11. Tempo e spazio, un’analogia con i tappeti d’Oriente
Nei poemi cavallereschi manca quel termine di riferimento che è il tempo lineare della Storia, fatto di frazioni uniformi con cui misuriamo tutto in secoli, anni, mesi. Dunque non ci sarà la formula: “Nel tal giorno, o mese, Orlando arrivò nel luogo x”; bensì: “Orlando (di cui si parlava prima) arriva ora (mentre sto parlando) nel luogo x”. È il tempo indefinito delle leggende, sospese all’atto del dire, del narrare. Nelle trame cavalleresche non c’è mai sviluppo storico che scandisca le epoche o l’età degli eroi, e le azioni cadono in tempo senza tempo che è quello delle vicende eterne. Lo si vede in quelle pitture o statue raccontate da Boiardo e Ariosto, dove le epoche future sono raccontate come se fossero un destino in cui tutto è già fissato da sempre. Non tempo lineare che si svolge verso l’imprevisto, ma sviluppo come quello d’una pianta che è già inscritto nel seme da cui dovrà germogliare.
Nel nostro poema, l’unico effettivo riferimento allo scorrere lineare del tempo, compare alla fine del canto XI, quando Orlando si ferma nell’inverno e riprende in primavera la sua ricerca di Angelica. A parte ciò, tutto avviene in una simultaneità senza stagioni, che si espande senza durata; e anche il tempo per compiere i tragitti è un tempo senza durata, senza scansioni in giorni o mesi o anni. Quanto ci mette Astolfo ad attraversare l’Africa col suo esercito? Quanto dura il viaggio di Ruggero sull’ippogrifo? Qui ci sono solo corse, inseguimenti, fughe, momenti discontinui che non si sa quanto durino; ma sentiti come se tutto avvenisse in una stagione ideale delle imprese cavalleresche, con prati e boschetti sempre fioriti, gli eroi eternamente giovani e gagliardi: “come nei giardini dei ricordi d’infanzia, dove il tempo è fermo alla sua più perfetta giornata” ( Ermanno Cavazzoni ).
Ogni volta che annoda un filo all’altro, il poeta riprende gesti o azioni d’una scena precedentemente abbandonata, come se il tempo fosse rimasto immobile in una serie di punti discontinui, tutti sullo stesso piano, con solo gli sviluppi momentanei di un’azione. Ed è una riduzione del linguaggio a un sistema di segni che parlano solo di quello che ha rapporto col presente immediato, con l’immediata possibilità di venire indicato: “Chi fosser quelli, altrove vi fia detto;/ or no, che di Ruggier prima favello” (XXV, 4). Queste variazioni di intreccio non riguardano il passaggio da un prima a un dopo, ma piuttosto il passaggio da un “qui, ora” ad un “altrove” sul filo del discorso – un “altrove” a cui giungeremo con altri giri per ritrovare quella trama. Più che un significato delle azioni, il lavoro di annodare i fili tende a fornire un senso posizionale, per cui il poeta e il lettore si ritrovino sempre di pari passo, ossia nell’eterno presente in cui si sta parlando.
Ad esempio: Astolfo è salito in paradiso e sta discutendo con San Giovanni (“lo scrittor de l’evangelo”), ma il poeta dice che vuole tornare a parlarci di Bradamante, persa di vista due canti prima, in cerca di Ruggero e in preda alla gelosia: “Resti con lo scrittor de l’evangelo/ Astolfo ormai, ch’io voglio far un salto,/ quanto sia in terra a venir giù dal cielo…” (XXXV, 31). Da notare l’idea di “fare un salto” giù dal cielo: è come se, davanti a una carta geografica, dicessimo che dobbiamo saltare dal “qui” dove siamo, indicandolo col dito, al “là” dove abbiamo lasciato Bradamante. Tessendo le sue trame, il poeta usa continuamente questi riferimenti deittici (“qui”, “là”), che indicano una direzione, dei punti di riferimento, ma non possono avere un significato se non in base alla posizione di chi parla e chi ascolta – il punto sul filo del discorso (“qui, ora”). Questo uso ostensivo del linguaggio, ancorato al presente immediato dei segni deittici, traduce i vagabondaggi della mente o del filo del discorso in forme spaziali, in una superficie piana di linee intrecciate e divaganti.
Letto così, il poema perde qualsiasi carattere rappresentativo, e si direbbe che la sua grande felicità venga da uno svuotamento di tutte le motivazioni che non siano puramente figurali, dove tutto scivola via per momenti discontinui, ma in continui arabeschi di trame. Il miglior paragone, mi sembra, è quello dei tappeti d’Oriente, o “tappeti alessandrini”, come dice Ariosto; forme d’arte tessile prive d’ogni carattere rappresentativo, dove l’incanto figurale nasce dagli infiniti nodi con cui i fili fanno apparire motivi grafici, che si intrecciano simultaneamente, senza passato o futuro – il disegno d’un puro volo della mente. (Tutta l’arte europea a partire da un certo punto è rappresentativa, e le sue nozioni di spazio e tempo sono in funzione d’una rappresentazione prospettica. Il poema cavalleresco è un felice caso di ritardo culturale).
