In questi giorni è uscito da Feltrinelli l’ultimo libro di Gianni Celati, Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna, dove si parla della vita romanzesca di un attore, Attilio Vecchiatto (1910-1993). Vecchiatto ha girato il mondo con la moglie Carlotta, ha conosciuto molte persone celebri, Brecht, Laurence Olivier, Jeanne Moreau… Ha vissuto e messo in scena opere teatrali in America Latina, a New York, a Parigi. Giunto in Italia nel 1988, non ha mai avuto successo. Si ricorda un’unica celebre recita nel Teatro di Rio Saliceto, vicino a Reggio Emilia (G. Celati, Recita dell’attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto, Feltrinelli, 1996). È stato un attore vagante e sempre indigente. La sua biografia è ricostruita, attraverso fonti, testimonianze (importante, ad esempio, quella dello scrittore partenopeo Enrico De Vivo) e ritrovamenti, dallo stesso Celati, in veste di curatore. In realtà, le più autorevoli tracce della sua vita sono i 51 sonetti (shakespeariani) che formano una specie di autobiografia di Vecchiatto e che sono la vera scoperta del libro. Ho incontrato Celati, a Napoli, sotto quel Vesuvio tanto amato dal suo attore. E in un bar, all’ombra, gli ho chiesto di illuminarmi un po’…
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M. R. Nel tuo libro Vecchiatto, dopo tanto girovagare per il mondo, da vecchio, torna nel suo paese. L’Italia odierna gli appare come un ricovero di impudenti, «marcio per mancanza di vergogna», un luogo dove l’opulenza seduce e «nasconde il niente», insomma una fogna abbindolata dai furbi. E scrive i suoi sonetti. Fin dal primo sonetto spunta fuori il «Badalucco infame». Chi è questo personaggio?
G. C. Molti identificano il Badalucco con Berlusconi. Ma è uno sbaglio. Vecchiatto ha detto chiaramente che si tratta dell’adulto italiano che conosciamo tutti: il furbone che vuol sempre passare davanti agli altri, guadagnare soldi imbrogliando la gente, senza pagare le tasse. Questi sonetti sono fatti per smontare la religione del denaro che domina ogni altro pensiero, e propongono di “defurbizzare l’Italia”.
M. R. I pezzi della biografia di Attilio Vecchiatto, attore classico, autore di drammi, saggi e poesie, nel libro vengono amorosamente ricomposti. Ma si tratta di qualcuno che è esistito davvero? È un prodotto della tua fantasia? O è l’emblema, per dirla con Leopardi, di quella rappresentazione scenica che è la vita, in cui siamo tutti «recitanti» e nessuno spettatore?
G. C. Molti credono che Vecchiatto sia un parto della mia fantasia. Ma esistono molte persone che l’hanno conosciuto. Ad esempio, nel 1989 Federico Fellini lo voleva come attore nel film Le voci della luna, tratto da un romanzo di Ermanno Cavazzoni. Ermanno me ne ha parlato dicendo che Fellini e Vecchiatto si intendevano molto bene, ma un giorno Vecchiatto è scomparso dal set e non si è più visto.
M. R. Questo vuol dire che anche i pezzi di De Vivo che fanno da intermezzo ai sonetti sono veri?
G. C. Le testimonianze di Enrico De Vivo, su Attilio e Carlotta, sbarcati a casa sua e ospitati per qualche mese, sono l’unica prova esistente che ci parli di come era Vecchiatto nella vita quotidiana. Sono testimonianze scritte con una prosa molto bella, piana e divagante, che danno aria ai sonetti di Vecchiatto, e una specie di sommessa allegria narrativa a tutto il libro.
M. R. Diceva più o meno il tuo amato Giambattista Vico che l’immaginazione sta al verosimile come la ragione al vero. Eppure la «favola» di Vecchiatto è piena di date, luoghi, di nomi non proprio fittizi – De Vivo, ad esempio, con il suo bel viso rubicondo ce l’ho qui di fronte – di episodi che si vogliono «storici»… Il dialogo nel 1952 tra Vecchiatto e Brecht, o quello, meraviglioso, nella Chinatown di San Giuseppe Vesuviano avvenuto negli anni ottanta tra lui e El pibe de oro Maradona…
G. C. Io e vari amici abbiamo raccolto tutte le notizie disponibili sulla vita di Vecchiatto. Ne è venuta fuori una biografia molto accurata, dove però tutto sembra meraviglioso, fantastico. Ad esempio, l’innamoramento giovanile di Vecchiatto per sua madre (Vittorina Brusatin, grande attrice veneziana, donna bellissima e famosa), e la loro fuga da innamorati nelle pampas argentine, nella provincia di Santa Rosa. Ma questo senso di meraviglia che emerge da tutta la sua biografia, era prodotto dal carattere di Attilio, dalla sua continua esuberanza.
