Poi sarà la volta del Dodecanneso greco di Salonicco, della Calcifica, dell’Athos di Patrasso e… ahimè di Venezia con la sua spirituale infinita miseria!!!
TEPIDARIUM
Mi trovo a Bodrum mentre mi assale la solita malinconia che mi rende visita ogni volta in cui sto per passare da un mondo a un altro. Sì, perché la Turchia che domani lascerò, qui si presenta come qualcosa di diverso. Ricordo l’ambiente di Kushadasi, all’interno del paese. Di questo ambiente posso ben dire quanto ad Antalaya mi disse un turco per metà italiano: “In Turchia è come in Italia tra il 1970 e il 1975”. Stessa freschezza di allora. Per quanto strano possa essere, è proprio così: spostandosi nello spazio ci si sposta, in un certo qual modo, nel tempo. Freschezza e vigore che d’altronde ho riconosciuto in chi, sempre a Kushadasi, mi massaggiava il corpo. Ero in un Hamman.
Qui a Bodrum è come passare dal Calidarium dell’Hammam al suo Tepidarium. Dalla stanza calda a quella tiepida. C’è qualcosa di simile ma pure qualcosa di diverso. Riconosco la similitudine nella calma tutta orientale del giovane fotografo che – mentre fremo per la sorte delle mie fotografie digitali – mi rassicura con un lento e pacato gesto. Lo stesso gesto di un vecchio di Izmir davanti allo spettacolo poco edificante della mia nevrotica fretta occidentale: ‘Suhun!’, ‘Calma!’. Non avere fretta, non correre. Per questo, quando il fotografo finisce il lavoro che gli ho assegnato, ho un motivo in più per essergli grato.
Ma a Bodrum riconosco anche la diversità dal mondo turco dell’interno. Qui la voce del Muezzin non cade dal cielo come a Konya. È una voce che si distingue ma che si mescola al chiasso dei turisti e della musica ovunque ossessivamente imperante. Tra la musica noto con un certo stupore anche una canzone di Mina. Sì, stiamo per entrare in Occidente. Tutta la gente che inonda le due principali arterie di Bodrum mi frastorna. Vorrei dire: “Che ci fate qui, voi, che non c’entrate proprio per nulla?”. Mi fermo, però, osservando come anche questo fenomeno consumistico piove sulle spalle dei turchi senza apparentemente ledere la loro calma. In questo, essi mi sanno dare un’ottima lezione.
La nota diversità di Bodrum si coglie anche nei suoi prezzi. La gentile signora che mi ha affittato una disadorna ma pulitissima camera della sua Pansyonmi ha chiesto ben più della spaziosa e lussuosa camera del miglior albergo di Kuthaia da me occupata. Per ingraziarsi davanti a me essa ha pure dimostrato di conoscere la lingua greca…
Domani m’imbarco per Kos, dunque. Da Kos passerò in fretta a Patmos, isola considerata sacra e per questo assai più calma delle altre. Dal Calidarium, infatti, voglio entrare nel Frigidarium (la stanza fredda) più lentamente possibile.
Lo intendo in molti sensi ma pure metereologicamente: mentre qui ci sono dai 35 gradi della costa ai 43 gradi dell’interno, in Italia siamo precipitati già al di sotto dei 30…
PATMOS
Sono catapultato in una realtà diversa da quella appena lasciata alle mie spalle.
Mi trovo, infatti, nell’isola sacra del mare Egeo: Patmos.
Patmos si raggiunge da Kos con un veloce aliscafo. Tuttavia, per quanto veloce sia, sono necessarie due ore e mezza per arrivarci.
I colori dell’Egeo sono fantastici: vanno dal blu intenso al turchese al verde smeraldo, a seconda della profondità del mare. Le isole circostanti sono brulle, praticamente spoglie. In questo modo, su una mare di varie tonalità di blu, si stagliano all’orizzonte strisce di terra e di monti dal colore insolitamente rossastro, quasi rosato.