12. La recita cerimoniale del poeta
Anche negli altri romanzi cavallereschi, come nei cantari di piazza, il poeta dava indicazioni sull’abbandono e la ripresa dei vari fili dell’azione, con certe formule fisse che arrivano fino a Pulci e Boiardo. Ma in nessun altro poema è così presente la figura del poeta, che intrattiene il lettore con molti discorsi, ed entra nel gioco narrativo come un personaggio al pari degli altri: anche lui guidato da una mania, come i suoi eroi, in quanto poeta pazzo d’amore, quale si presenta subito (I,2), e non senza farsi passare per un confratello del povero Orlando ammatito per la bella Angelica (IX,2). Questa è una recita che il poeta mette in piedi con notevole teatralità, facendo molti inchini al suo signore Ippolito d’Este (cui è dedicato il poema), evocando uno sfondo cerimoniale di lettori (spesso nominati) a cui il suo racconto “grato esser suole”, ma anche giustificandosi variamente con il suo illustre patrono e con altri (le donne ad esempio). Insomma presentandosi come una figura ironica nel senso proprio del termine – cioè la figura di chi si fa piccolo davanti a chi lo ascolta.
Tradizionalmente la recita ariostesca è stata vista come servilismo del povero Ludovico, innanzi alla potenza dei suoi signori. Ma a me sembra si possa vederla in tutt’altro modo, appena si toglie di mezzo l’idea d’un contenuto psicologico o morale, che è sempre un giudizio di marca umanistica. Si può vederla come parte essenziale del disegno narrativo, in cui si intrecciano due tipi di ordito. Il primo è l’ordito del poeta, i suoi discorsi di prologo ai vari canti, i suoi commenti saggi o faceti, le sue prosopopee della casata d’Este, che creano uno sfondo cerimoniale e fungono da piano di continuità, come il colore di fondo in un tappeto. Il secondo è l’ordito delle trame in cui sono impegnati gli eroi: grande dedalo di intrecci in primo piano, fatto di linee spezzate, deviate, sinuose, organizzato sulla regola della discontinuità.
Il piano di sfondo, ossia l’ordito del poeta, serve a stabilire un accordo cerimoniale col lettore, ancorato al filo del discorso. Questo avviene con il gioco dei richiami a precedenti imprese degli eroi, che il lettore deve conoscere: “So che tutta l’istoria avete letta” (XXXI, 26). Dunque il poeta si richiama a un’intesa che è data per scontata, nel senso che lui e il lettore hanno letto gli stessi libri, hanno un sapere comune su un repertorio di gesta: di chi sia figlio il tale eroe, quali imprese abbia compiuto, come si chiami il suo cavallo, etc. In secondo luogo, su questo piano cerimoniale, cioè sul filo del discorso, il poeta può suggerire un’analogia tra le peregrinazioni e fissazioni dei suoi eroi, e l’ardore di correre dietro alle parole sulla pagina: “Deh, perché a muover men son io la penna/ che quelle genti a muover l’armi pronte?” (XIV,108). Penna e inchiostro sono le sue armi di poeta dalla mente vagabonda, e il parallelismo tra le imprese della sua penna e quelle delle spade degli eroi va notato.
“Io farò sì con penna e con inchiostro,/ ch’ognun vedrà…” (XXIX,2). Ecco Ludovico colto in un gesto teatrale, mentre si lancia in uno dei suoi discorsi al lettore. Per quanto lui tenda a farsi piccolo, sotto i panni del cerimoniere di corte, si presenta poi come un uomo fantastico, stralunato d’amore, che usa la penna per inseguire favole avventurose, perdendosi anche lui nelle trame come i suoi personaggi. E la sua recita presenta varie analogie con il vagabondare degli eroi, lo stesso senso di instabilità perpetua, lo stesso tono di mania peregrina. A volte sembra colto dall’uzzolo improvviso di sospendere il racconto per parlar d’altro che gli è venuto in mente; altre volte si contraddice, come quando proclama che le donne sono tutte ingrate, senza “un’oncia di buono”, e poi si scusa dicendo che vaneggiava per frenesia d’amore (XXX,3). Infine altre volte è vagante coi suoi pensieri fino a perdersi anche lui per vani sentieri: “Ma d’un parlar ne l’altro, ove sono ito/ sì lungi dal camin ch’io faceva ora?” (XVII,70).
13. Sull’uso delle analogie: trame amorose e trame narrative
Con la sua recita da uomo fantastico, il poeta Ludovico collega l’estro narrativo all’invasamento della mania, o all’epitome di tutte le manie, che è quella amorosa. La mania amorosa è la colla del suo poema, in cui tutto è tenuto insieme dalla “inestricabil ragna” dell’Amore” (XIV, 52), con i percorsi degli innamorati dispersi o delusi, e le fioriture di varianti negli intrecci che ho detto. Ma facendosi passare per confratello d’Orlando, cioè impazzito per gli stessi motivi (XXIV,3), Ludovico viene a dirci che narrando la storia d’Orlando racconta la trappola d’amore in cui anche lui è caduto, e dunque che il suo estro narrativo e la sua follia amorosa fanno tutt’uno. Che questo sottinteso gli stesse a cuore, lo si vede dal fatto che fin dalla seconda strofa ha dichiarato che riuscirà a portare a termine il poema, soltanto se la pazzia amorosa non gli “rode e lima” il cervello del tutto.
