Il fantasma di Kafka
Il 14 agosto 1912 Franz Kafka consegna all’editore Ernst Rowohlt una raccolta di diciotto brevi prose intitolata Betrachtung (Meditazione). Il 12 novembre del 1913 il piccolo libro – il suo primo libro – sarà pubblicato in ottocento esemplari numerati.
Il 29 dicembre dello stesso anno scrive a Felice Bauer: «[Nella raccolta] C’è un deplorevole disordine, o meglio, ci sono lampi di luce in un’infinita confusione ed è necessario guardare molto da vicino per vederci qualcosa».
Che cosa si scopre in queste brevi prose se le si guarda «molto da vicino»?
Scelgo la più lunga (un testo di circa cinque pagine), intitolata Essere infelici.
È la storia di un uomo che una sera di novembre, mentre corre «sullo stretto tappeto» della sua stanza come «in un ippodromo», incontra un fantasma. Si tratta per la precisione di un «piccolo fantasma». L’uomo lo prende sul serio, a tal punto che il lettore è costretto a crederlo un bambino. Ma il bambino parla come un adulto. Rassicura l’uomo. Questi ha paura che gli inquilini del palazzo dove vive stiano spiando la loro conversazione: che cos’altro potrebbero fare «nella libertà provvisoria della sera»? Tra i due nascono spesso dei malintesi. Il fantasma si sente minacciato. L’uomo, invece, è felice di vederlo. Non ha intenzione di litigare. Non vuole affatto guastare il loro incontro. «Un estraneo – afferma – sarebbe più gentile di lei». «Lo credo» risponde l’altro, rivendicando la sua natura di fantasma. L’uomo allora si arrabbia: «In fondo lei è nella mia stanza. Lei sta follemente fregando le dita sulla mia parete. La mia stanza, la mia parete!».
La situazione è inverosimile. Tuttavia la camera è una camera, le pareti sono pareti! Sogno e realtà si toccano, dialogano come un impiegato e un bambino fantasma!
Subito dopo, il protagonista accende una candela e si siede. Ma si annoia. Esce dalla camera e incontra sul pianerottolo un vicino al quale confessa di aver visto un fantasma. Il vicino gli consiglia molto ragionevolmente di non crederci e, di conseguenza, di non averne paura. Il protagonista gli spiega che la sua paura non è legata ai fantasmi, ma all’origine delle loro apparizioni: «E questa paura resta», afferma.
Alla fine, il vicino, dopo aver insinuato che ci sono spettri femminili che si possono perfino nutrire, dichiara che è tutto uno scherzo e salito in cima alle scale si sporge con il busto all’ingiù. Il protagonista riflette e gli grida: «Nonostante ciò se lei porta lassù il mio fantasma, è finita tra di noi, per sempre». E poiché si sente solo, rientra nella sua stanza. Vorrebbe incontrare di nuovo il fantasma. Spera in segreto che quest’ultimo nel frattempo non abbia preferito la compagnia del vicino del piano di sopra.
Nel mondo di Kafka tutto è possibile perché nessuna azione o pensiero dell’uomo conosce la propria origine. L’azione o il pensiero, di conseguenza, sembra sorgere come un’apparizione: come un fantasma. Ma da dove vengono i fantasmi? Nessuno lo sa. I fantasmi sono più soli e più mortali di noi. Dubitano delle loro azioni e dei loro pensieri molto più di noi.
L’uomo e il suo fantasma: due solitudini impaurite che dialogano nell’oscurità di una stanza.
Il fantasma di Kafka non ha niente a che vedere con le storie di spettri della letteratura romantica. Kafka unisce il sogno e la realtà, lo sguardo analitico e il delirio dello sguardo analitico. Così come la paura e il comico. Cosa fondamentale: con il fantasma di Kafka si ride. Nel suo racconto la serietà e la non-serietà coesistono. Si è gettati nell’inverosimiglianza, ma la logica umana non è perduta: «Vuol proprio venire da me? – domanda il protagonista al bambino che improvvisamente è comparso nella sua stanza. Non c’è un errore? Niente di più facile in un palazzo grande come questo […] Sono proprio io colui a cui lei vuol far visita?». L’immaginazione di Kafka cancella la frontiera tra la serietà del novel e la non-serietà piena di follie del romance. Essa sancisce il ritorno del romanzo del XX secolo alle sue origini, a Cervantes: quando non c’era né novel né romance, quando non c’erano frontiere, e tutto era ancora possibile.
L’eterno desiderio di storie
Il 12 aprile 2004 sono stato costretto a consegnare nelle mani di una ragazzina di dodici anni, figlia di un’amica, un enorme volume: la trilogia del Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien (1892-1973). Era il suo compleanno. Ho detto «costretto», perché il compleanno di Tolkien, lo scrittore e studioso della letteratura inglese medievale, professore ad Oxford dal 1925 al 1945, si festeggia ormai tutti i giorni da molto tempo. La sua trilogia, pubblicata nel 1955, è stata oggetto, a partire dagli anni ottanta, di un amore vertiginoso in tutti i paesi del globo. Nel 2002 alcuni professori appartenenti a università europee e americane, grazie a un forum in Internet, l’hanno classificata come «L’opera letteraria del XX secolo». Dicevano, tra l’altro: «Ciò che conta per il lettore di Tolkien è il desiderio di plot, il desiderio della narrazione e della creazione di un universo separato dalla vita». W. H. Auden (1907-1973) aveva definito The Hobbit, il primo libro fantastico di Tolkien, come «la più bella storia per bambini degli ultimi cinquant’anni». Il libro uscì nel 1936. Che cos’è accaduto tra il 1936 e il 2002? O tra il 1955 e il 2004? La trilogia di Tolkien non è cambiata di uno iota: è rimasta quella specie di riapparizione del poema in prosa del Medio Evo in pieno XX secolo, con i suoi eroi chiamati Elrond, Galadriel, Gandalf, Frodo, i suoi oggetti magici, i suoi Draghi, i suoi Maghi, i suoi Nani, i suoi Elfi, i suoi Hobbit, la sue forze del Bene e del Male. Ciò che è cambiato è l’uomo: quello che nel 1936, e ancora fino al 1955, era riservato ai bambini, nel 2002 è diventato oggetto di studio per gli adulti. L’intreccio infinito delle avventure ha vinto sulla polifonia delle forme e dei registri, mentre la vegetazione delle narrazioni ha avviluppato l’albero del romanzo, trasformando il piacere della forma in «desiderio di plot». Il fantastico popolato da Elfi e Hobbit calamita gli adulti e li trasporta in un universo «separato dalla vita».
