… ma seguitiamo Angelica che fugge.
Fugge tra selve spaventose e oscure…”
Ariosto, Orlando Furioso, I, 32-33
1. Eroi che girano a vuoto
All’inizio del poema ariostesco, Angelica che fugge nella selva ci trascina subito in un mondo dove tutti agiscono in stati di incantamento o di fissazione prodotti dal gioco della sorte. La bella Angelica fugge sul suo palafreno dal campo cristiano e incontra il paladino Rinaldo, che lei detesta fin dal poema di Boiardo perché ha bevuto alla fontana del disamore, mentre Rinaldo l’ama e l’insegue perché ha bevuto l’acqua dell’amore. È l’inverso dell’inizio boiardesco, dove Angelica inseguiva Rinaldo avendo bevuto alla fontana dell’amore, e Rinaldo la fuggiva avendo bevuto a quella del disamore. Tutto sboccia di qui, su uno sfondo di vita vegetale, dove ci sono solo percorsi erratici, gesti iperbolici, meraviglie dell’amore e dell’odio, e dove ognuno si perde correndo dietro alle proprie fissazioni.
Subito, con Angelica che fugge e i suoi spasimanti che l’inseguono, duellano, ansimano per possederla, ma poi non combinano niente, c’è il senso d’un girare a vuoto che pare insensato, vano e mattoide. Questi eroi che girano a vuoto sembra che non sappiano cosa stiano facendo, trascinati dai furori maniacali dell’amore e dell’odio, da moti di attrazione e repulsione, secondo lo schema delle due fontane. In loro non c’è parvenza d’una libera volontà di agire, nessuna traccia di quella disgrazia che chiamiamo psicologia – solo teatrali sussulti, con risposte fisse in conseguenza di eccitazioni esterne che li colpiscono. Poi, che gli eroi cavallereschi siano colpiti da una spada, da una minaccia, da un grido di sfida o da un viso di donna (come “l’angelico sembiante” della nostra eroina), la loro reazione è sempre uguale; è un furioso e automatico slancio verso la fonte dello stimolo, verso lo scontro o l’inseguimento, dove la massima esaltazione è legata alla gioia bambinesca del cozzare e del percuotere.
Con tanti sfrenati slanci, si direbbe che girare a vuoto sia un il loro destino naturale, per eccesso di ardori. Angelica fugge da Rinaldo e incontra Ferraù, il quale inizia un duello con Rinaldo per amore di Angelica, che però è già fuggita di nuovo; nel frattempo, in questa selva dove tutti si perdono e si ritrovano, Sacripante sta lamentandosi perché teme che un altro abbia colto il fiore verginale di Angelica prima di lui; così appena lei appare si dispone al “dolce assalto”. Figuriamoci se combina qualcosa – è interrotto dall’arrivo della guerriera Bradamante, con cui inizia un duello; lei lo butta a terra con un colpo di lancia, e via che parte alla ricerca del suo amato Ruggero, mentre arriva il sudato Rinaldo che inizia un altro duello con Sacripante, e Angelica fugge di nuovo, etc.
Tutti ripetono le stesse mosse, e ogni incontro non fa che distrarci dal precedente; le azioni rimangono sempre sospese, e gli eroi si disperdono verso altre gesta che saranno interrotte da nuove distrazioni. Ciò che fa germinare le trame non è il significato o lo scopo delle azioni in corso, bensì le distrazioni che la rilanciano verso altre imprese e altri tragitti. Questa è una specie di regola nei poemi cavallereschi, dove c’è sempre l’arrivo d’un messaggero che richiama l’eroe da un’altra parte, o d’un altro cavaliere con cui ha inizio un nuovo duello, o d’una dama da soccorrere correndo verso altre avventure. Non c’è mai un duello, un incontro o uno scontro che vada in porto, salvo rari casi che servono a concludere un ciclo di episodi. Il principio attivo del narrare qui è l’arte del distrarsi da ciò che si sta narrando, come per una smemoratezza che ci devia verso nuove fantasie, ossia verso altri giri a vuoto. Ogni linea d’azione ci porta sempre verso nuove trame, su tragitti divaganti per distrazione da una meta; e ciò che conta alla fine, non è il senso delle imprese cavalleresche, ma il disegno delle linee che tracciano, con cui le peregrinazioni eroiche prendono la forma di intrichi o di arabeschi.
2. Eroi come maniaci selvatici
Nei poemi cavallereschi c’è una riduzione d’ogni fantasia a puri moti fisici, dove anche i sentimenti si manifestano come azione materiale di corpi che si scontrano – dall’amore inteso come “assalto”, fino ai pensieri che turbano la mente, spesso indicati da Ariosto come l’azione fisica di qualcosa che “rode e lima” il cervello (I, 3; I,31; I,41). È questa passione per la meccanica degli urti, delle spinte inerziali dei corpi, che crea le meraviglie iperboliche delle gesta, sempre come moti fisici irrefrenabili e maniacali – maniacali perché danno il senso dell’idea fissa, della reazione automatica in rapporto a uno stimolo.
Gli eroi cavallereschi sembrano tutti dei monomaniaci, che ispirano una forma di divertita simpatia o di riconoscimento familiare, come chi torna sempre alle proprie idee fisse e non riesce a vedere altro. Ognuno ha la sua idea fissa che decide del suo destino, e Orlando va dietro alla fissazione di raggiungere Angelica, Rodomonte di ergersi come il flagello del mondo, Marfisa di dimostrare il proprio grande valore, Bradamante di ricongiungersi con l’amato Ruggero, Mandricardo di mostrarsi il guerriero più spavaldo che ci sia, Gradasso di conquistare la spada Durindana , Anhelica di sfuggire ai suoi spasimanti, etc. Questo è l’unico senso e scopo dei loro comportamenti, la freccia che definisce la direzione dei loro vagabondaggi da perpetui agitati, senza soste, senza riposo.
