Via Municipio è una via centrale poco dietro Piazza dei Signori, cuore e vetrina della trevigianità che trascorre. I negozi che la animavano, o meglio le botteghe che abitavano i portici di questo breve tratto, erano tutti legati a necessità quotidiane di vita spicciola, disposti lungo la morbida discesa della via, affiancati alle tipiche osterie che trapuntavano i marciapiedi come essenziale punto di sosta della giornata in città. In pochi metri un grande scuro antro di ferramenta brulicante di commessi in camice blu che sbucano da ogni parte, rumori metallici, arnesi per ogni mestiere e un retrobottega davvero molto misterioso; subito a lato il profumo caldo e solleticante di un panificio, stavolta con commesse in divisa bianca, visi larghi e pieni, sorridenti a me bambina, gentili dispensatrici di parole di saluto assieme a delizie fragranti e profumate che già pregusto spingendo la pesante porta in ferro; di fronte il negozio di Paolo, che vende con l’anziano padre prodotti per pulire la casa, scope, smacchiatori… una sorta di ricettacolo di bombolette e flaconi colorati destinati ad usi misteriosi che mi sfuggono, ma che le donne che lo frequentano paiono ben conoscere. Poi un’osteria lunga e stretta, coi panini e i cicheti in vetrina, un oste che non so decifrare, un banco di legno scuro lungo quanto l’infinita sfilata di bicchieri e calici, le “ombre”, che è destinato ad ospitare a ogni ora del giorno.
Infine il casoìn, il pizzicagnolo, bottega di alimentari gestita da mio padre e mio zio. Ci si trova di tutto: il baccalà bagnato col suo odore fortissimo, il grosso sacco di iuta con dentro le lumache, vini e liquori, riso e pasta, la squisita sopressa veneta, condita però da un ingrediente introvabile altrove, le barzellette e gli scherzi di papà, fonte inesauribile di buonumore per le clienti che affollano il negozio. Un posto dove tornare, una piacevole abitudine della familiarità quotidiana, cui assisto come a una rappresentazione, un teatro arricchito dalla presenza confortante del cibo e del vino, offerto e condiviso, tanto che non si capisce più cosa è osteria e cosa no, i confini si confondono, non ci sono muri in questa via, solo porte di ingresso molteplici ad un unico flusso, facilitato dal dolce declinare della strada, che pare favorire il moto inerziale dei corpi. I corpi qui mi paiono scivolare su una distesa di parole, di chiacchiere che segnano il tempo e gli danno consistenza, lo rendono vivibile. C’è l’idea di un senso e di una sapienza che passa sopra le teste di tutti e tutti comprende, qualcosa di consolante che non si comprende ma che si accetta come naturale.
Entrando in Via Municipio può capitare a volte di sentire arie d’opera suonate a volume altissimo: voci di soprano, spesso la Callas , si spandono facendo riecheggiare i portici e il selciato. Il suono proviene dai balconi di Luciano Gasper, il pittore che abita al primo piano sopra l’osteria; è in casa e probabilmente è contento, penso ascoltando, magari sta dipingendo.
La mia prima bizzarra e infantile idea d’artista è legata a questa figura assai nota in città, quest’uomo alto e robusto, capelli insolitamente rossi e occhi glauchi un po’ lacrimosi, voce stridula e modi un po’ femminei. Di lui, che vive, anzi sopravvive della sua pittura, si favoleggiano trasgressioni d’ogni tipo: l’avventura di una notte con Patty Pravo, amori femminili e maschili che nutrono le affamate ciàcole di paese sempre a caccia di scandaletti veri o presunti.
Ricordo di averlo visto una mattina a fianco di un ragazzo inglese, biondo e molto bello, che si portava in giro come un trofeo mentre salutava la gente della via, con mio padre che precisava (con malizia che già comprendevo) sottovoce a mia madre: “È un suo allievo, gli insegna a dipingere”.
Appesi alle pareti di casa mia ci sono tuttora parecchi quadri suoi, regalati a mio padre in cambio delle spese fatte a credito, dei superalcolici che consumava quando le osterie erano chiuse.
Ancora oggi penso a Gasper come il primo vero esempio di irregolarità con cui sono venuta a contatto: niente famiglia, niente lavoro fisso, neppure una sessualità nettamente definita.
Abbastanza umorale e ramingo, sempre in giro, mi pareva venisse percepito come un originale, un po’ invidiato per la sua libertà, un po’ biasimato per la sua scarsa affidabilità, spesso minata dall’alcol. In una tavolozza di colori più uniformi che era la via, la sua presenza era una pennellata decisa arancio rossa, rosso acceso come quello dei suoi capelli, che tingeva da quando il grigio aveva fatto capolino.
Dell’ambiguità che si portava addosso penso abbia beneficiato la stretta vita di provincia, un’apertura insperata in una città spesso moralista come Treviso, ben ritratta nello spietato “Signore e signori” di Pietro Germi; una città che mi pare comunque averlo accolto e amato, accettato nelle sue stramberie, per come mi è parso attraverso gli occhi e i racconti di mio padre, persona sempre generosa.