Trovo un motivo simile in Petrarca: “S’amore o morte non dà qualche stroppio/ a la tela novella ch’ora ordisco…” – e mi viene da pensare a questo regime di metafore, dove le parole si dicono esposte al pericolo che un altro ordito interrompa la loro tessitura dell’opera. Che l’amore sia un’altra tessitura di fili, un’orditura di trame, è un luogo comune della lirica amorosa. Ad esempio Boiardo, nel suo Amorum liber : “la rete d’Amor, che è texta d’oro/ e da Vaghezza ordita con tanta arte…”. Lo stesso termine tessile, “le fila”, è usato da Ariosto nelle sue liriche per parlare della trappola amorosa (“quelle fila d’oro…”, sonetto XXIX), e nel suo poema per parlare degli intrecci narrativi. In queste metafore c’è un tale intrico di richiami analogici, dal versante della finzione fabulatoria a quello dell’inganno d’amore, che è impossibile separare le due cose. Le figure dell’ordito, dei nodi e dei fili, del laccio e della “ragna” (o rete), stringono in un fascio di analogie qualcosa che appare il motivo centrale dello scrivere – un ardore, una mania fantastica, che è al tempo stesso trappola, inganno, come quello di Angelica che “ordisce a trama” per incantare Sacripante (I,51).
Leggendo il poema, dove queste metafore ricorrono quasi ad ogni pagina, si entra in un universo conformato come una tessitura, una rete, o “ragna”, dove si è attirati e ci si perde, secondo la regola della trappola amorosa. Ed è una regola implicita, che rimanda ad uno spazio labirintico, dove tutto sta in analogia con qualcos’altro, e dove dunque è l’analogia che dà senso alle cose, così come è la similitudine che definisce la tempra d’ogni eroe. Il che approssimativamente può essere raccontato così: Orlando è vagante nella rete d’amore, come tutti gli altri eroi sono vaganti nella rete delle loro manie, come il lettore è vagante nella rete delle trame ordite dal poeta, come il poeta è vagante nel suo racconto sugli effetti della rete, esca, laccio, intrico, tela, fila d’amore. È un universo completamente analogico e figurale; non è una rappresentazione del mondo, ma un suo emblema – l’emblema di un mondo tutto fatto d’inganni, tutto basato sul principio dell’ordire, del tesser trame e invischiare gli altri.
14. Il mondo come inganno e “l’alta meraviglia”
Bisognerebbe schizzare un’idea ariostesca del mondo sublunare, come ininterrotto intrico di trame, reti, errori, simulazioni, inganni. Intanto va notata l’associazione tra i trucchi magici e gli imbrogli delle apparenze, come si parlasse delle stesse cose – i “falsi vestigi” (II, 23). Istruttivo è l’esempio di Alcina, che incanta Ruggero coi suoi “angelici sembianti”, e il cui corpo è descritto come un luogo di delizie muliebri (VII, 14.15); ma sotto tali parvenze suscitate con la magia è una vecchia laida e decrepita. Poi, nei versi iniziali del canto seguente, è additata come il prototipo di tutti gli “incantatori” e “incantatrici” che intrappolano gli altri “con simulazion, menzogne e frodi” (VIII, 1). C’è una bella differenza rispetto all’Alcina boiardesca, personaggio sovranamente mitico, sulla balena in mezzo al mare, che in Ariosto diventa un esempio degli imbrogli quotidiani.
In questo mondo tutto fisico, ciò che noi chiamiamo “spirituale” si riduce alla potenza magica dell’occulto, che però non pare diversa da quella degli imbrogli e frodi che avvolgono tutta la vita. Frode e occulto fan tutt’uno, in quanto generatori di finzioni, false parvenze, incantamenti che suscitano “vani disegni” e “grate fantasie”. Uno dei temi che più ricorrono nel poema è
quello del “falso sembiante”: il modo di presentarsi ingannevole, il viso che non corrisponde a ciò che è nel cuore: “Se, come il viso, si mostrasse il core…” Ecco l’effetto scatenante della trappola amorosa, trappola spirituale ma in quanto errore, cattura delle apparenze “per forza d’incanto”, proiezione d’un desiderio sempre ingannevole: “Ingiustissimo Amor, perché sì raro/ corrispondenti fai nostri desiri?” (II,1).
La non reciprocità dell’amore è un tema petrarchesco; ma al nostro Ludovico sta più a cuore la mancata corrispondenza tra un dentro e un fuori – il volto che cela l’inganno, l’amante sincero che diviene falso marito (episodio di Olimpia e Bireno), lo spasimante che è un livido traditore (novella di Ariodante). Gli interessa la divergenza, il malinteso, la disgiunzione tra la cosa e l’effetto che produce. E l’idea di finzione si pone solo in termini di inganno o incantamento, che opera su una disgiunzione tra un’apparenza e ciò che essa cela, tra i segni e le illusioni che generano, tra immagine e sostanza, come negli effetti della magia. In questo senso magia e finzione operano allo stesso modo, facendo entrare l’occulto nel visibile, per opera delle illusioni, o inganni della mente. E il libro magico riassume questa fatalità dei segni che generano finzioni, parvenze o incanti irresistibili.
In tutto il poema la parola “libro” senza altre specificazioni significa libro di segni magici, che alla lettura producono visioni di immagini insostanziali. Come quando Angelica incontra l’eremita, il quale si cava di tasca il libro, ne legge una pagina, e subito ne esce “uno spirto in forma di valletto”, che “se ne va, da la scrittura astretto…” (II,15). Il motivo del libro porta in sé il senso d’una fatalità della scrittura, che serve a far sorgere le meraviglie dell’invisibile, o a riempire il visibile di incanti e inganni, oppure a decifrare il segreto degli incantesimi (il libro magico di Astolfo). Il libro per antonomasia è quello di magia, e la sua lettura è la lettura per eccellenza, perché suscita la potenza di figure o segni che generano una “finzïon d’incanto”.