Ariosto non usa mai il termine “mania”, ma tutto il suo poema è pervaso dal gusto di narrare l’eterno ritorno di moti bradi, di reazioni selvatiche, con la riconoscibilità di manie tipiche e proverbiali. Non è la mania ispirata da un dio, di cui parla Platone, e neanche una nozione patologica come nella psicologia moderna. Le furie di Orlando, di Rinaldo, di Rodomonte, degli altri sono qualcosa come l’incaponimento d’un animale per montare la femmina, o per scornare i rivali, o per dominare il gregge, la mandria, il gruppo. Rispetto al gregge umano generico, l’eroe cavalleresco ha lo stesso ruolo del montone tra le pecore, del toro nella mandria bovina, o del gallo nel pollaio; e le sue turbolenze sono come quelle d’un montone o d’un toro che si lancia a testa bassa guidato da stimoli belluini.
Non è un caso se il mondo selvatico della foresta è il teatro naturale degli eroi maniaci, lo sfondo d’ogni duello e sperdimento, dove appena s’annuncia uno scontro scattano similitudini plurime ad amplificare l’azione con metafore animali e vegetali. Così, se due eroi combattono, tutta la foresta trema o geme ai loro colpi; se si attaccano, sono come cani che si mordono, o montoni che cozzano l’un con l’altro; se il nemico arretra davanti alla furia di Ruggero, è come una lepre in fuga; se Rodomonte impazza per le vie di Parigi, è come un toro che carica la folla; se Mandricardo agita la spada, è come un vento alpino che scuote la frondosa selva di marzo.
È la similitudine a definire la tempra d’ogni eroe, come un emblema appeso alle sue azioni. Rispetto a Boiardo e Pulci, in Ariosto c’è una straordinaria crescita di similitudini a grappoli; soprattutto con la vita vegetale e animale, pastorale o silvestre – similitudini che rimandano alla vita fuori dalle mura cittadine, e danno ai furori eroici il senso di fenomeni naturali o di proverbiali tropismi d’un mondo selvatico. D’altronde un eroe cavalleresco in una città non ci sta a far niente; è una comparsa rara che viene a mettere tutto in subbuglio, come se fosse totalmente inadatto a quella vita. Selvatica è Angelica che fugge “tra selve spaventose e scure”, lanciando spesso alte grida; selvatico è il gentile Ruggero quando si lancia tra i nemici; non parliamo del bestiale Rodomonte e del feroce Mandricardo; e quanto a Orlando, che vaga impazzito d’amore, nudo e villoso, incarna precisamente la figura popolare dell’uomo selvatico.
Ma la selvatichezza maniacale si vede soprattutto quando la furia d’un eroe s’abbatte su masse di corpi anonimi, chiamate “populazzo vile”, “sciocca folla”, “sciocca turba”, sterminando eserciti o folle che incontra sul suo cammino. Ed è l’apice della gioia dei cozzi e delle percosse, quando il poeta può raccontare un massacro di folle in fuga, con pezzi di corpi scaraventati in aria, teste rotte e ossa sbriciolate – immagine della mandria schiacciata dall’animale dominatore. Qui si nota la differenza tra destino eroico e non eroico: dove il destino eroico corrisponde a un invasamento selvaggio incontenibile, mentre il destino non eroico è quello del gregge umano generico, fifone e sciocco. E tanto le masse umane generiche sono volubili, pronte all’attacco o alla fuga secondo come tira il vento (è la regola anche in Boiardo), altrettanto fissati sono gli eroi nei loro furori, nell’incaponimento dei cozzi e percosse.
3. Schema paradossale della mania
Nella tradizione del romanzo cavalleresco, la mania – specchio di moti selvatici proverbiali – finisce per collegarsi all’idea d’una follia fantastica che viene dalla tradizione lirica. Si può pensare al farnetico visionario di Dante nella Vita nova; ma ci si avvicina di più pensando all’incanto amoroso in Petrarca, figurato come una trappola dove il pensiero si impania. Nelle liriche di Petrarca, come in quelle molto petrarchesche di Ariosto, abbondano le metafore della trappola amorosa, definita “rete”, “nodo”, “laccio”, che è sempre tessuta con chiome d’oro, come quelle della bionda Angelica. Questo è l’emblema della mania amorosa in cui il poeta si incanta – ad esempio nei sonetti ariosteschi: “La rete fu di quelle fila d’oro/ in che ‘l mio pensier vago intricò l’ale…”(sonetto IX). E chi cade nella trappola di quella bionda malia, si trova non tanto a inseguire una donna quanto un’immagine verso cui volano sempre i suoi pensieri: “Non sarei di vedervi già sì vago/ s’io sentissi giovar, come la vista,/ l’aver di voi nel cor sempre l’imago” (sonetto XVII).
L’inseguimento a volte è figurato come una cavalcata, una corsa sul sentiero dell’errore, dove l’oggetto del desiderio fugge. È uno scenario petrarchesco che dà alla passione amorosa il senso d’un incantamento destinato a restare un’idea fissa e insensata. Perché l’immagine inseguita sfugge a ogni cattura, a ogni richiamo, mostrando il paradossale schema dinamico della mania: quanto più x l’insegue, tanto più y sfugge, per cui x e y resteranno sempre alla stessa distanza, e la trappola d’amore è appunto questa incolmabile distanza di fuga dell’immagine. Schema petrarchesco che si può applicare a tutti gli incantati cavalieri di Ariosto, innamorati o no, perpetuamente vaganti dietro a un’idea fissa. E il loro destino d’erranza è figurato in epitome dai vagabondaggi di Orlando che insegue Angelica fino all’impazzimento bestiale, dove la storia d’Orlando non fa che portare a dimensione epica alcune metafore di Petrarca, come ad esempio: “Sì traviato è ‘l folle mio desio/ a seguitar costei che ‘n fuga è volta…”.
