Abituati come siamo a considerarci sempre e comunque degli esseri cogitabondi, riusciremmo mai ad accettare un’ipotesi secondo cui “l’uomo non pensa”, perché il pensiero si trova staccato da noi, non dentro di noi? Molto difficilmente. Eppure, le conclusioni cui si giunge nel libro di Emanuele Coccia La trasparenza delle immagini (Bruno Mondadori, 2005), dedicato ad Averroè e all’averroismo, vogliono farci intendere che soltanto se abdichiamo al ruolo di esseri cogitabondi, padroni o proprietari del pensiero, possiamo forse sfuggire alle maglie che tutti i dispositivi di potere non cessano di tessere per imbrigliare e imbrogliare il linguaggio e la ragione. L ’averroismo insinua che addirittura la libertà del pensiero non riguarda le personae, non passa quindi attraverso i meccanismi giuridici e sociali, ma attraverso le immaginazioni individuali, che sono declinazioni di un tipo di intelletto o conoscenza che Aristotele definiva potenziale in quanto contenente “in potenza” tutto il pensabile, e che appunto per questo sta sempre separato dall’uomo, benché dell’uomo non possa fare a meno per realizzarsi. Soltanto la fantasia e le sue immagini consentono l’attualizzazione e la circolare perennità del pensiero, di ciò che deve sempre ancora esser pensato, e che altrimenti – senza immaginazione – sarebbe simile a una landa insterilita e infrequentabile.
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L’averroismo si spinge a rappresentare in maniera inconsueta la genesi della conoscenza e il suo rapporto con l’umano. La rappresenta cioè, non come una produzione autonoma e responsabile di un essere cogitabondo, ma come un qualcosa di sfuggevole che avviene in un medio, in un luogo che sta in mezzo tra l’uomo e il mondo, che dell’uomo però si serve attraverso le produzioni immaginarie della sua fantasia. Il termine rappresentare, qui, ha un significato letterale: nell’averroismo quello che viene postulato, insieme alla separazione-impassibilità-non mescolanza del pensiero di origine aristotelica, è una “storia” intesa come una vera e propria finzione teatrale, in cui i pensatori entrano in scena come semplici e nude maschere imprestate al pensiero per le sue sempre effimere attualizzazioni. L’inerenza del pensiero a qualcuno è un effetto scenico, “più essenziale all’esposizione del pensiero che alla sua genesi reale”, scrive Emanuele Coccia . “Non sono Io a pensare ciò che penso”, è il motto di Averroè. A questo punto, la definizione che Vico attribuiva ad Omero, potremmo estenderla così: ogni filosofia, ogni filosofo è un carattere poetico.
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La lingua fugge dal sapere; la scrittura fugge dal soggetto che dice “io so” e quasi diventa “perdita di tempo” per la sua “prolissità”. Quando Ernest Renan critica Averroè e l’averroismo lo fa cogliendo il senso più riposto e profondo prima che di una dottrina particolarissima, dello stesso gesto di scrittura che li caratterizzava: il commento. “Nel commento si attua, sembra, un arresto della tradibilità: un commento non può esser spiegato ma solo proseguito”, dice Coccia. “Perché se un commento non è che il luogo in cui una scrittura diventa inseparabile dalla sua stessa esposizione, esso coincide con la continua fuga della lingua dal sapere: là dove infatti una lingua non è altro che la sua propria esposizione ogni sapere diviene affatto impossibile”. L’adozione della forma del commento rende quindi impossibile il sapere, ma possibile la continuazione di un gesto: nessuna spiegazione, nessuna estrapolazione di verità, solo fuga attraverso le parole, immersi solo nella lingua. Dal Commentarium di Averroè e dai testi scolastici dell’averroismo quello che si ricava è innanzitutto questo: un modo di procedere della scrittura in senso assolutamente problematico e frammentario, dinamico, spostato verso le quaestiones poste dai testi aristotelici e dalla filosofia in generale, perché “le conoscenze si danno all’uomo soprattutto nella forma di una questione”, ragion per cui spesso la più banale delle domande è più illuminante e significativa della più precisa delle risposte. L’averroismo predilige commento e quaestiones forse perché la potenza del pensiero si può rendere soltanto attraverso un gesto di scrittura trasparente e affettivo – fuggevole e instabile come un sogno.