Nel canto IV il mago Atlante compare nell’aria sull’ippogrifo, con uno scudo che abbaglia e stordisce, ma nell’altra mano il libro di magia che va leggendo: “Da la sinistra solo lo scudo avea,/ tutto coperto di seta vermiglia;/ ne la man destra un libro, onde facea/ nascer, leggendo, l’alta meraviglia” (IV,17). Questa figurazione mostra “l’alta meraviglia” come qualcosa che nasce dalla lettura del libro, ma che corrisponde a un puro effetto, disgiunto da qualsiasi sostanza. È un effetto che dà le traveggole, fa vedere una cosa per l’altra (“che comparir facea pel rosso il giallo”). I cavalieri credono di veder calare dall’alto un guerriero tutto armato che viene a sfidarli; invece è il decrepito Atlante che va leggendo il suo libro, e con quello suscita attorno a sé tutto uno scenario romanzesco. La meraviglia è un “admirar vehemente” (Tomaso Garzoni), uno sgranar d’occhi, visione fabulatoria in cui può succedere di tutto come nei sogni – culmine della finzione, “finzïon d’incanto”, suscitata dai trucchi del mago Atlante.
Si capisce perché Angelica sia la figura centrale dell’ispirazione ariostesca, libera battitrice in un mondo sublunare di inganni, figura che fugge per introdurci a un incanto, “imago” come i segni dei libri di magia. Nel nostro poema, attraverso di lei, le metafore petrarchesche della trappola amorosa fanno un giro, per sbarcare in una grande visione di meraviglia scettica: regno di reti, inganni, esche d’illusione, finzioni e simulazioni a non finire. E per concludere questo schizzo del mondo sublunare ariostesco, ricorderò che il poeta, nella sua recita cerimoniale, arriva a fare una apologia della simulazione, dato che non si può farne a meno, tra i tanti simulatori che popolano “questa vita mortal, tutta d’invidia piena” (IV,1).
15. Effetti della magia ed effetti della lettura
Angelica non ha funzioni sapienziali, come la beatitudine teologale che Dante insegue grazie a Beatrice, o il lauro del martirio poetico che Petrarca insegue grazie a Laura. Di queste figure-guida, ha perso la sostanza dottrinale, ma le è rimasta la potenza dell’incanto, il fondamento dell’invincibile malia, che condivide con la sua più prossima antenata, la sfuggente Laura.
Ma forse né l’una né l’altra potrebbero avere tanta potenza, se la sua figura non portasse in sé il ricordo d’una magia che agisce a distanza, disgiungendo l’immagine dal corpo che rappresenta. Perché la disgiunzione che separa la persona dall’effetto della sua immagine, mentre mostra che l’immagine è una vuota parvenza, produce la magia d’una casella vuota da riempire con l’immaginazione.
È come nel palazzo del mago Atlante – si corre dietro a quel che non c’è, ma che vien suggerito in figura. La lezione che impariamo nel palazzo d’Atlante parla di questo magico incantamento su una figura, un’immagine, che ci fa vedere quello che non c’è, con inversioni tra il visibile e l’invisibile, come l’amore: “Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,/ e l’invisibile fa vedere Amore” (I,56). Non potrebbe esserci una più ardita figurazione della lettura romanzesca, quale inseguimento di visioni in cui ognuno proietta le proprie smanie di afferrare qualcosa, che però è solo un simulacro o una fissazione nella sua mente: “A tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun per sé brama e desia” (XII, 20). Così mi sembra di capire un nesso che c’è in Ariosto tra la lettura del libro di segni magici e quella degli incantamenti nel suo poema, in cui siamo invischiati. La “finzïon d’incanto” con cui Atlante leggendo il suo libro suscita “l’alta meraviglia” di immagini inconsistenti, mi sembra la lettura ariostesca per eccellenza: un suscitamento di traveggole, come quando seguiamo un segnale che ci ipnotizza, o corriamo dietro agli eroi incantati da una “imago” e questa diventa anche la nostra fissazione. La lettura per eccellenza è un inganno di immagini, figure, che agiscono come le malie dei feticci magici.
Torniamo ad Angelica. Fin dalle prime strofe, leggendo noi le corriamo dietro come i suoi spasimanti, per continue deviazioni e sperdimenti, linee che si intricano, si biforcano, fanno giri a vuoto per tornare allo stesso punto. Se gli effetti che Angelica produce nei suoi inseguitori sono quelli della trappola amorosa, va detto che l’incanto della lettura ha molti tratti dell’innamoramento insensato, appunto di chi corre dietro a una fissazione. La lettura è l’inseguimento di un’immagine che si sottrae, lasciando una traccia vuota da riempire con l’immaginazione, grazie a una proiezione di idee fisse nella mente. E adesso mi pare anche di capire perché Ludovico colleghi il suo estro all’invasamento d’una mania come quella d’Orlando. Leggere o scrivere è l’impresa del perdersi in un “errore”, l’incantato errare dietro a un’immagine fuggitiva, presi da un ardore insensato.