Angelica è chiaramante un calco dell’immagine amorosa petrarchesca; e il suo nome non è che l’antonomasia della donna come “angelico sembiante”, figura centrale della lirica amorosa. Ora, la mossa narrativa nuova e strabiliante è di paracadutare tale delicata figurina nel mondo selvatico, tutto fisico, degli eroi maniaci che agiscono solo per incaponimenti beluini. Ed è una novità che fin dalla sua apparizione (in apertura del poema di Boiardo) mette in subbuglio tutto l’universo cavalleresco. Perché, con la sua perpetua sfuggenza, Angelica è subito come il motore, il “primum mobile” dei giri a vuoto; è la spinta inerziale dei moti maniacali; è la traccia da cui nascono tutti gli inseguimenti, tutte le trame. Lei incarna le proiezioni su cui l’incantamento si fissa, il “filo d’oro” con cui si ordiscono i “nodi”, le “reti” del desiderio.
Per questo Angelica è la grande invenzione che rivoluziona il romanzo cavalleresco. Grande invenzione di Boiardo, il quale la presenta come una maga che scatena invasamenti maniacali con le proprie malie (Orlando innamorato, libro primo, 1,37). Ariosto la cita come “angelico sembiante”, “sembianza”, parvenza che scompare (XI,8), “imago” (XII, 26); tutte metafore di un desiderio puntato non tanto sulla donna quanto sulla sua immagine, come nelle liriche amorose del nostro poeta: “l’aver nel cor di voi sempre l’imago”. Ma nel nostro poema “imago” indica anche le figure magiche con cui suscitare un incantesimo, come nel caso del mago Atlante che crea un castello dal nulla per incanto (XXII, 23). È un’accezione diffusa del termine, riferita ai libri di magia, che ricorre già in Dante: “fecer malie con erbe e con imago” (Inferno, XX,123).
Come figura della malia e dell’incanto amoroso, Angelica è un’inafferrabile “imago”, che produce i suoi effetti magici a distanza. Non un carattere con una sostanza psicologica, ma una traccia che crea un intrico di inseguimenti a vuoto; romanzesco simulacro per suscitare il film dei desideri. Di lei sappiamo solo che è bionda, giovinetta di bellezza assoluta, e detentrice di un anello magico che ha il potere di dissolvere gli incanti e di farla sparire. L’anello riassume la sua potenza di figura che fuggendo o svanendo produce effetti di invasamento insensato: “donde lor sparve subito agli occhi,/ e li lasciò come insensati e sciocchi” (XII,34). E già da una delle prime scene nel poema di Boiardo, quando svanisce nell’aria agli occhi dello strabiliato Ferraù, è fissata questa sua specialità di mostrarci l’incanto dei desideri come potenza di immagini vane e sfuggenti.
4. L’incatturabile oggetto dei desideri
Si capisce perché questi eroi siano destinati a girare a vuoto in preda a una follia fantastica. Neanche uno dei loro inseguimenti e desideri va in porto, né quello di Orlando e di tutti gli altri che spasimano per Angelica, né quello di Gradasso che sogna di conquistar la spada Durindana , né quello di Rodomonte di ergersi come il flagello del mondo. Neanche gli innamorati si ricongiugono mai felicemente, né Zerbino e Isabella, né Brandimarte e Fiordiligi, né Olimpia col suo sposo traditore. Lo schema paradossale della mania, dove il desiderio non può mai raggiungere
la cosa inseguita, tiene in piedi tutte le trame del poema, senza eccezioni. (Quanto a Ruggero e Bradamante, ci vuole il destino scritto nelle stelle, annunciato nel poema boiardesco, per trasgredir questa regola e farli convolare a nozze).
Nel XII e XXII canto c’è una spiegazione del moto errabondo a cui portano le idee fisse, spiegazione in termini esemplari, da imparare a memoria. Qui si parla del palazzo incantato del mago Atlante, il quale tiene prigionieri molti eroi con il trucco magico di far apparire a ognuno il simulacro della cosa o della persona che va inseguendo. La mania è un gioco di simulacri in cui ognuno vede la propria fissazione, e “a tutti par che quella cosa sia/ che più ciascun per sé brama e desia” (XII, 20). Così ognuno corre dietro a una pura proiezione dei propri desideri, dei propri amori o odî, suscitata dal mago Atlante con la visione della sua idea fissa: “fingendo la sua imago” (XXII,26).
Da notare la funzione della “imago”, delle immagini, che sono schermi vuoti in cui ciascuno proietta il film dei propri desideri. Sicché, inseguendo la stessa vana “imago”, Orlando crede di correre dietro ad Angelica, Ruggero crede di inseguire Bradamante, etc. Come nelle figure magiche degli incantesimi, “l’imago” è potente proprio perché non ha sostanza, è solo una “finzion d’incanto”, che suscita mobilità del corpo o dei pensieri. Ma è anche il segno che l’inseguimento dei desideri è un continuo girare a vuoto “per vani sentieri”, e che l’oggetto d’ogni desiderio è irraggiungibile. Poi, dato che ognuno vede nel vuoto schermo delle immagini “quel che più brama e desia”, la mania risulta un incantamento di cui ognuno è prigioniero durante il suo peregrinare nel mondo; come Orlando in cerca di “colei che nel carcere d’Amor lo tenea chiuso” (XII,66). E le idee fisse degli eroi ariosteschi funzionano sempre come quelle della mania amorosa, che è l’epitome di tutte le manie – sono un richiamo che si segue senza poter fare altro, l’incaponimento dei cavalieri votati al perpetuo errore dei desideri.