Il tramonto è dolce, come molte cose di queste parti.
Patmos è detta sacra perché possiede un monastero nella sua più alta collina. Non lontano da esso esiste la grotta che avrebbe ospitato l’Apostolo San Giovanni. In essa egli, divinamente ispirato, scrisse l’Apocalisse.
L’ombra della Turchia pesa ancora nella mia anima al punto che, pur conoscendo sufficientemente la lingua ellenica, escono dalla mia bocca poche parole e anche quelle a stento. Le persone alle quali mi rivolgo mi osservano e cercano di aiutarmi parlandomi in inglese. Non lo sanno, ma mi indispettiscono ancora di più.
Man mano che l’ombra della Turchia si solleverà dalla mia anima riuscirò a comunicare con gli ellenici, ne sono sicuro!
Al momento, però, mi accorgo sufficientemente bene che le persone sono cambiate, ciò che irradia dalla loro presenza non è più quello che sentivo in Turchia. Tra il serio e il faceto spicco un sms ad un amico con il quale è bello scherzare: ‘Mi trovo tra il popolo greco. È molto curioso, pare che sia nato stanco e pare innervosirsi non appena si impegna in un lavoro un poco più complesso dell’accendere un interruttore’.
Sorrido in cuor mio sapendo che in parte quello che scrivo è purtroppo vero. La spessa pazienza anatolica tra i greci non la vedo più. Perfino il ragazzo che mi ha spiccato il biglietto per il viaggio in aliscafo aveva uno sguardo con una certa vibrazione nervosa. È una caratteristica ellenica e temo che la mia solida frequentazione con questa gente me l’abbia trasmessa ampiamente.
Gli italiani si fanno notare anche qua. Sono chiassosi e un po’ troppo eccessivi in tutte le loro consuete manifestazioni. In aliscafo c’erano tre ragazze che si divertivano a sbeffeggiare la lingua greca. Il risultato del loro spettacolo fuori posto è stato quello di farmi divenire accesamente filoellenico!
Appena giunto a Patmos pensavo di essere stanco. Ho cercato subito la mia pensione e, condotto dalla proprietaria, ho appoggiato il pesante bagaglio nella stanza a me riservata. Ho un bagaglio pesante, sempre più pesante man mano che procede il mio viaggio.
Poi, immediatamente e irrazionalmente, ho deciso che non ero più stanco.
Ho affittato una mountain-bike e mi sono messo a razzolare come un forsennato su e giù per le strade collinari dell’isola ammirando i fantastici panorami.
Ora è sera e Patmos nel suo paesino principale è percorsa da bimbi in bicicletta e a piedi che si rincorrono e si richiamano l’un l’altro. Le donne parlottano in qualche crocicchio in gruppi di due o di tre.
Il centro del paesino, con graziosi negozi, non conosce la furia assatanata dei turisti che qui sono piuttosto tranquilli. A Patmos è tutto moderato e calmo, si respira un’aria molto familiare: è l’atmosfera nissiotica, ossia delle isole greche, prima che iniziasse il turismo di massa che le ha alterate per la maggior parte.
È sabato sera. Me ne sono accorto perché da una delle case non lontane dalla mia pensione usciva profumo di incenso. La padrona di casa, per salutare la domenica, è passata in tutte le stanze profumandole.
Evocava, con questo, la presenza del Kyrios nella sua dimora.