L’altra cosa che ho in mente è quel sonetto di Petrarca dove Laura figura su un cavallo che fugge a briglia sciolta. Tra lei e Angelica in fuga sul palafreno “per selve spaventose e oscure”, c’è la differenza del labirinto selvatico, dove gli spasimanti spuntano come funghi; e c’è il paesaggio della vaghezza romanzesca, “per lochi inabitati, ermi e salvaggi”, in cui si cela dovunque un pericolo di cattura. Ma la differenza più rilevante è il moto perpetuamente errabondo di Angelica che passa attraverso quel mondo di inganni e finzioni, sfuggendo a ogni trappola, compreso l’incanto nel palazzo di Atlante. Angelica incarna l’instabilità delle immagini, che trovano la loro potenza nel sottrarsi a ogni fissità, nell’essere sempre erratiche e inafferrabili. La potenza delle immagini è l’instabilità, la mutevolezza che ci rimanda sempre ad altro, la sfuggenza mercuriale di Angelica.
16. Qui si arriva ad uno smontamento delle manie eroiche
Nel canto XXIII comincia l’impazzimento del grande eroe cristiano. Orlando legge in una grotta dei graffiti che esaltano gli amori di Angelica col fante Medoro; poco dopo gli scoppia il pianto in gola dalla gelosia; poi si riprende e si avvia verso un villaggio vicino, dove vede il fumo uscire dai camini, e “sente cani abbaiar, muggiare armento”. Mi ha sempre colpito che Leopardi riprenda quasi le stesse parole per parlare d’un passero solitario a cui dedica il suo canto: “Odi greggi belar, muggire armenti”. Quello che Leopardi disegna è la disgiunzione tra la vita collettiva e l’uno solitario, l’individuo fuori dal gregge, fuori dal gruppo sociale. Forse nessuno ha fiutato così bene la caduta dell’eroe: quelle poche parole configurano un divenire anonimo, indifferenziato, ripetitivo, dove la differenza tra il destino eroico e il destino comune non ha più senso.
La caduta dell’eroe è questa perdita di senso che trascina l’individuo nel divenire anonimo. Il nostro Ludovico aveva già annunciato qualcosa del genere con parole che potrebbero essere leopardiane: “O conte Orlando, o re di Circassia,/ vostra inclita virtù, dite, che giova?” (XIX, 31). L’alternativa tra destino eroico e destino comune è tenuta in bilico dal nodo centrale della vicenda di Orlando; e l’amore di Angelica con Medoro risulta un pareggiamento delle sorti, una scommessa persa dell’eroe, dato che un povero fante saracino ottiene quel che i più grandi guerrieri hanno inseguito invano: “O Ferraù, o mille altri ch’io non scrivo,/ ch’avete fatto mille prove invano/ per questa ingrata…”. L’ingrata è Angelica, s’intende, ma questa apostrofe mi fa venire in mente un repertorio di pronunciamenti ariosteschi che sta sullo sfondo del poema.
Nelle Satire ariostesche le aspirazioni dell’uno che esce dal gregge anonimo per salire in alto, trovano questa risposta: “in ch’util mi risulta…/ salir tanti gradi? meglio fôra/ starmi in riposo e affaticarmi manco”. Che va confrontata con l’apostrofe ai cavalieri citata sopra. Le straordinarie, brusche, anti-eroiche satire di Ariosto tornano a battere sempre lo stesso chiodo, cioè la vanità delle aspirazioni di salire in alto: “Chi brama onor di sprone o di cappello/ serva re, duca, cardinale o papa;/ io, no, che curo poco questo e quello”. Si può vedere tali brame di onori come altre figurazioni delle manie cavalleresche, i drammi dell’uno fuori dal gregge anonimo. Il rustego Ludovico non smette di svalutarli, di satira in satira, in nome d’una vita media senza tante seccature, dicendo anche che lui non ha nessuna voglia di andare in giro per il mondo; vuol starsene a casa, e preferisce vagare con la testa su una carta geografica (SatiraI). Non per niente Angelica finisce sposa d’un semplice paggio, con semplici amori campestri che liquidano le faticose glorie della vita eroica.
Ma ancora, Ludovico ha una specie di sua metafisica, anche quella completamente figurale, basata su una carta del gioco dei tarocchi, il decimo arcano, la Ruota della Fortuna. È la figura dell’alternanza, per cui ciò che è in alto deve cadere in basso col giro della ruota; dunque salire in alto vuol dire esser destinati a cadere in basso, come risulta dalla terza satira: “qualunque erge/ Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete”. In questo mondo tutto materiale, ma senza vincoli di leggi fisiche (sgominate dall’occulto e dall’inganno), è l’unica figura di legge che esista: “Quella ruota dipinta mi sgomenta/ che ogni mastro di carte a un modo finge:/ tanta concordia non credo che menta”(Satira VII).
Nel nostro poema la Ruota della Fortuna è nominata infinite volte, come altri nominano Dio per dire la sorte: “O Fortuna crudel, chi fia ch’il creda,/ che tanta forza hai nelle cose umane…” (VIII,62). La Ruota della Fortuna non rientra nel novero degli imbrogli e dell’occulto, o nell’inganno totale del mondo “che sì piace agli sciocchi” – è il caso materiale, la materialità dei venti che portano i naviganti fuori rotta, l’accidente che scompagina illusioni, presunzioni, manie “de la volubil ruota tratte in fondo”. Questa figura della mutazione porta inversioni di aspettative, scarti rispetto a un destino fissato, alternanze in cui il previsto diviene imprevisto, e il bene diventa male, come nel motto conclusivo del poema: “Pro bono malum”. È una regola a cui nessuno si sottrae, per cui nello sviluppo delle trame tutti i personaggi sono soggetti a un regime di alti e bassi, senza eccezioni. E nel poema appare come la legge del divenire anonimo che parifica glorie e biasimi, destini eroici e no, mostrando che “il ben va dietro al male, e ‘l male al bene,/ e fin son l’un de l’altro e biasmi e glorie/…. che sempre la sua ruota in giro versa” (XLV, 4).