Nello stesso tempo, la contentezza che il poema ariostesco riesce a darci subito, con la fuga di Angelica, è appunto quella della mobilità continua, del perdere la meta per “vani sentieri”, nel dedalo di vagabondaggi in cui si sperdono i maggiori eroi. L’effetto dello sperdimento crea uno stato di sospensione, in cui la lettura prende il senso dell’incanto: l’incanto di quando si va dietro a qualcosa senza una meta, ma trascinati da un richiamo. Ed è come se un segnale si muovesse davanti ai nostri occhi, ipnotizzandoci con la sua mobilità, in un disegno labirintico – in una fuga di linee che non hanno alcun valore specifico se non quello di stabilire relazioni con altre linee, con altri percorsi, che ci portano da un intreccio all’altro, da uno sperdimento all’altro, per varianti delle stesse mosse e delle stesse trame.
5. Veduta d’insieme: linee di fuga, intrichi, sperimenti
A una veduta d’insieme del poema, ci si accorge che tutto il suo impianto narrativo sboccia dalle prime mosse di Angelica in fuga dai suoi spasimanti (Rinaldo, Ferraù, Sacripante); perché si crea subito un groviglio di trame che ci porteranno molto avanti, con tre linee di movimento (di Angelica, di Rinaldo e di Bradamante), destinate a produrre molti altri episodi e molte peregrinazioni degli eroi. Con la sua straordinaria mobilità, Angelica semina dietro di sé linee di fuga che si annodano e s’ingrovigliano, sempre più lontano, nella vaghezza dei sogni. E la sua fuga (alla nona strofa del primo canto) è il bandolo d’una matassa, che poi svolgendosi crea un enorme intreccio di fili narrativi – dove però poi tutte le sue linee si congiungono, tutte le trame si intrecciano, dopo essere sbocciate come per crescita spontanea da una traccia iniziale.
La partenza di Angelica dall’accampamento di Carlo Magno è la traccia che parte dal centro di tutte le trame possibili (Parigi, fulcro del grande scontro tra cristiani e saracini); ma un centro che si rivela subito un vortice da cui nascono moti centrifughi di sperdimento dei maggiori eroi (a parte Astolfo e Marfisa, decentrati dall’inizio). Ed ecco la dinamica del poema: lo sparpagliamento degli eroi più forti e rinomati, cristiani e saracini, che non stanno lì a combattere per la causa della loro religione, ma vanno sempre vagando di qua e di là, per effetto di distrazioni dalle loro mete; fino a coprire quasi tutte le aree geografiche conosciute, con i viaggi di Ruggero e Astolfo sull’ippogrifo. E la vicenda di Orlando, l’eroe più forte di tutti, che alla fine dell’ottavo canto parte in cerca di Angelica, diventando poi ammattito d’amore, è l’acme narrativo di tutti gli altri sperdimenti.
Così il poema ha già una forma abbastanza definita, perché le avventure di Orlando formano come una linea dorsale, o punto di riferimento, in mezzo alle miriadi di trame. Allora lo scatto iniziale di Angelica basta ad avviare la lettura, con un seguito di infinite varianti della sua fuga e del suo inseguimento, come se si tirasse dietro tutti i fili del poema dopo aver seminato le prime trame. E quando Orlando parte alla sua ricerca, crea una variante dell’inseguimento di Rinaldo, che era stato deviato da altre imprese (viaggio in Inghilterra); ma anche l’inseguimento di Orlando è deviato da altre imprese (episodio di Olimpia, impresa di Ebuda), perché ad ogni punto è come se bisognasse perdersi in un giro più largo, seguendo linee interne che creano amplificazioni successive e mantengono il senso d’una perpetua sospensione. E Rodomonte che parte via per conto suo, ammattito per il tradimento di Doralice, crea una variante della pazzia amorosa di Orlando; e Ruggero e Bradamante, che si cercano e si perdono sempre, creano l’altra variante dell’inseguimento amoroso reciproco; con l’altra variante di Zerbino e Isabella che si cercano sempre ma finiscono male; con l’ulteriore variante di Brandimarte e Fiordiligi, che si cercano sempre, ma ogni volta che si trovano si perdono subito di vista. Queste fioriture di varianti negli intrecci di trame ci richiamano alla relazione interna tra le linee del poema; con centinaia di sperdimenti, distrazioni dalla meta, incroci d’amore e di vendetta, dove è come se tutti eseguissero i passi d’una danza prescritta.
Restano fuori dal gioco le imprese solitarie di Astolfo, che in realtà non insegue nessuno, ma funziona come un aiutante magico destinato a ricucire le smagliature di tanti sperdimenti, in particolare recuperando il senno di Orlando. Ed è Astolfo che alla fine raduna tutti gli eroi dispersi di qua e di là, da Orlando a Ruggero, da Gradasso a Brandimarte, fino a Rinaldo che corre verso quel punto di raduno in cui si risolve la guerra tra cristiani e saracini. Sicché in una veduta dall’alto di tutti questi grovigli, intrecci, linee divaganti, risulta che Angelica e Astolfo stanno come all’inizio e alla fine del gioco. La prima è la seminatrice di trame, la scatenatrice di sperdimenti, mentre Astolfo è il magico recuperatore di fili dispersi, fin dal suo viaggio di ritorno dall’Oriente, dove recupera trame ed eroi persi per strada nel poema di Boiardo.
