Sembra passato tanto tempo da quando ci s’invitava a non demonizzarlo, a liberarci dalla sua «ossessione». Si ricorderà come il dimissionario segretario del piddì, nella campagna elettorale destinata a sancirne il definitivo trionfo, si spinse sino a censurare il nome del «candidato dello schieramento avverso». Come se ogni censura non fosse in primo luogo una preterizione: presenza tanto più schiacciante quanto più rimossa. Un calco vuoto che s’è rivelato maschera funebre: pietra tombale su ogni residua ipotesi di poterglisi opporre.
La verità è che incredibilmente la «sinistra italiana» – o quanto ci ostiniamo a designare con quest’ossimoro storico – non ha ancora smesso di sottovalutare Berlusconi. Se i suoi fan lo idolatrano acriticamente, nostro compito storico è allora esercitare una critica dell’idolo, del feticcio-Berlusconi. Anzitutto prendendo atto che è la sua l’entità storica più rilevante degli ultimi sessant’anni, in Italia; e tra le più importanti in assoluto. Alla fine dello scorso secolo James G. Ballard ironizzava sul panico di cui erano preda i redattori di un magazine che vedeva trionfare, al referendum fra i lettori su chi fosse stato il più importante personaggio del Novecento, ovviamente Adolf Hitler. È un residuo di moralismo buonista (che sta passando di moda a una tale velocità, peraltro, da minacciare di farcelo presto rimpiangere) quello che sdegna cotali scale di grandezza – non dirò, ovviamente, «di valori».
Ma se alcuni fra i maggiori filosofi del secolo passato non hanno mancato di interrogare la figura demoniaca di Hitler, latita ancora un vero sforzo ermeneutico su cosa significhi (o, piuttosto, su cosa abissalmente si rifiuti di significare) Berlusconi. (Unica rilevante eccezione, poco prima del suicidio del 30 novembre 1994, il Debord dei Commentari.) Pesa ovviamente, in tal senso, la non trascurabile circostanza che Hitler è morto, e Berlusconi no. Il suo potere di intimidazione, tale da soddisfare la più abietta libido serviendi dei veti introiettati, è così evidente da non venir più neppure percepito. Non ci fa indignare neanche che la sola RAI mancasse, giorni fa, tra le reti televisive inviate a documentare il processo Mills. È sin troppo ovvio che sia così. Ma non suona casuale che il sempre antiretorico, mai apocalittico Marco Belpoliti includa fra i ringraziamenti di questo suo libro straordinario, Il corpo del capo, il direttore di Guanda Luigi Brioschi: il quale gli ha consentito di scriverlo, il libro, «con la serenità di sapere d’avere un editore che lo avrebbe stampato, cosa che di questi tempi non è scontata».
La prima cosa da dire è che questo saggio (nel quale hanno un rilievo assolutamente non marginale le ventuno fotografie che, per la sua gran parte, commenta) costituisce un primo importante passo in direzione del suesposto compito storico. Prima condizione per combattere Berlusconi – ossia per scongiurare che la sua figura si perpetui, in futuro, come paradigma politico dominante – è infatti capirlo. Anche se sforzarsi di farlo inevitabilmente ci porta ad avvicinarci, a lui, più di quanto saremmo disposti a fare: come nella topica del detective che s’identifica col serial killer. Solo in questo senso il libro di Belpoliti può assomigliare a quello che più lo ha anticipato – col suo stile, com’è ovvio, fisicamente istintivo quanto quello di Belpoliti è concettualmente analitico –: Il Duca di Mantova di Franco Cordelli (il quale ne ebbe in cambio, ricorda Belpoliti, una causa da Cesare Previti: recentemente vinta dallo scrittore, come egli stesso racconta – riproducendone le carte processuali – nell’Almanacco Guanda sul Romanzo della politica curato da Ranieri Polese). Insieme alle analisi mediologiche della scuola di Alberto Abruzzese e all’acume giornalistico di Filippo Ceccarelli, è del resto proprio il «romanzo-conversazione» di Cordelli a costituire pressoché l’unica fonte italiana di una bibliografia – come sempre, in Belpoliti – d’invidiabile densità interdisciplinare.