17. Il poema cavalleresco come enciclopedia di racconti
La legge di alternanza è un buon principio narrativo, che serve a orientare le trame. Perché è vero che tutti gli eroi girano a vuoto, nel perpetuo errore; ma il loro peregrinare è sempre dominato dal giro delle sorti, per cui chi è in alto deve cadere in basso, e viceversa. Ma c’è un altro lato di questo gioco narrativo: le azioni del poema sono inquadrate da un destino annunciato dai segni astrologici, i “segni impressi all’osservate stelle” (III,15), che prevede il matrimonio di Ruggero e Bradamante, da cui dovrà nascere la gloriosa casa d’Este. Quello è il punto focale nel dedalo di trame, che presuppone la simultaneità di segni (astrali, magici) in cui è già inscritto tutto quel che deve succedere. Ruggero e Marfisa stanno duellando, quando spunta a fermarli la voce del mago Atlante che sapeva del loro duello, avendolo letto nelle stelle – era destino che i due si riconoscessero come fratelli, proprio qui, in quel punto e momento (XXXVI,59).
Se tutto è già scritto nel libro delle stelle, cosa resta da raccontare? I racconti narrano come i destini si realizzano, attraverso le fasi della contingenza, la legge di mutazione, la Ruota della Fortuna, gli alti e bassi della vita. Ma anche questi cadono in un tempo indefinito, “in illo tempore”, come tutte le leggende. L’unica cosa che dà senso al divenire è la mutazione di figure. Ad esempio, prima di ammattire, Orlando è un tipo da romanzo bretone, figura del cavaliere a lutto per le pene d’amore (porta la sopravveste nera), simile al Tristano della Folie Tristan, come lui errante nella “amorosa inchiesta”. E si porta dietro un’aura tristanesca, fino alla fase dell’impazzimento (XXXII,133). Poi lì butta via la pelle da Tristano per incarnare la figura dell’uomo selvatico, figura proverbiale e popolare, dandosi a svellere alberi (XXIII,136). Da quel momento le sue imprese non rientrano più nel repertorio delle gesta eroiche, ma nei racconti ridicoli su un idiota: come quando si porta il cavallo sulle spalle per traversare un fosso, poi vuole barattarlo mezzo morto con un cavallo bello vivo che gli piace di più.
I giri della Ruota della Fortuna si manifestano soprattutto come variare dei generi di racconti. Quando Rinaldo è al suo crollo di maniaco geloso, e il racconto si trasforma di colpo in un’allegoria, con l’aria da Roman de la Rose. Rodomonte , l’erede del gigante biblico Nembrotte spregiatore del cielo, quando cade in disgrazia si tramuta in una specie di Aiace tradito dagli dèi. Mandricardo, un Parsifal più feroce, diventa una specie di Achille, l’eroe morto giovane che perde le armi. Angelica, che è la più in balia della sorte fino all’incontro con Medoro, è quella che risale al punto di felicità, ritrovandosi nel genere bucolico virgiliano. Ruggero, destinato alla gloria di dare origine alla casa d’Este, per arrivarci deve cadere in basso due volte: e in una cade in un racconto penitenziale da leggenda aurea, poi nell’aggiunta del 1532 si ritrova in un melodramma che anticipa le solfe dell’opera lirica. Così il labirinto di trame, con gli alti e bassi della sorte, diventa una enciclopedia di generi di racconto.
18.Astolfo e il volo sulla luna
Quella di Ariosto è un’arte tutta figurale, dove le trame nascono sul filo del discorso come ghirigori. Mi piacerebbe scrivere l’elogio di questa eccezionale fluidità, cominciando dall’endecasillabo ariostesco, che si distende senza impacci e forzature metriche, al punto da darci l’idea d’un libero scorrimento di immagini. Poi dell’ottava ariostesca, dove la frase gira oltre il limite della rima, e spesso oltre il limite della strofa senza stacchi, ma con una limpidezza metrica come se fosse la torsione d’un prisma di cristallo. Poi degli ornamenti del parlare (“arte che tanto il parlar adorna…”), un’abbondanza mai vista nei poemi cavallereschi: dittologie a non finire, similitudini a grappoli, apostrofi, chiasmi, iperbati, litoti, parallelismi, anafore e riprese a eco da una strofa all’altra, che modellano i passaggi, orchestrano tutti i punti d’eccitazione, tengono insieme il frammentario zibaldone delle gesta eroiche in una ariosa sospensione.
Ariosto si trova bene nei larghi ariosi, le vaste tele, dove ci sono molti fili da annodare. La sua vena tende alla continua variazione su schemi collaudati, e funziona male nelle strettoie della drammaticità. Si vede bene nelle sue liriche, così petrarchesche, come svuota il fulcro drammatico che anima lo scenario della trappola amorosa in Petrarca, per stare nei limiti d’una figurazione proverbiale del poeta innamorato. Nessun incastro nell’angustia petrarchesca tra la trappola d’amore e il pensiero della morte (il dilemma petrarchesco che dice: “di qua dal passo ancor, che mi si serra/ mezzo rimango, lasso, a mezzo il varco…”).