6. L’arte ariostesca delle trame, pensata come un’arte tessile
Nel poema di Boiardo c’era la stessa dinamica di sperdimento degli eroi partiti all’inseguimento di Angelica, o sparpagliati per scenari della vaghezza romanzesca. Ma quello era anche il motivo della sua incompiutezza, perché l’autore non era riuscito a riportare a casa tutti i suoi eroi, dopo averli sparpagliati sulla carta geografica. Ariosto riprende uno a uno tutti i fili delle trame lasciate in sospeso da Boiardo, con un’opera di tessitura che intreccia le azioni d’una cinquantina di dame e cavalieri, oltre alle trame delle novelle e degli episodi laterali, le gesta delle figure sovrannaturali e dell’enorme massa di guerrieri di sfondo – dove, negli intrecci principali che sviluppa, soltanto una mezza dozzina di personaggi minori sono sue invenzioni.
Bisogna dire che in Ariosto l’invenzione di nuovi personaggi serve in funzione di nuove linee da tracciare, di parallelismi da creare con altri intrecci, e non c’è mai la scoperta di nuovi tipi di eroi tetragoni o eccentrici che troviamo in Boiardo. Ariosto non coltiva effetti intensi e drammatici – a parte l’episodio dell’impazzimento di Orlando, e le aggiunte dell’edizione 1532, con la storia di Olimpia e il melodramma finale di Ruggero e Bradamante. Ma non coltiva nemmeno i giochi comici troppo marcati, e lo si vede dal fatto che elimina gli aspetti molto buffi di Astolfo e di Brunello, splendide invenzioni boiardesche. Al nostro poeta interessa soprattutto la continuità del disegno, la continuità dei passaggi da una deviazione all’altra, il buon intreccio dei fili narrativi: tutte cose che lasciavano spesso a desiderare in Boiardo. Perché Boiardo aggiungeva episodio a episodio, seguendo le sue grandi trovate fantastiche, con una discontinuità che nel complesso rende frammentari i suoi intrecci e traballante il suo poema. Invece il poema ariostesco sembra nascere per giri concentrici a partire dalla prima fuga di Angelica, da un nucleo che si espande armonicamente per amplificazioni successive.
Ariosto ha passato la vita adulta a limare e rimanipolare il suo gran poema, con amplificazioni che espandono senza strappi il suo fitto intrico di imprese. In una lettera, lui chiamava una di queste amplificazioni una “giunta”, parola che forse viene dal linguaggio della tessitura, ed è usata anche nella lettera di Alfonso d’Este che per prima dà notizia del poema ariostesco (luglio 1504). Le “giunte” erano un lavoro di cucitura di nuove e vecchie trame cavalleresche, ricavate da altri poemi, che tornavano a cose risapute, imprese o vendette da riprendere. L’arte ariostesca non è quella dell’invenzione strabiliante che troviamo in Boiardo, ma l’arte più costante e operosa della tessitura, delle “giunte”, dei collegamenti, dei nodi, delle riprese senza strappi. E mi pare non ci sia modo di capire come sta in piedi l’enorme labirinto di trame del suo poema, senza pensare a un’arte tessile, che estende via via l’ordito della tela, in una crescita armonica di linee e motivi, fino ad avvolgersi in un disegno compatto.
7. Ripetitività degli schemi, trame come variazioni
Ariosto ricorre spesso a termini dell’artigianato tessile per illustrare gli sviluppi del suo poema, come un artigiano che mentre lavora ci spiega i propri procedimenti. Nel lavoro di tessitura prima di tutto ci sono dei fili (o “file” come dice lui), e l’intreccio dei fili crea l’ordito d’una tela, su cui si formano i disegni delle trame. Quando un filo si intreccia con un altro, dopo averli annodati, il tessitore ne lascia da parte uno e continua l’ordito con l’altro, per avviare nuove trame. Questo è il lavoro di intrecci, sospensioni, riprese, che il poeta illustra rivolgendosi al lettore: “Ma perché varie file e varie tele/ uopo mi son, che tutte intendo ordire,/ lascio Rinaldo… e torno a dir di Bradamante” (II, 30). Naturalmente si è capito che i fili (o “le file”) sono le linee di azione e di peregrinazione dei vari eroi: c’è il filo di Rinaldo, quello di Astolfo, quello di Orlando, quello di Angelica, quello di Rodomonte, e tanti altri che si intrecciano nell’ordito della tela, abbandonati e ripresi secondo le necessità di disegno.
Quando l’autore cambia filo narrativo e prende a seguire le azioni d’un altro eroe, è come se cambiasse il colore del filo, o la tonalità su cui intonarsi. La tonalità non dipende dal tipo d’azioni d’un eroe, perché tutti fanno più o meno le stesse cose, e cristiani e saracini sono trattati allo stesso modo. Non è come nella trame dei romanzi moderni, dove i personaggi servono a creare motivi di imprevisto, con le loro scelte e il loro carattere. Qui l’arte narrativa ha bisogno di repertori di mosse fisse, di attributi già pronti, come l’immancabile gentilezza di Ruggero, l’immancabile furore di Rodomonte, l’immancabile carattere fuggivo di Angelica; e quando il poeta riprende il filo delle azioni d’un eroe, ritorna sempre alla stessa litania di attributi – Angelica, “ch’esser parea di tutto il mondo schiva”; Ruggero, “che sempre uman, sempre cortese era”; Rodomonde, “ il pagano altier ch’in Dio non crede”; Marfisa, “così altiera, che tutto ‘l mondo a sé pareva vile”, etc.