M. R. So che Giordano Bruno è una delle tue letture di questi ultimi anni. E nel libro si sente. Anzi è incombente. Che cos’è che ti affascina di più della sua opera?
G. C. Da anni cerco di capire Giordano Bruno, e la cosa che più mi interessa di questo filosofo è l’idea che gli uomini vivono nel buio mentale, da cui escono solo attraverso le emozioni. Così era anche Attilio, che vedeva il mondo tutto coperto da una cecità diffusa, molto simile a quella di cui parla Bruno. Poi Bruno ci insegna l’importanza dell’asineria, che è l’opposto della pedanteria. E così fa anche Vecchiatto nei suoi sonetti, dove riconosce la propria limitatezza, asineria, di fronte al mondo.
M. R. Sia nei sonetti che nelle parti dedicate alla ricostruzione della sua vita, Vecchiato sembra teorizzare una sua idea del teatro, lontana dai trucchi degli attori in scena e con una vocazione al coinvolgimento di chiunque si trovi nel suo vagare per i posti. Ne è un esempio il magnifico episodio della salita al Vesuvio dove tu stesso e De Vivo diventate dei personaggi del suo teatro ambulante. È cosi?
G. C. Sì, quando recitava nel teatro della Villette a Parigi, Attilio parlava del suo teatro come “Il nudo palcoscenico della povertà”. Era un palcoscenico quasi al buio, recitato da burattini ventriloqui, e da gente che s’adattava alle tenebre per trovare la via nella povertà. Era una risposta alla pazzesca religione del denaro che oscura ogni altro pensiero.
M. R. Anche la TV è citata più volte come uno strumento di infiacchimento delle menti. Pensi che sia lo specchio del nostro paese? E che sia, inoltre, la maggior responsabile di quella che chiami la «dittatura del nuovo»?
G. C. Sì, “la dittatura del nuovo” passa attraverso le trasmissioni televisive, tra cui quelle italiane sono le più disastrose che io conosco.
M. R. Il distico finale del sonetto 50 suona come una campana a morto per i nostri tempi in cui ogni nostro pensiero è in funzione di un target: «Mentre i vincitor mostrano i denti, l’unica gloria è quella dei perdenti». Chi sono oggi i perdenti? I vecchi? Le donne di mezza età con la borsa della spesa?
G. C. Quel verso dice giusto: “l’unica gloria è quella dei perdenti”. Questo riguarda le signore con la borsa sella spesa, ossia l’umanità che riesce ancora ad adattarsi alla “nuda vita”, al vivere per vivere, senza tante pretese.
M. R. Oltre a Bruno, a Vico, anche la presenza di Leopardi è insistente. Non tanto nello stile dei versi, quanto come personaggio che viene spesso chiamato in causa, quasi una figura che dall’al di là, dall’inattualità assoluta che è la morte, è ancora in grado di mettere alla berlina gli affaristici «costumi italiani»…
G. C. Leopardi ci ha aiutato a vedere la prossimità della morte, come il vero perno di tutta la nostra vita. Quella leopardiana è una saggezza che per molti aspetti si avvicina a dottrine orientali sul “grande fiume della vita”. Ora, io, Vecchiatto, e De Vivo, ci siamo trovati in sintonia perché abbiamo riconosciuto in Leopardi questa saggezza – di cui non possiamo fare a meno, senza essere risucchiati nella frenesia del denaro delle società moderne. Mi sembra dunque naturale che si senta la presenza leopardiana in tutto il nostro libro.
M. R. Ci sono alcuni versi dell’ultimo sonetto (51) che recitano: «Viaggiatore, vagò e visse d’accatto/senza imbarcarsi mai in losche squadre,/adorò l’aria e odiò le teste quadre…». In filigrana non è forse il tuo ritratto, quello di uno scrittore viaggiatore, appunto, «clandestino in latitanza», come dice un altro verso, un anarchico «cui mundus est patria»?
G. C. No, io non trovo molte somiglianze tra me e Vecchiatto. Certo, anch’io nell’età adulta ho viaggiato di continuo, ma non nella povertà assoluta come Attilio e Carlotta. E non sono un clandestino in latitanza come Attilio negli ultimi anni della sua vita. Il motto di Dante (“Nos cui mundus est patria”) usato da Vecchiatto, mi è sempre piaciuto, ma non potrei farne una bandiera: perché il mondo è così cambiato che mi sembra d’essere un alieno e di vivere su un altro pianeta.
Ringraziamo Massimo Rizzante e il quotidiano “la Repubblica” per aver concesso la pubblicazione della presente intervista, apparsa sul VENERDI’ de “la Repubblica” il 26 marzo 2010, pp. 92-95.