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La filosofia ci ha abituati a credere che il pensiero coincide con l’uomo che lo enuncia. Ma in questo modo le idee finiscono per essere ordinate come si ordinano i corpi: c’è chi viene prima e chi viene dopo, ci sono nascite e morti (di pensatori e pensiero), ci sono generatori e generati. Dietro ogni pensiero c’è un uomo, quindi ogni pensiero altro non è che coscienza. Quello che Averroè nega è appunto una tale coincidenza, sostenendo l’esistenza di una “frattura fra pensiero e soggetto, fra un logos… e una zoè”, perché “noi nasciamo insipienti e infanti”, eppure nasciamo perfetti nella nostra umanità. Pertanto il pensiero e il linguaggio non sono una cosa che appartiene all’uomo, ma qualcosa che abita al di fuori e al di là di esso, alla quale l’uomo riesce a congiungersi quando gli capita di immaginare. Gli uomini muoiono, il pensiero è eterno, perché eterna è la capacità – di pensare, di fantasticare, etc. Una tradizione, spiega Coccia, non nasce perché ci sono stati grandi pensatori, ma proprio perché il pensiero “resiste alla morte del suo soggetto”. L’idea stessa di tradizione è forse la più chiara e per certi versi paradossale conferma della caducità della fissazione secondo cui il pensiero è un fatto di coscienza. “Insegnare – e scrivere, perché ogni scrittura coincide con questo movimento [di trasformare l’attualità in possibilità, ndr] – significa morire ai propri pensieri… e morire significa sempre restituire ai propri saperi il carattere di tradibilità e costituirli in questo modo come possibilità di essere pensati indifferentemente da ogni soggetto pensante e conoscente”. Ecco perché l’idea stessa di tradizione è un’idea paradossale, o addirittura impossibile.
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La stessa nozione di coscienza sulla quale si basano la filosofia e tutto il sistema della cultura, è una nozione strettamente connessa con il pensiero: “coscienza è il pensiero, è un pensiero in quanto è pensato da qualcuno”. Hic homo intelligit, dirà Tommaso d’Aquino. Nell’evidenza della coscienza uomo e pensiero sono un tutt’uno indiscutibile. Ma quando giace in silenzio, quando è stupido, quando è infante, che tipo di uomo è, l’uomo di cui parla la filosofia? “Se la ragione e il linguaggio costituissero davvero la sostanza dell’uomo, questi non conoscerebbe la fatica del pensare”, scrive Coccia. La filosofia averroista fa o propone come un salto all’indietro – una regressione? – rispetto al punto di partenza della filosofia della coscienza. Per capire la genesi del pensiero, secondo gli averroisti non bisogna partire dalla Storia bell’e fatta degli uomini che pensano, ma dall’uomo che non pensa, che non scrive, che non sa nulla o non può pensare o non è ancora arrivato a pensare. “La follia, l’infanzia, il sonno, l’afasia, l’ignoranza:… cosa diviene la filosofia se ciò è vero, se la sua verità prima è che homo non cogitat?”. L’infante, ad esempio, è colui che può parlare e pensare e dire tutto, ed è già uomo perché è dotato di questa potenza. “È solo dinanzi a un infante che il paradosso del conoscibile e della sua relazione con la vita umana può essere adeguatamente formulato. Solo considerata a partire da una vita che è già ed è già irreversibilmente umana senza però per questo partecipare né di conoscenza attuale né di parola, il linguaggio e il pensiero potranno rivelarsi infatti nella loro natura più pura”.