In queste sempre uguali presentazioni, si sente che ogni eroe è un motivo – motivo figurale come negli emblemi, motivo musicale come nelle melodie, fondato su un nucleo di attributi da cui spunta la tonalità emotiva delle sue fissazioni. Le differenze dipendono da una diversa tonalità nella mania di ciascuno, ma ancora di più dall’effetto che ha l’incrocio d’una tonalità con l’altra. Ad esempio, quando il gentile Ruggero si scontra col brutale Rodomonte, si crea uno speciale punto di eccitazione, per la tonalità contrastante dei loro attributi. E la tonalità drammatica della mania di Orlando sta in massimo contrasto con gli attributi di Angelica, schiva e sfuggente, come un tono molto grave con un tono acuto, che marcano i poli opposti d’una scala tonale. Il filo narrativo d’ogni eroe è come un accordo di base che permette di sviluppare una serie di note successive attraverso i suoi caratteri fissi. Infatti il nostro poeta spiega così il suo lavoro, cioè in termini musicali: “far mi conviene come fa il buono/ suonator, sopra il suo strumento arguto,/ che spesso muta corda e varia suono,/ ricercando ora il grave ora l’acuto” (VIII, 29).
La questione essenziale in fatto di trame cavalleresche è come intrecciare i fili delle azioni variando i motivi su cui intonarsi, in modo da rinnovare il gusto delle trame nonostante la ripetitività degli schemi. Anche questo è ben spiegato dal nostro poeta: “Come raccende il gusto il mutar esca,/ così mi par che la mia istoria, quanto/ or qua or là più varïata sia,/ meno a chi l’udirà noiosa fia”(XIII, 80-81). Dunque il passaggio da un filo narrativo all’altro non dipende dal senso risolutivo delle azioni, ma da una necessità di variazione; il che significa la presentazione ripetuta d’un tema, ma ogni volta modificato da qualche elemento.
Ad esempio, per tutto il poema Ruggero e Bradamante non fanno che inseguirsi e perdersi; e ogni volta che si perdono di vista Ruggero si trova invischiato in un duello, o in un’altra avventura, che introduce una amplificazione per linee interne sulla trama dell’inseguimento reciproco dei due innamorati. Ma le distrazioni dal suo percorso sono altrettante variazioni sul tema del “gentil Ruggero”, dove il poeta sviluppa una serie di modulazioni diverse secondo il filo narrativo a cui si aggancia, cioè secondo i personaggi con cui l’eroe si invischia. Con risultati che ci lasciano di stucco davanti alle metamorfosi del virtuoso fidanzato di Bradamante; il quale, capitato negli amplessi della fata Alcina, diventa un ganimede che vive nell’ozio; nell’incontro con Angelica nuda, dopo averla salvata dal mostro, diventa un ragazzotto voglioso di copulare senza tanti scrupoli; negli scontri e diverbi soldateschi con Rodomonte e Mandricardo, diventa uno smargiasso come loro; e nell’impresa per salvare Ricciardetto, torna al suo ruolo di cavalier cortese.
8. Il bisogno narrativo delle discontinuità
Intrecciando i fili, il poeta deve creare continuamente delle discontinuità, con deviazioni e sospensioni negli intrichi di trame, che servono a introdurre nuove variazioni su un tema. In realtà Ariosto adotta gli stessi modi di raccontare degli altri poeti cavallereschi, ma sviluppa al massimo grado l’arte della sospensione. Alla base di quest’arte c’è la tendenza dei poeti cavallereschi a creare sempre distrazioni da ciò che stanno narrando, e così introdurre disgiunzioni successive tra i fili delle azioni che rimangono sospese. E la mossa prediletta da Ariosto è appunto quella disgiuntiva, che ripristina una discontinuità tra linee di azione sul punto di annodarsi – riapre il gioco e lo lascia ancora sospeso.
I fortissimi Rodomonte e Mandricardo stanno per scontrarsi: “La pugna…/ era per seguire; ma quivi giunse/ in fretta un messaggier che li disgiunse” (XXIV,107). Con l’artificio della disgiunzione, si disegnano due linee che tendono a congiungersi, ma all’ultimo momento prendono l’andamento di curve in direzioni diverse. Anche il primo duello tra Rodomonte e Ruggero è sospeso da un messaggero, il quale li richiama a Parigi; i due partono, ma sul loro tragitto trovano un bivio che li separa; e il bivio è il caso perfetto di disgiunzione di due linee su un piano: “ove la strada fa due corna:/ l’un va giù al piano, l’altro va su al monte” (XXV,46). Più ancora che l’intreccio dei fili, questo artificio permette di usare il piano di fondo, o piano di continuità delle azioni, come una superficie su cui disegnare linee sempre divaganti. Ma in Ariosto è come se, appena si configura una linea dritta, un “sentier dritto” che mena verso una meta, subito nascesse il bisogno di spezzarla con un altro tragitto sinuoso, tortuoso, vagabondo: “Bisogna, prima ch’io vi narri il caso,/ ch’un poco dal sentier dritto mi torca” (VIII, 51).
Osservazioni più dettagliate andrebbero fatte sui tipi di linee che creano rotture o discontinuità. Ma basta ricordare gli incontri e fughe di Angelica, in apertura del poema, nel primo canto, che sono tutti deviazioni dal “sentier dritto”. E già qui troviamo un campionario di tipi di linee: 1) la linea che divaga, attorcigliandosi e riportandoci allo stesso punto – percorso di Ferraù; 2) la linea che si biforca in un bivio – percorso di Rinaldo e Ferraù; 3) la linea che si intrica e porta a un groviglio – Angelica che si perde nella selva e incontra Sacripante; 4) la linea spezzata da un’altra linea che la interseca – Bradamante che viene a interrompere il “dolce assalto” di Sacripante ad Angelica. Sono percorsi che tornano in lungo e in largo nel poema, con sviluppi paralleli, mescolanze e grovigli, che si potrebbero rappresentare su un piano. Perciò le trame non mostrano alcun contenuto specifico da interpretare; sono un tracciato di fili da cui spicca il motivo di un tema; e traducono il tema dell’errare per “vani sentieri”, cioè dell’errore maniacale, in relazioni di linee che si snodano e si annodano variamente.
