Politici in gamba

Con tutte queste stramberie per la testa, forse non dovevo neanche venire quassù, sono stato incerto fino all’ultimo: vado, non vado, vado, non vado… Infine sono andato, e non me ne dispiace.

di in: Inattualità

Ille deus otiosus…
sine opera opifex…
sine propagatione genitor…”

Apuleio, Apologia

Questo è il resoconto di un incontro tra amici in forma di riunione politica. L’incontro avviene in una serata di febbraio con alta umidità, come al solito di questi tempi quando ha fatto un gran caldo di giorno. L’umidità proviene dalla natura stessa della nostra terra, che poggia su una falda acquifera piuttosto elevata e che porta fin nel nome la sua origine paludosa. Il ristorante dove ci dobbiamo incontrare si trova proprio ai piedi della montagna che sovrasta il paese, si chiama Quattro platani e io ci arrivo facendo tutto un giro in macchina per le stradine che salgono dalla strada provinciale verso il monte. È un bel giro che faccio: tutto buio, poche luci, strettoie tra alberi che una volta erano i percorsi degli alvei delle fiumare che scorrevano a valle. Adesso tutto asfalto dissestato e muri di cinta delle proprietà private con case, casette e villette che trasmettono soltanto solitudine e sicurezza familiare. Sbaglio percorso, ovviamente, perché come al solito, invece di pensare alla strada da fare, penso ai pensieri più o meno suggestivi come questo che ho appena trascritto, e mi ritrovo sotto la montagna dove c’è un vecchio campo sportivo e finisce la strada asfaltata. Comunque, senza troppe difficoltà faccio marcia indietro e arrivo facilmente al ristorante Quattro platani, con i quattro alberi del nome molto belli agli angoli del portone d’entrata: slanciati e maestosi nella notte chiara, sembrano cerimonieri pantagruelici che accolgono gli ospiti. Vado verso destra in direzione del parcheggio, mentre a sinistra c’è un campo da tennis la cui terra rossa brilla nell’oscurità. La rete di recinzione è rotta, le linee per terra sono semicancellate; guardando meglio mi accorgo che il campo è abbandonato probabilmente da anni; se rimanessi a guardarlo ancora sono sicuro che quella sabbia mi evocherebbe qualche deserto. Scorgo altri amici che arrivano a piedi, fumando e chiacchierando. Li aspetto ed entriamo insieme.

 

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Dentro è buio. Il Quattro platani non è un ristorante con luci e sfarzi, si vede subito che qui tutto è dimesso o dismesso. Pare che non ci sia nessuno o addirittura che sia chiuso. Poi in un angolo in fondo si sentono le voci, e aguzzando la vista scorgo i miei compagni seduti al tavolo a parlare, Fausto ha già un foglio in mano su cui scrive con il solito sguardo torvo e una certa aria da Inquisitore Magno. La tavola non è imbandita e io resto un po’ deluso, a dir la verità: ero venuto anche per partecipare di un’atmosfera conviviale, senza eccessivo interesse per i discorsi da fare, i soliti discorsi obbligatori che ogni gruppo, a maggior ragione politico, deve allestire per tenersi su. Sarà anche perché ultimamente ho poco entusiasmo per la politica, che non capisco più cosa sia, cosa debba farsene di me o io di essa. L’impressione è che il politico oggi sia una specie di Esecutore Ottuso di ordini provenienti da non si sa dove e non si sa chi. Leggendo un libro del filosofo Agamben, ho pensato che lo smarrimento e il nichilismo dell’uomo moderno forse hanno origine proprio in questo anonimato o vacanza del posto centrale del potere piuttosto che nella sua (del potere) presunta e studiatissima “pervasività biopolitica”, come si suol dire oggi. Non esiste più alcun Re Pescatore zoppo, e allora viviamo tutti come cavalieri storditi e ubriachi che non sanno più a chi offrire i loro servigi. Forse non è un caso che oggi i politici si definiscano “amministratori” e che tutti i discorsi sulla politica siano ridotti a discorsi sulla “buona amministrazione”. Il Ministro del Re Pescatore era la sua gamba mancante – ma pare che oggi a noi sia rimasta soltanto la gamba, anzi una selva di gambe per lo più incapaci di immaginarsi un corpo. L’Esecutore Ottuso è una gamba senza corpo e senza anima, che si aggira buffa e orfana per le vie dei giornali, delle televisioni e dei palazzi del potere. Di solito non si pone molti interrogativi, è “pragmatica”, “concreta”, “economica”: meno parla e meno pensa, meglio è. Del resto, chi ha mai visto una gamba parlare o pensare?