Il suo poema è il trionfo della forma anti-drammatica, dove si oscilla tra stupore e riso, perché le gesta eroiche prendono un’aria di insensatezza, ma parata da recita cerimoniale. Non c’è mai il comico puro di Boiardo; ma piuttosto un umore slegato, senza fissaggio, dove il poeta può aderire al punto di vista di Orlando e maledire le donne, poi scusarsi dicendo che vaneggiava. Per lo stesso motivo può trascinarci con gli spasimi della maniacalità eroica, poi lasciarli deviare in una versione anti-eroica. Un gran gioco di fabulazione che spiazza i concetti e le serie interpretazioni dottrinali a cui siamo abituati.
Si capisce perché la legge di mutazione sia la sua musa; è la volatilità degli umori, già lodata da Ludovico nelle sue liriche latine; è la propensione dell’uomo fantastico, renitente ai legami, come lui si descrive nelle Satire; è il demone della variazione continua, nella fuga delle immagini, nella mutabilità “in figuris”, nella instabilità dei pensieri. Un mondo dominato da tale legge non può avere nessuna intensità drammatica, nessun fissaggio d’un destino migliore o peggiore, perché il meglio e peggio non sono che fasi del giro della Ruota della Fortuna. Ma un mondo così è anche il regno del meraviglioso senza fine, continua mutazione di figure, dove il perpetuo girare a vuoto è il girare della sorte, il divenire che rende tutto instabile, comprese le teste matte degli uomini.
Devo parlare dell’eroe che più incarna queste tendenze, il più vicino al pensiero del fantasticante Ludovico. Tra i maggiori eroi, Astolfo è l’unico senza brame o manie riconoscibili, anche perché non è più quel chiacchierone vanesio e comico che era in Boiardo. Ora rinato per metamorfosi da una pianta, viene eletto ad aereo rappresentante della voglia vagabonda, di continue rotture e deviazioni nel disegno di trame. Le più belle avventure di Astolfo non sono che meraviglie della mutazione magica di tutto – masse di africani che diventano un esercito cristiano, sassi del deserto che diventano cavalli, rami d’albero che diventano una flotta, l’uomo selvatico che torna a essere il grande guerriero pien di senno. Lo stesso Astolfo è indefinibile; via via turista, agente magico, Ulisse che scende agli inferi, Dante che sale in paradiso, inviato di Dio, stratega. Anche lui figura mutevole, lo ricordiamo soprattutto come un segno errante nel mondo, fissato nell’immagine del volo della mente, là che sale in aria sul cavallo ippogrifo.
Ma la massima mutazione figurale che introduce nel poema, è la terra vista dalla luna, dove sale assieme all’evangelista San Giovanni. La Luna è il suo arcano, diciottesimo dei tarocchi, regolatore dei flussi e riflussi, l’attrattore di tutto quanto sta in sospensione sulla terra. Infatti il poeta dice che lassù si trova tutto quel che quaggiù va perduto, ma cosa? “Non pur di regni o di ricchezze parlo,/ in che la ruota instabile lavora;/ ma di quel ch’in poter di tor, di darlo/ non ha Fortuna…” (XXXIV,74). Quaggiù c’è il divenire di ascese e cadute, secondo il giro della Ruota della Fortuna, l’effimero. Lassù invece ci sono le forme eterne, come in un iperuranio, dove però al posto delle idee di Platone troviamo le manie proverbiali, le vane ambizioni di salire in alto, i desideri che girano sempre a vuoto, le forme eterne dell’imbecillità umana.
Comunque, a differenza dei commentatori che parlano di ironia ariostesca, accusa dei vizi umani, io credo che la visione di Astolfo dalla luna si profili come una grande meraviglia. Ecco i sospiri e le lacrime degli amanti, la fama divorata dal tempo, i vani disegni che non giungono mai in porto, i grandi imperi come vesciche piene di chiasso, le adulazioni come cicale scoppiate, le elemosine come minestre versate a vuoto – tutto col gusto di presentare gli usuali miraggi umani come tropismi simili a quelli delle piante e degli insetti, che perciò diventano meraviglie da fiera, stupore senza fine. Questa è la grammatica di base del poema; è l’intrico di linee d’attrazione in cui tutti si perdono nell’errore, come gli eroi maniaci; tutti egualmente pazzi in balia del film dei desideri, nel divenire anonimo, dove la saggezza non si sa proprio dove stia di casa. Una specie di discarica delle illusioni mondane, cortesi, rapaci, amorose, eroiche, e poetiche (la fama), che fanno girare il mondo. Visione di meraviglia scettica, aerea e senza confronti.
19. Note finali sulla forma del poema cavalleresco
Quello che ho cercato di annotare nell’Orlando furioso è l’aspetto figurale delle sospensioni multiple, che si accavallano nel corso del poema, tenendo assieme tutti gli intrichi delle trame. Il loro aspetto è quello di un arabesco, dove due linee si disgiungono per comporre volute e intrecci separati, annodandosi con linee diverse, e al termine del percorso si ricongiungono. Motivo orientale, che troviamo nei tappeti islamici o nei manoscritti persiani, ma anche in disegni d’importazione europea: le decorazioni epigrafiche o quelle dell’architettura.