Quello che conta, in tutto ciò, è la possibilità di aprire sempre una trama ad altre vicende, altri percorsi, con molte variazioni su un tema, come il tema dell’inseguimento, della fuga, della vendetta, dello spasimo amoroso. Ed ecco l’importanza del poeta che entra in scena e ci spiega il suo lavoro; perché così si crea un secondo piano di discorso, dove il poeta può controllare gli effetti di sospensione e di ripresa dei vari fili, con appelli all’ascolto come facevano i cantimbanchi popolari: “Ma non dirò d’Angelica or più inante/ che molte cose ho da narrarvi prima” (XII,66). Annunciando ogni cambiamento di filo, il poeta può permettersi stacchi improvvisi e disinvolti, senza le fratture o i salti bruschi. Così guidati nel dedalo degli intrecci, mentre gli eroi girano a vuoto, noi non abbiamo mai il senso del momento vuoto, del ristagno narrativo. Questo mi sembra il modo ariostesco di mantenere una percezione armonica dei passaggi, ossia di non lasciarci mai confusi dall’intrico labirintico delle sue trame.
9. Sullo spazio e gli sfondi romanzeschi
Nei romanzi moderni funziona il sottinteso che ogni libro sia (o debba essere) una finestra che si apre sul mondo, con la messinscena d’una finzione che serve a rappresentare una certa realtà, storica, geografica, sociale. Nei poemi cavallereschi questo non ha senso. I poeti cavallereschi, tenendosi tra il serio e il faceto, tra il paradosso e le trite convenzioni del “romanzo cantato in piazza”, rendono chiaro che il loro punto di riferimento è solo uno spazio di parole, lo spazio del parlare; e dunque che le loro sono soltanto fabulazioni, panzane, favole. Infatti tutti dicono di ricavare le loro storie dal leggendario libro del vescovo Turpino sui paladini di Francia, assicurandoci che è tutta farina del suo sacco; in questo modo possono inventare le panzane più inverosimili, in una specie di gara a chi le spara più grosse, e poi scaricare ogni responsabilità sulle spalle del buon Turpino: “Turpin che tutta questa istoria dice” (XXXIII,38).
Il presupposto dei moderni romanzi realistici, che gli sfondi dell’azione siano porzioni di mondo reale rappresentato, implica un tal grado di determinismo che non lascia quasi più niente nel vago. Ed è qui che l’informazione rivendica i suoi diritti, e offre il suo contributo a sostenere le finzioni romanzesche, per quanto cheap o stucchevoli siano. Nei poemi cavallereschi tale problema informativo non si pone, e gli sfondi delle imprese eroiche si riducono quasi sempre a generiche didascalie, come “selva”, “monte”, “deserto”, senza descrizioni ambientali. Che i paladini siano nelle Ardenne, sui Pinerei, o nei deserti dell’Africa, i fondali dei loro vagabondaggi si somigliano tutti – sono tragitti sospesi in un’indistinta lontananza di terre sconosciute, fondali dove tutto quello che c’è all’intorno resta nel vago, come se non esistessero luoghi umanamente abitati.
Penso ora ai paesaggi di sfondo che si vedono negli affreschi del palazzo della Schifanoia a Ferrara (certamente familiari ad Ariosto), dove spuntano strane rocce, colline, corsi d’acqua stilizzati, e costruzioni lontane dall’aria esotica. È il modello d’un mondo che esiste solo come segno della lontananza, e che era inteso come il mondo fuori dalle mura cittadine – mentre il mondo cittadino negli stessi affreschi è figurato in basso, in primo piano. Ma l’idea che si ricava, anche da altri esempi di pittura d’epoca, è questa: che l’Oriente, il paesaggio esotico di terre lontane, cominci appena fuori dalle mura cittadine, in uno spazio che si chiamava appunto foresta, selva, per dire zone incolte e selvatiche, come nella fuga di Angelica “per lochi inabitati, ermi e selvaggi” (I,33). Quello è punto di vaghezza romanzesca in cui si muovono gli eroi cavallereschi – mondo stilizzato, intrico di linee che conserva l’immagine labirintica della foresta, e che vuol dire solo una cosa: lontananza di terre sconosciute.
In tutto questo non si vede alcun criterio rappresentativo, ma il criterio del vicino e del lontano che organizza lo spazio dei racconti, e il valore figurale delle linee che lo movimentano. Il senso di questo spazio sta nelle relazioni di linee che creano una serie di percorsi, dove ci inoltriamo – e dove ci smarriamo anche noi come Rodomonte che (liquidato dall’amata Doralice) “di pensiero in pensiero andò vagando…”(XXVII, 133). Leggendo il poema ariostesco, l’impressione più sicura è che nel suo spazio si possa muoversi solo così, cioè vagando di pensiero in pensiero, senza badare a dove si va, o perdendo la strada del tutto. Ed è perché questo spazio, con tutte le sue linee divaganti, deviazioni e discontinuità, porta già in sé il senso dell’errare in una vaga lontananza, come quello dei pellegrini che facevano rotta per luoghi ignoti verso la terra santa o l’Oriente.
