Dopo quella volta mi recai da lei di notte, ogni volta che potevo. Giuditta passava le giornate per lo più tutta sola, mentre io facevo lunghe escursioni per disegnare, oppure dovevo starmene silenzioso e con un’espressione grave in casa del maestro come in una scuola di sofferenze. Così in quelle notti avevamo di che chiacchierare e spesso stavamo per ore alla finestra aperta a guardare lo splendore del cielo stellato sulla campagna estiva, oppure, chiudendo vetri e scuri, sedevamo a tavola a leggere insieme. In autunno, per soddisfare il desiderio di Giuditta di avere un libro, le avevo lasciato una traduzione tedesca dell’Orlando Furioso, che nemmeno io conoscevo ancora bene; lei però l’aveva letta spesso durante l’inverno e ora mi decantava il libro come il più bello del mondo. Non aveva più dubbi che Anna sarebbe morta entro breve tempo e me lo diceva chiaramente, sebbene io non volessi ammetterlo; quest’argomento e ciò che io raccontavo della malata ci affliggevano e incupivano entrambi, ciascuno a modo suo, ma leggendo l’Ariosto dimenticavamo ogni tristezza, immergendoci in un mondo nuovo e magnifico. Giuditta, da buona popolana, aveva dapprima preso il libro così com’era, come carta stampata qualsiasi, senza preoccuparsi della sua origine e della sua importanza. Adesso però che leggevamo insieme, provava il desiderio di saperne di più, e io dovetti darle come potevo un’idea della genesi e del valore di una tale opera, dello scopo e degli intenti del poeta, e riferirle quanto sapevo di lui. Ciò la rallegrò ancora di più; definiva Ariosto un uomo di talento, un saggio, e leggeva i suoi canti con doppio piacere, sapendo che dietro a quelle avventure così serene e ingegnose c’erano un’intenzione di bellezza, una volontà e una capacità creativa, una penetrazione, una conoscenza del mondo che nella sua novità brillava per lei come una stella in una notte scura. Se quelle figure dalla bellezza luminosa ci turbinavano dinnanzi, spinte d’illusione in illusione, rincorrendosi e afferrandosi appassionatamente, e se poi una sfuggiva all’altra e ne compariva una terza, oppure se per brevi attimi, mortificati e dolenti, lasciavano riposare l’animo dalle passioni, o piuttosto sembravano riposare sprofondando ancor di più in esse sulla sponda di acque chiare, sotto alberi meravigliosi, allora Giuditta esclamava: – Oh, che uomo saggio! Sì, così va il mondo, così sono gli uomini e la loro vita, così siamo noi stessi, noi folli!
Ma ancor più credevo di essere io stesso l’oggetto di uno scherzo poetico vedendomi seduto al fianco di una donna che, proprio come quegli esseri favolosi, sembrava aver fermato il tempo del pieno vigore e della bellezza e pareva fatta per eccitare di continuo la passione di cavalieri erranti. Ogni tratto della sua figura recava l’impronta di una sicura vittoria e i drappeggi delle sue semplici vesti erano sempre così leggiadri e magnifici che nell’esaltazione si credeva di intravedere sotto di essi fibbie d’oro o magari armature scintillanti. Ma quando poi il voluttuoso poema spogliava le sue donne degli ornamenti e delle vesti e metteva la loro denudata bellezza in un pericolo palese o in una situazione di seducente malizia, mentre io mi vedevo separato solo da un tenue filo dalla realtà più fiorente, mi pareva davvero di essere un assurdo eroe favoloso, un balocco nelle mani di un poeta scapestrato. Non era solo il platonico sentimento del dovere e della fedeltà al letto di dolore di una creatura delicata, intorno al quale tutti pregavano, era il timore di essere tradito dai sogni morbosi di Anna ciò che incatenava i miei sensi desiderosi, mentre Giuditta si dominava, oltreché per riguardo verso Anna e me, per il bisogno di vivere ancora un po’ nel tenero clima ideale della giovinezza. Le nostre mani facevano a volte involontariamente un movimento verso le spalle o i fianchi dell’altro per posarvisi sopra, ma a metà strada brancicavano nell’aria e finivano per accennare una timida carezza sulle guance ritraendosi subito, sicché assomigliavano bizzarramente a due gattini che stendano le zampette l’uno verso l’altro con un tremito elettrico, incerti se giocare o arruffarsi.
Tratto da Gottfried Keller, ENRICO IL VERDE, Libro III, Capitolo VI.