Questa riduzione del romanzo a pura narrazione utilizza ciò che qualcuno durante quel forum universitario aveva definito «riscrittura»: si riscrive la Storia, si riscrivono i Miti, si riscrivono la Storia e i Miti mescolando elementi storici e mitici, come nel caso di Tolkien e dei suoi imitatori, per creare un universo parallelo, ideale; questo universo è il frutto di un abbandono e di una riconciliazione: abbandono della bellezza metaforica e riconciliazione con la bellezza simbolica. Il cambiamento di regime, questo passaggio dall’estetico all’antropologico, ci ha fatto ripiombare in una dimensione premoderna e preromanzesca: quella dell’epopea. Ma l’epopea, come è noto, ha come compito di riscrivere il passato esemplare e non di esplorare il presente sconosciuto. L’epopea è il regno delle figure, dei tipi, dei destini, dei «signori degli anelli», delle grandi iniziazioni, dei riti, delle forme che si ripetono, dei cicli. Niente a che vedere con il regno dei personaggi che popolano il romanzo moderno da quasi cinque secoli, questi signori dell’imprevedibilità umana.
Siamo talmente immersi in un mondo preromanzesco, nella fuga dalla dimensione del presente, ci stiamo talmente distaccando da ciò che è umano, che rischiamo di assistere alla scomparsa di ogni frontiera tra l’infanzia e l’età adulta.
Qualche giorno fa, ho incontrato di nuovo la figlia della mia amica. Se ne stava con il padre davanti a un cinema dove giganteggiava una locandina raffigurante l’ennesimo episodio tratto dalla trilogia di Tolkien. Vedendo il padre ansioso e trapassato dall’inquietudine, gli ho chiesto, scherzando, se era arrivato fin lì in auto o incatenato alla caviglia della figlia. Mi ha guardato come si guardano a volte certi pazzi: con il sorriso di chi conosce tutta la terribile serietà dell’esistenza. Poi, quando più tardi ho saputo che la maggior parte degli spettatori dello spettacolo era composto da quarantenni, ho compreso: l’ansia di quel padre non aveva niente a che vedere con il suo spirito di protezione nei confronti della figlia, ma con il «desiderio di plot» e l’amore per il meraviglioso: si trattava dell’ennesimo episodio di epica infantilizzazione del nostro tempo.
Il fantasma di Fuentes
Il motivo dell’albero delle arance – portato dai Mori in Spagna e dalla Spagna, dopo la Conquista, in America – è presente sotto aspetti diversi (seme, fiore, pianta, albero, parola) in ciascuna delle cinque storie o parti autonome che formano l’architettura del libro di Carlos Fuentes, L’albero delle arance (El naranjo). Fuentes attraversa le due rive della Storia: l’europea e l’americana. Il lettore, in questo modo, conserva sempre una duplice prospettiva sugli avvenimenti. Al punto che il tema del doppio – come il motivo dell’albero delle arance – è disseminato su tutta la terra del romanzo. Il lettore, inoltre, è trasportato da un continente all’altro e da un momento storico all’altro: può ritrovarsi all’epoca dell’assedio romano di Numanzia (133 a. C.), fra i conquistadores spagnoli al principio del XVI secolo, o ai nostri giorni in compagnia di un apollo del cinema ad Acapulco. Anche i confini della vita e della morte sono superati con naturalezza dall’autore. Nella prima parte il protagonista, che è l’interprete di Hernán Cortés, parla dall’oltretomba; l’attore americano di B-movies, morto subito dopo aver subito «il più grande pompino della storia del sesso», è il protagonista del finale della quarta parte; nella terza parte Scipione l’Africano, da morto, instaura un dialogo filosofico con Dio.
L’immaginazione di Fuentes è la rivolta dell’individuo che, invece di camminare con alla caviglia le catene della verosimiglianza, ha voluto imporre la sua libertà contro le ripetizioni della Storia. Jerónimo de Aguilar, l’interprete di Hernán Cortés, che ci parla dall’oltretomba, non è stato creato per fornirci delle informazioni sul regno dei morti, né per incuterci paura, ma per correggere, grazie all’onniscienza che la morte gli ha donato (è qualcuno che è morto da molto tempo), la storia dei vivi, per colmare le mancanze degli storici, per rivelare la storia degli individui che non sono mai stati nominati nei libri di storia. L’immaginazione dell’arte moderna, per quanto arbitraria possa apparire, è sempre al servizio della possibilità. Mai dell’irrealtà. Dubita di ciò che c’è e cerca un’altra strada, anche se questa è tortuosa e imprevedibile come quella che conduce Scipione di fronte alle rovine di Numanzia, e lo costringe a contemplarne il suo «doppio». L’immaginazione dell’arte moderna ha a cuore la comprensione dell’individuo. E anche quella dei suoi fantasmi.