Poi, il senso dell’errare in vaga lontananza trapassa in un regime di metafore, che sono ancora quelle della lirica amorosa. Dice il poeta d’un suo eroe: “perduto in via più grave errore”( I,56). Nel vocabolario petrarchesco, “errore” è la metafora della passione amorosa; è un traviamento come quello di Dante che ha smarrito “la diritta via” – metafora che prende un carattere più accentuatamente spaziale in Ariosto, dove diventa la sbandata peregrinazione degli eroi in preda alle loro fissazioni. Ma, ancora meglio, Ariosto traccia l’immagine della mania amorosa come uno sperdimento nel labirinto d’una selva, il teatro naturale delle imprese cavalleresche: “Gli è come una gran selva, ove la via/ conviene a forza, a chi va, fallire:/ chi su, chi giù, chi qua, chi là, travia…” (XXIV, 2). E su queste metafore spaziali cresce la stupefacente forma del poema: poema dell’errore, dell’errare, del perpetuo girare a vuoto, in un intrico di percorsi labirintici. (Mi sembra che sia stato sempre il problema della critica ariostesca: l’incapacità di giustificare tutti questi giri a vuoto; cominciando dai contemporanei che rimproveravano al Furioso la struttura labirintica degli intrecci, irregolare rispetto all’epica classica).
10. Simultaneità di linee, tempo senza durate specifiche
Torniamo all’opera di tessitura. “Tornando al lavor che vario ordisco/ … dar le spalle/ a Francia voglio, e girmene in Levante/ tanto ch’io trovi Astolfo paladino,/ che per Ponente avea preso il cammino” (XXII, 3-4). Qui il poeta annuncia che si passerà dal filo d’una azione in Francia al filo di Astolfo che è in Levante. Poi Astolfo in dieci strofe attraversa quasi tutta la carta geografica, arrivando in Francia, al castello del mago Atlante, dove libererà gli eroi tenuti prigionieri con l’incanto. La discontinuità tra i fili così annodati (quello di Astolfo e quello dei prigionieri di Atlante, in particolare di Ruggero) è superata con un vero salto, che però mantiene un effetto di continuità, perché nelle dieci strofe di mezzo il poeta ci ha raccontato le tappe dell’itinerario di Astolfo.
Sotto le discontinuità tra i fili narrativi e i salti per colmarle, c’è un piano di scorrimento a cui il poeta ci richiama sempre, con il filo del suo discorso, enunciando i nomi dei luoghi che un eroe attraversa nelle sue peregrinazioni. Questo dà continuità al disegno di linee; ma quello che rimane completamente nel vago è il fattore tempo, ossia quanto ci abbia messo il buon Astolfo a fare il suo percorso, e come questo coincida con gli sviluppi del filo di Ruggero, a cui il filo di Astolfo poi si annoda. Nella narrativa moderna ogni coincidenza temporale ha bisogno di puntuali spiegazioni; invece qui è come se tutto avvenisse in una simultaneità di linee su un piano, per cui basta tracciare la linea che dal Levante porta in Francia, e la questione è risolto.
Nel nostro poema, tutti i passaggi da una trama all’altra, gli sviluppi intermedi delle azioni tra una sospensione e una ripresa, danno sempre l’impressione d’un tempo che non scorre linearmente, ma che sorge per momenti discontinui. Tra il XII canto dove si parla del palazzo incantato di Atlante, e il XXII canto dove il poeta ne riparla come se tornasse allo stesso momento, Astolfo fa in tempo a fare un mezzo giro del mondo, battere due giganti, fuggire dal paese delle amazzoni, tornare in Europa, passare in Inghilterra per salutare suo padre, prender la nave per Calais e trovare il castello di Atlante. Si potrebbe dire che il tempo della narrazione non coincide con quello della storia raccontata; ma questo non spiega il fatto che qui non sia possibile dire cosa succede prima e dopo nei vari fili narrativi – ossia che i piani temporali dei due fili narrativi siano senza durata specifica.
Un altro esempio, più complesso. Nel giro di tredici strofe, Angelica e Medoro si incontrano, si innamorano e si sposano (XIX, 20-33) , poi vanno per imbarcarsi verso le Indie, e sulla spiaggia incontrano un uomo bestiale, impazzito: “Ma non vi giunser prima, ch’un uom pazzo” (XIX, 42). Soltanto dopo dieci canti si capirà che quel matto era Orlando, impazzito di gelosia. Ma intanto noi lo avevamo lasciato mentre salvava Isabella dai malandrini (XII,42), e dopo lo ritroveremo mentre salva Zerbino dai Maganzesi (XXII,53), ancora come un uomo savio. Dunque le due linee d’azione (quella di Angelica e quella di Orlando) si svolgono simultaneamente, come tragitti spaziali senza un ordine temporale. Infatti, anche immaginando che gli amori di Angelica e Medoro si sian svolti mentre l’altro salvava Isabella o Zerbino, resta il fatto che – nella successione delle vicende – Orlando compare sulla spiaggia come pazzo ancora prima di ammattire.
Questo scherzo in realtà fa parte dei metodi di sospensione nel romanzo cavalleresco, dove si usava annunciare un filo da riprendere, senza dire chi fosse l’eroe comparso in scena. D’altronde, Ariosto lavora su una tela di percorsi così ampia come non s’era mai vista; e un narratore che volesse determinare tutti i punti temporali nei percorsi d’una cinquantina di dame e cavalieri, e come si collocano coerentemente i loro incontri nella successione delle vicende, non potrebbe mai avere la disinvoltura permessa dal metodo dei romanzi cavallereschi. Più avanti Orlando arriverà tra i pastori, e scoprirà l’amore di Angelica e Medoro attraverso le scritte nella grotta (XXII,101); ma tra questo momento e quello in cui lo ritroviamo pazzo sulla spiaggia (XXIX,59), ci verrà raccontato quasi mezzo poema, ed è come se i personaggi fossero rimasti immobili come statue.
(I – Continua)