Considerando che i romanzi cavallereschi parlano di guerre tra cristiani e saracini, si può anche pensare che aderiscano a una voga orientale o “saracina” molto diffusa, e cercare qui il gusto per gli intrichi di linee divaganti che forma il disegno dei poemi di Pulci, Boiardo e Ariosto. La voga chiamata “saracina” era quella delle stoffe damascate, delle mussoline, del vasellame sassanide usato dai Duchi d’Este, degli arabeschi decorativi, dei grovigli vegetali nell’ornato delle architetture, dei tappeti islamici che comparivano nella pittura sotto i piedi dei santi o delle Vergini. Corrisponde a un gusto per un disegno non rappresentativo, non lineare, dove non c’è distinzione tra forme ornamentali e messaggi verbali (ad esempio, i versetti coranici nei tappeti).
Questa voga deve aver avuto qualcosa a che fare anche con l’artigianato letterario, insieme alle fantasie orientali diffuse da Marco Polo. Nelle storie cavalleresche, dalla Spagna in rima, ai racconti di Andrea da Barberino, a Pulci e Boiardo, cresce una visione fantastica di terre esotiche, d’un Oriente quasi senza confini. Le fantasticazioni su terre d’Oriente, nel poema di Pulci producono scombinate peregrinazioni di Orlando, Rinaldo, Ulivieri e qualcun altro. Là si perdono Orlando e Rinaldo, nella vaghezza di terre innominate, sempre più lontani da Parigi, centro di sparpagliamento dei paladini. Boiardo è il primo a dare a quegli sfondi una collocazione geografica definita, usando i riferimenti dei cartografi, ampliando le descrizioni d’ambiente, soprattutto di luoghi incantati; e nel suo poema, il terreno delle gesta si espande fino alle pianure del Catai, all’Estremo Oriente, all’Asia Minore, alle coste dell’Africa; tutte zone mostrate come luoghi “ermi e selvaggi”, mondo fatto solo di percorsi erratici e di vaghezza. Infine il poema ariostesco – se segnassimo su una superficie tutti i nomi di luoghi nei tragitti dei suoi eroi, avremmo un disegno che copre l’intero globo descritto da Tolomeo, visto a volo d’uccello. Ma Ariosto è il primo ad aver chiaro che i migliori viaggi si fanno con le fantasie, sulla carta geografica, e quello è il vero volo della mente: “con Ptolomeo… in su le carte volteggiando” (Satira III).
La voga delle fantasie d’Oriente in Pulci è un ingrediente aggiuntivo che allarga solo un po’ l’orizzonte; mentre diviene vistosa nell’Orlando innamorato, per gran parte ambientato in terre esotiche, con stupefacenti invenzioni di nuovi eroi “moreschi” o “tartareschi” o “indiani” – Rodomonte, Agricane, Gradasso, Marfisa, Sacripante, e altri. Ma la fabulazione sulle meraviglie d’oriente è condensata da Boiardo soprattutto nella figura di Angelica, figlia del re del Catai, apparizione che trasforma il poema cavalleresco italiano. Lei nasce nel segno della fantasticazione, del moto perpetuo, dell’instabilità della mente, sganciata da regole dottrinali del bene e del male, proprio perché è una pagana incantatrice, tessitrice d’inganni venuta in Europa a catturare i paladini di Carlo Magno.
Dal momento preciso della sua apparizione, nel primo canto dell’Orlando innamorato, le trame cavalleresche prendono un impulso insolito, cominciano a fiorire a grappoli sulla traccia d’una inseguimento che andrà sempre a vuoto, e sarà sempre un tragitto errabondo, spezzato o divagante. Mai s’era visto un fascio di tante linee da tenere assieme, e tanti viaggi multipli in Oriente, e continenti attraversati con tanta disinvoltura. In Ariosto i motivi esotici diminuiscono di numero e non danno un’immediata accensione fantastica come in Boiardo: ma più chiaro diventa il disegno delle trame, la serie di motivi ornamentali discontinui; ad esempio le novelle incassate nel disegno del poema, che amplificano con parallelismi interni i suoi temi (il tradimento amoroso, le virtù delle donne, etc.); fino a produrre una vasta geometria di linee spezzate, che davvero si dispiegano come quelle d’un tappeto d’Oriente.
Tralascio un confronto con il gusto delle trame incassate una nell’altra, che si vede nelle Mille e una notte , e che non esiste nella nostra tradizione novellistica. Nulla ci dice che Boiardo e Ariosto pensassero al gusto ornamentale dell’Islam; ma io parlo di forme che si elaborano seguendo le convenzioni di un genere e uno stile collettivo. Anche nei romanzi di Bretagna, nei
cicli dei paladini di re Artù, come nei romanzi di Chrétien de Troyes, c’è un continuo errare dei cavalieri, con percorsi vari a ghirigoro (“entrelacs”); ma non c’è l’incastro di fasci di trame parallele che troviamo in Boiardo e soprattutto in Ariosto; e non c’è quel volo di figure che si sparpagliano su una carta geografica senza confini – l’idea del mondo come pura meraviglia senza inizio e senza fine. (Questa idea tra l’altro rientra nella dottrina coranica, scopro leggendo Le isole mirabili di Angelo Arioli, 1989, pag. 133).
(II – Fine)