 

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Con tutte queste stramberie per la testa, forse non dovevo neanche venire quassù, sono stato incerto fino all’ultimo: vado, non vado, vado, non vado… Infine sono andato, e non me ne dispiace. Alla fine la serata che trascorriamo è bellissima, piena di discorsi entusiasmanti sui quali riusciamo tutti a intonarci con una certa naturalezza. Il gestore del ristorante, Ciccio Machiòchiera, vecchio amico del nostro amico Michele, ci ha anche offerto, completamente gratis, una buonissima pizza di grano duro. La storia di Ciccio Machiòchiera sarebbe tutta da raccontare, è una storia inattuale ed esemplare, se così si può (ancora) dire. Ciccio ha aperto il ristorante Quattro platani verso i cinquant’anni, vent’anni fa cioè, ma poi non si è mai arricchito e non ha mai sfondato, pur avendo a disposizione tutto: posto ideale, capitali, voglia di lavorare. Non ha mai sfondato perché non ha mai voluto “modernizzare” il suo locale, mi racconta Michele, non è mai voluto entrare nel giro degli affari legati agli spettacoli di cantanti e all’assunzione di manodopera straniera e così via. Ha continuato a gestire in una sorta di operosa inoperosità il ristorante insieme ai pochi familiari. Adesso questo locale non lo frequenta quasi più nessuno: un locale grandissimo, con sale amplissime e luminose, sempre aperto ma quasi del tutto e quasi sempre deserto. Forse veniamo soltanto noi quassù, di tanto in tanto, a offrire un breve saggio della vita che sta fuori dai Quattro platani, della vita “modernizzata” che scorre ai piedi della montagna, perché quando veniamo noi – che siamo in tutto una ventina – si allestisce come una messinscena che fa sembrare appetibile il vuoto degli stanzoni del locale: si accendono diverse luci, si preparano tre o quattro tavoli e si sentono nell’aria discussioni con parole importanti. Chissà se in questi momenti Ciccio Machiòchiera pensa mai all’occasione che ha perduto a non “modernizzare” il suo locale, a non darsi da fare un po’ di più. Io lo vedo sempre che guarda le partite alla televisione, e ha una faccia distesa con un sorriso beato che me lo rassomiglia a un santo, o perlomeno a qualcuno attraversato da ben pochi rimpianti.

 

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Per avere un’idea di quanto siamo sbandati come politici, basterebbe leggere il discorso che Gabriele ha scritto come relazione introduttiva sulle questioni sociali locali che dovremmo affrontare. Dà l’impressione, questo discorso complicatissimo, di un’armatura o di uno steccato eretto per difendersi, sembra un segnale di autoesclusione, ma forse è soltanto un tentativo o un desiderio di assolutizzazione geometrica, a partire dalla quale, secondo Gabriele, bisognerebbe guardare il mondo. Il suo testo, infatti, è schematico fino a sembrare un disegno di assi e semiassi, astratto nel linguaggio in maniera ossessiva, diviso in “verticale” e “orizzontale” (“esistono cose ed esseri verticali, e cose ed esseri orizzontali”, spiegava Gabriele), pieno di cose da fare contenenti perfino le istruzioni intorno al chi avrebbe dovuto farle e al come. Non sono azioni politiche vere e proprie, quelle descritte in questo discorso, bensì astrazioni che richiedono attenzione: considerano il mondo come un incrocio di linee e una pullulazione di punti, in cui inserirsi, perciò, more geometrico. La nostra sorpresa, al cospetto di un tale discorso, è grande, unita a un discreto sfavillio immaginativo che a me ad esempio ricorda la Flatlandia del Reverendo Abbott. Ma proprio mentre il silenzio e lo spirito meditativo discendono su tutta la congrega, ecco un epilogo a sorpresa: arriva Ciccio Machiòchiera con una grossa pentola fumante di pasta e fagioli sui quali ci lanciamo avidamente con fame più che con gusto, perché lo sforzo fatto per seguire le astrazioni di Gabriele era stato felice, sì, ma anche faticoso. Soltanto Michele non sembra soddisfatto dell’interruzione mangereccia (pur essendo stato tra i primi a riempirsi il piatto), e prende a inveire contro di noi (e contro lui stesso…), spiegando perché siamo i soliti meridionali, incapaci di stare in ordine a discutere e discorrere, e quando c’è il richiamo del mangiare ci perdiamo e disperdiamo, etc etc.