Una delle intuizioni del Duca di Mantova di Cordelli (che, sin dalla scelta del titolo verdiano, iscrive questa storia italiana all’insegna del melodramma, quanto allo stile, e della seduzione proterva, quanto al contenuto) è che appunto la seduzione esercitata da Berlusconi sui suoi elettori-sudditi sia di natura fondamentalmente sessuale. Proprio il Berlusconi machista e dongiovanni (in omaggio, del resto, a una sin troppo ovvia vulgata psicanalitica) farebbe leva, in realtà, su una propria segreta componente androgina. Il volto risolutamente glabro, l’ossessione per la capigliatura e in generale per il corpo, la struttura delle pose con le quali ha sempre studiato di proporsi, lo sguardo che rivolge in camera restando, tuttavia, sempre sfuggente (sono, le prime del libro, le pagine più suggestive di Belpoliti: che compie il miracolo di tradurrein acuminata filosofia politica, ma anche in una specie di raggelante satira di costume, tutte le tradizioni di pensiero sull’immagine: da Barthes alla Sontag, da Baudrillard a Morin, passando per le intuizioni di Calvino e Pasolini), mostrano un Berlusconi che con noi, in effetti, non ha mai smesso di civettare. Nella classica analisi di Georg Simmel (il pc si ostina a tradurlo in «Rimmel»…), cioè, «lo sguardo con la coda dell’occhio, il capo voltato a metà […] un allontanarsi che al tempo stesso è collegato a un concedersi furtivamente».
È quanto mostra, con evidenza appunto icastica, l’immagine qui riprodotta. Berlusconi è ritratto mentre raccoglie l’ovazione dei suoi, a una convention di Forza Italia. Il passo nel quale lo scatto di Giorgio Lotti lo ha immobilizzato – punctum della foto, la postura dei piedi – è quello col quale l’étoile del balletto offre il proprio corpo glorioso all’abbraccio della folla entusiasta. «Un ammiccamento, un gesto di una civetteria inusuale, ma anche un chiaro messaggio di natura sessuale». E del resto lo stesso Berlusconi una volta ha osato dichiarare: «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silvioooo, Silvioooo: sei una gran bella figa!” […] È stato il complimento più bello della mia vita».
Ma la parte più emozionante del libro è l’ultima. Qui si fa strada – dopo i visual studies e labody history mutuata da Sergio Luzzatto – un’altra costellazione di pensiero. E anche la scrittura di Belpoliti cambia. Da analitica, s’è detto, quasi gelidamente connotativa (la solo apparente indifferenza dei phares Baudrillard e Warhol), s’innerva di torsioni che non gli sono abituali: per spingersi a toccare il vero tabù, il limite indicibile della mirabile e orrorosa ventura che condensiamo nel nome-mana di Berlusconi. La sua morte, cioè. Fantasmatizzata da molti, sempre scongiurata dal diretto interessato. Anche le sue ultime esternazioni, improntate a un ineffabile humour noir surrealista – Eluana Englaro capace di partorire, i desaparecidos in gita –, a ben vedere mirano a un unico scopo: allontanare da sé l’idea della morte. Venuto meno, come ci ha mostrato Zygmunt Bauman, il pensiero della morte individuale come limite (termine che circoscrive l’esistenza e le dà senso), è tramontata di converso l’ipotesi di un’immortalità delleopere (cioè di quanto intendiamo lasciare al futuro) – come evidenzia, fra l’altro, la politica culturale che proprio a Berlusconi fa capo. Ci resta solo, dunque, la pratica di un’indeterminata medicalizzazione dell’esistenza. E infatti, mai come in questo momento, la pratica politica e il progetto individuale di Berlusconi coincidono. L’immortalità, relativa, è solo quella che possiamo acquistare: e in questo campo, certo, lui non conosce rivali.
Ma la nostra immagine rivela di noi, sempre, più di quanto ci studiamo di farle dire. L’ultima fotografia del libro, realizzata l’anno scorso da Alex Majoli, sembra mostrarci un Berlusconi «letterale». Che finalmente somiglia, cioè, a quanto – persino in lui – è reale: «È fermo davanti a una tenda bianca, le mani dietro la schiena, il volto girato verso di noi. Non sorride, e gli occhi appaiono lontani, spenti. I due pesanti tendaggi giallo oro sui lati, tenuti da due cordoni, suggeriscono una messa in scena quasi lugubre». Solo qui il corpo del capo mostra la propria umana fragilità (come Robert Guédiguian, qualche anno fa, ci mostrò quello di François Mitterrand, in visita ai sepolcri reali di Saint-Denis, nel film Le passeggiate al campo di Marte). Ineluttabilmente «il Menzogna» – come lo chiamò nei suoi ultimi versi Giovanni Raboni – si avvicina a quanto per tutta la vita ha fuggito e negato: la verità. La sua e quella di tutti: cioè «l’insondabile intimità con la morte». Perché prima o poi, conclude Belpoliti, «il tempo della verità di sé arriva per tutti, governati e governanti, umili e potenti, gregari e capi».
dal Riformista del 22 febbraio 2009