Tempo fa, rovistando tra vecchi libri, ho trovato una plaquette di Gasper intitolata “Pensieri” e l’ho riscoperto poeta; manca la data, ma c’è una dedica: “a Bruno, con amicizia”.
Tra evidenti ingenuità ed echi di mauditisme, leggendo recupero parte di quella presenza che, bambina, non potevo cogliere in tante sue sfumature. Mi piace perciò trascrivere alcuni di questi suoi pensieri, come testimonianza di un’umanità e di una vita, più che di un fare programmaticamente “artistico”, che qui mi pare comunque secondario.
*
IL DESTINO
Questa mia povera mesta, folle letteratura:
solo ali di carta
con la brezza che soffia;
batti tutto su di me,
dinnanzi tempeste di gioia
sul pieno di un condottiero.
Mi portasse un fauno nel bosco!
Sono un flauto indeciso,
vado a dimenticare tutto dormendo.
LA GENTE
Lo splendido genio,
io, il vostro desiderio
sollecitato, tranquillo disastro
grande bicchiere chiaro
disfatta pioggia
rimanga là.
Quei fiori che nessuno scolora
raggio di un grande giorno
trionfalmente
sono tra la gente
un sorteggio tra
la gente.
LA CHIAVE
Traverso di notte
il filo dove i terrestri
trascinano ombre di pietre.
Perché? Si domandano…
stretti nello sguardo del cielo
si domanderanno una sola chiave
metro sogno di stagno
ormai non sono che il tuo sogno.
IL LEONE BIANCO
Gira – gira –
l’ombra del nostro tetto
ronda variopinta
di due cavalli.
C’è anche il cervo.
E se ci fosse il leone? C’è.
Un leone bianco
che tiene le redini;
perché non metterci l’elefante?
Sì, dai, è bontà!
Sui cavalli mettiamoci delle belle carrozze
luminose che sorgere dal nulla sembrano il balzo di ogni giro.
Elefante bianco.
LA MIA GUERRA
Guardo il mio giradischi
e il mio scaffale di libri
naturalmente – voci usate
sì – sì, pieno di cose:
non ho capito
se da imparare
oppure da trasmettere;
a volte posso pensare di trovarmi con la paglia tra i denti
sarà la laguna o dall’alto mare…
sospeso divento mutilato
la mia cultura diventa scimmia
in cadenza è cultura.
Io quel giorno mi dichiarai guerra.
PENSIERO/ 1
Vorrei sostituire la vicenda dei miei giorni tristi
il vino
le amanti e gli amici
tormento a sostare sul Piave con ebbrezza.
È
il mio antico sogno d’estate.
IL VINO ROSSO E BIANCO
Non ho nulla da offrire a distanza:
forse cisterne di vino – bianco…rosso –
le denominazioni sono tutte controllate
– così dicono –
se sono vere domina il cervello
dei colori anime inebrianti
sarà l’urto distruttore
che piega nelle creazioni.
Estrema solitudine di ottobre
voluttà dei vigneti
sono sempre ore calme nelle nostre campagne.
PENSIERO/ 2
L’aria è invisibile tra luna e cielo,
l’acqua è invisibile;
metro di pensiero,
fede – fretta nel sesso…
Sì – lo vedo!
metro della mente – nero pensiero
di giorno in stanza
su vestiti?
CAPELLI
Guardando i tuoi capelli
mi gira la testa
mi sembra di essere nel vuoto
cercano tutti i tuoi riflessi
amore assomigli al mio desiderio.
Sguardi e sospiri
sogni d’ombra
nebbia
la mia memoria con me
parola da uomo
venire – andare
a volte come amore
il tempo – il tempo.
I MIEI LUPI
Dove sono andati a finire i miei lupi fedeli?
Sono dei soldati che ricordano solo la pelle
catturata.
Innamorati solo per galanteria,
che dolci i miei lupi!
Purtroppo i tempi son cambiati
i soldati come imperi sono diventati vampiri
secondo il comando,
i lupi son diventati tigri
sono andati tutti ormai!
Sono rimasto io
e monto il mio grande cavallo
ove le guerre non ci sono – spero
che i lupi mi rimangano fedeli al ricordo dei Cesari di Roma.
IO
Qui non vivo
né vivo né morto.
Le luci ardono nella mia città di Treviso
dove gli uomini temono insieme;
in punta di piedi per non cadere
scesi il pendio degli anni
la porta era finita
non c’era nessuna serratura e ci troviamo stretti in trappola.
Pochi chilometri mi avrebbe portato indietro
come in strada sotto la luna.
E un uomo grasso e grigio – ma sereno –
ci voleva nella mia città
come la strada fatta sotto la luna…
gli uomini incontrandosi
sono troppo timorosi
per frenare il passo troppo precoce
su questa mite città
Treviso.