 

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La discussione, dopo i pasta e fagioli, riprende a fatica, come era prevedibile, e assume anche un tono completamente diverso, più pragmatico quasi e in ogni caso lontano dagli sfavillii immaginativi venuti fuori mentre eravamo lì tutti a fantasticare sulle linee e i punti di Gabriele. Tocca comunque riferirla, questa discussione, almeno per sommi capi. Eravamo venuti qui per fondare una Associazione per i diritti civili nel nostro paese, un paese in cui molta gente forse non sa nemmeno che cosa sia un diritto e di certo non ha idea di come si faccia a reclamarne uno, a pretenderlo, a lottare per ottenerlo. Siamo però finiti nel vortice delle astrazioni eroiche di Gabriele che ci sembrano molto più intriganti. Ci sentivamo una specie di avanguardia rivoluzionaria – ci accorgiamo infine di non sapere troppo bene che cosa vogliamo fare. Alla fine, nel totale smarrimento o silenzio meditativo, io mi ritrovo a interrogarmi sul perché del cambiamento del mondo: in fondo, andrebbe bene anche così come qui stasera, il mondo, in attesa di mangiare i pasta e fagioli dopo una bella discussione amichevole su cose improbabili come, appunto, il cambiamento del mondo more geometrico. Ma per la maggior parte degli uomini politici si vede che non funziona così. A noi qui bastano forse parole e pasta e fagioli, ma la maggior parte di chi fa politica “seriamente” vuole i pasta e fagioli e anche qualcos’altro, vuole che il mondo davvero possa cambiare grazie ad azioni eroiche, discorsi infatuati e così via. A noi si vede che basta questo momento semplice qui, in cui innanzitutto parliamo di cambiare il mondo, poi si vede – perché tutti sanno che il mondo non cambia mai a comando nostro, non dobbiamo lasciarci irretire dalle chimere, le chimere fanno brutti scherzi, tipo fanno venire lo scoramento, e per evitarle bisogna sempre passare ad altro, lasciarsi tutto alle spalle, inventare nuovi discorsi, etc etc.

 

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Stasera a questo incontro avevo portato anche il quaderno perché avevo voglia di scrivere dopo una giornata di ordinaria immersione nella praticità della vita. Di solito mi piace scrivere e descrivere mentre ascolto persone che conversano, ancora meglio in riunioni nelle quali non mi è troppo chiaro l’argomento di cui si discute: mi accorgo, in questi casi, che lo sguardo si fa attento e distaccato a un tempo, la scrittura si disciplina da sola, molto naturalmente, e il pensiero scorre scevro da ogni pregiudizio. Ecco una frase annotata sul quaderno: “denunciare i consumi di idee pazze o inquinanti”. Questa frase si riferiva a un’idea che mi era venuta nella riunione perché si parlava tutti quanti dei modi in cui richiamare alla responsabilità civile i meridionali dei nostri paesi, che anche seppelliti dalla spazzatura non alzano nemmeno un dito per protestare. Dunque, tutti dicevano che bisogna spronare la gente a richiedere il rispetto dei propri diritti. Ad esempio, il diritto a vivere in città pulite, o il diritto a consumare cibi non alterati, o il diritto a respirare aria non ammorbata. Io avevo pensato di invitare la gente a riflettere e a protestare, anche con pubbliche manifestazioni, per la quantità immane di idee “pazze e inquinanti” che arrivano un po’ da tutte le parti: televisioni, libri, giornali, scuole, partiti. Stilare, ad esempio, un Libro bianco dedicato alla recensione di tutte le idee più cancerogene che ci sono in giro nei luoghi più disparati.

 

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Le altre cose annotate sul quaderno non mi sembrano particolarmente interessanti, per adesso le lascio lì al loro posto. A un certo punto la discussione finisce senza che abbiamo deciso alcunché, sono più le incertezze che le convinzioni, decidiamo che abbiamo ancora bisogno di riflettere a lungo. Usciamo chiacchierando dalla semioscurità del salone del ristorante di Ciccio, non senza prima averlo salutato con molte battute, ringraziamenti e scambi di risate. In fondo, noi ci somigliamo: come Ciccio, siamo fuori tempo e siamo viziati dalla stessa operosità inoperosa. Le nostre idee sono luminose e spudorate e non sapremmo farne a meno, ma assomigliano a qualcosa che ha un buco dentro nel quale precipitiamo di continuo piuttosto che a distinte e stabili figure, e per questo sono destinate a finire nel ripostiglio della Storia, quindi in un buio ulteriore, come quello degli inutili e ampi saloni in cui Ciccio aspetta i suoi rari clienti. L’altro buio è quello dell’inverno pedemontano che ci aspetta fuori, a quest’ora ancora più umido, quasi verdastro e bluastro per i riflessi del cielo e della montagna, ma ineluttabile e sereno come la figura altissima dei bei platani pantagruelici. Anche la terra rossa del campo da tennis sembra adesso scurita e matta, senza alcun brillio e senza suggerimenti per la fantasia. Né dentro né fuori c’è più alcun buon consiglio, solo buio – e forse non resta altro che dare fiducia a Mefistofele: “dalle tenebre nasce da sé l’orgogliosa luce”. Scendendo con la macchina attraverso le stradine sterrate, penso che il rumore degli pneumatici sul pietriccio potrebbe somigliare allo scroscio dell’acqua delle fiumare.