GREGORIOU
Il monastero greco-ortodosso di Gregoriou si trova sulla costa occidentale della penisola del monte Athos. Vi si può giungere solo attraverso un traghetto dopo aver espletato le formalità d’imbarco e aver ricevuto il permesso di soggiorno nel Santo Monte. Chi vi accederà con intenti turistici o culturali non potrà che sentirsi isolato, fuori posto. Non che i monaci non possano aiutare qualche ricercatore di storia portato a leggere e a valorizzare il tesoro raccolto nelle biblioteche e nei monasteri attoniti. Ma questa categoria di persone (come d’altronde i turisti) sono piuttosto fuori posto qui. Per questo nessuno si preoccuperà di avvisare gli ingenui turisti perennemente in cerca di sensazioni superficiali. I monaci sfuggono discretamente da tali visitatori. Hanno maturato una sufficiente sensibilità da leggere subito nel volto del visitatore i suoi intenti. Se i fini sono, invece, di ordine religioso o spirituale, essi non lesinano il loro tempo ad ascoltare e rispondere. A Gregoriou ci sono monaci che conoscono il francese e l’inglese, oltre al greco comunemente parlato. Ai visitatori con intento spirituale, i monaci spiegano che il più grande tesoro del monastero non consiste nella sua graziosa e intima architettura, negli affreschi della chiesa o negli antichi manufatti liturgici. Consiste nel suo stile di vita, nel suo silenzio sacro rotto appena dalla sciabordio del mare nel porticciolo sottostante al monastero e dai sintetici e pacifici dialoghi tra i monaci. Come potrà il mondo contemporaneo intuire la profondità di questa vita tutta protesa a nutrirsi di Grazia e ad anticipare il mondo divino in terra? Il mondo contemporaneo vive con ritmi frenetici, assurdi, innaturali. Qui, al contrario, il tempo sembra fermarsi e affacciarsi all’eternità. In monastero ogni giorno ci sono lunghe ore di preghiera comune nella chiesa principale detta katholikon. La vita liturgica inizia alle 4 del mattino, lentamente, intimamente, all’interno della chiesa immersa nelle tenebre appena schiarite dalla luce di qualche lampada ad olio. Con il passare del tempo la liturgia diviene sempre più consistente e solenne, senza perdere la sua innata modestia, giungendo al suo apice al momento eucaristico. Attorno alle 9 di mattino tutto termina ed è il momento del… pranzo! Sì, perché nell’Athos si segue l’ora “bizantina” secondo la quale la mezzanotte coincide con il tramonto del sole. Al pranzo – al quale non si da’ quell’importanza che vi riserva il mondo secolare – segue il lavoro monastico o, se è necessario, il dialogo di qualche monaco con qualche visitatore o pellegrino. Il dialogo non è mai superficiale o inutile. Nasce dalla preoccupazione di far camminare il proprio prossimo, di fargli scoprire la vita e la presenza di Dio. Lo stesso monaco è un uomo che cerca di vivere in Dio. Ci si accorge di questo, perché le parole monastiche hanno una forza particolare, sono parole piene del denso silenzio di Dio, quel silenzio che si sente nelle chiese attonite imbevute di preghiera o davanti ai resti mortali dei santi che vengono esposti alla venerazione. Questo stesso silenzio mostra l’inconsistenza di tanta agitazione umana, o meglio, la sua malattia. Infatti, qui si insegna che non si ammala solo il corpo o la psiche dell’uomo. Si ammala anche la realtà più profonda, lo spirito, ed è da qui che nascono tutte le altre malattie.
Il monastero, come la Chiesa, è dunque un laboratorio medico e i primi esseri in cura sono i monaci stessi. Perciò la loro gentilezza non è un atteggiamento artefatto, umanistico o convenzionale.
Lo stesso interesse monastico verso i fatti del mondo è totalmente privo di attaccamento e di passione. Infatti, non si accalorano, non perdono la loro calma, come potrebbe capitare normalmente a chiunque. Vedono tutte le umane vicende come se fossero su un altro pianeta. In un clima così misurato è perfettamente naturale che anche i visitatori vi si adeguino e vi entrino in sintonia.
Quando ciò avviene ci si accorge chela bellezza del Monte Athos: con il suo mare cristallino, la sua rigogliosa vegetazione mediterranea, la maestosità della sua montagna, è una bellezza naturale e spirituale al contempo. Perciò qui si insegna che tutto porta verso Cristo attraverso la Panaghia ( la Tutta Santa ) guardiana e protettrice di questo lembo di terra impastato da mille anni con il sudore ascetico della sua presenza monastica.