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L’averroismo usa la definizione di intelletto materiale (“un intelletto analogo alla materia”, dice Aristotele in De anima, III, 5) per intendere l’essere puro e distaccato della pensabilità, la materia del pensiero di cui sono fatti tutti i pensieri; e quella di intelletto teorico (intellectus speculativus) per intendere le attualizzazioni dei pensieri nei singoli uomini. Quando potenza e atto instaurano una particolare relazione, l’uomo diventa razionale. Questa particolare relazione non avviene all’interno di una coscienza, come presa di possesso di qualcosa che sopraggiunge nella forma di un previsto inculcamento, ma nel medio di un inconscio, laddove cioè l’uomo immagina, fantastica. L’uomo pensante, in effetti, è un animale razionale non perché ha delle idee o una coscienza, ma perché corrisponde a uno “stato di composizione o di aggregazione dell’intelligibilità con i fantasmi individuali”, di esterno e interno. In questo stato, o relazione, si definisce l’umanità.
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L’averroismo spiega l’intelletto materiale anche come un luogo, perché il “luogo” è l’unico ente che esprime nello stesso tempo una passività assoluta, e quindi un’apertura per accogliere tutte le forme, e l’impassibilità rispetto a ciò che riceve. L’intelletto materiale si può paragonare perciò a uno specchio, se vogliamo adottare un’immagine cara ai filosofi medievali. Nello specchio, infatti, le cose insistono, ma senza mai alterare o trasformare la natura dello specchio. La ricettività dell’intelletto, allo stesso modo, è definibile nei termini di una analoga “purezza” perché, a differenza della ricettività dei sensi, non si altera o trasforma a causa delle forme che riceve. E come lo specchio non può riflettere se stesso, così l’intelletto non può conoscersi senza che nel processo della conoscenza arrivi dall’esterno qualcosa a metterlo in atto. Se la trasparenza è “il luogo elementare in cui ogni forma cessa di insistere nell’oggetto per farsi visibilità infinitamente partecipabile”, così l’intelletto materiale è anch’esso il luogo in cui “ogni forma cessa di dirsi di alcunché per essere semplicemente uno degli enti del mondo”. Tutta la potenza del pensiero è in questo luogo diafano e impersonale in cui soggetto e oggetto sono stati superati dal processo della conoscenza che ha dato luogo ad altre forme in altro luogo da quello naturale, cioè nel medio del pensiero.
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In che modo esistono le forme nello specchio del pensiero? “Per i latini”, scrive Henri Bate, “le forme spirituali non sono delle forme reali ma solo delle intenzioni delle forme reali”. Coccia commenta: “un’intenzione, quindi, non è che il modo in cui una forma esiste fuori di sé e della propria materia, extra locum suum”. La conoscenza delle cose avviene in un medio che è come lo specchio che riceve le immagini. La conoscibilità di una cosa, dunque, è la “sua forma in stato di sottrazione”, è indifferente ai cambiamenti della cosa stessa, insiste perennemente nel luogo del suo apparire: “l’immagine di qualcosa resiste ai cambiamenti della cosa di cui è conoscibilità”. Si corrompono e mutano i rapporti delle conoscibilità con gli individui mortali, non le conoscibilità stesse. “Conoscere qualcosa significa separarne (abstrahere), distillarne la conoscibilità”. Per i filosofi medievali, è capace di conoscenza soltanto chi, come un chirurgo , è capace di separare e dividere: si tratta di “portare una forma in un modo d’essere distinto da quello che ne designa la realtà, e di attuarla secondo una modalità differente”. Una volta separate dalla loro esistenza, le cose possono essere accolte in un medio. Il problema che ora si pone è che una forma “non si porta nel medio da sé… è necessario postulare una forza capace di porre la forma nel medio”. Quale sarà questa forza?
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L’ignorante, l’infante in realtà già pensa: non pensa questa o quella cosa, ma contempla in qualche modo la possibilità di pensare. Come avviene, però, il passaggio dalla contemplazione dell’intelletto materiale, dalla possibilità di pensare, al pensiero di qualcosa di particolare, all’atto di pensiero? “La risposta che l’averroismo fornisce a questo enigma, non del tutto implicita nella noetica aristotelica, rappresenta forse il suo più importante lascito speculativo. È l’immagine, spiegherà Averroè, l’operatore di individualizzazione dell’intelletto e il luogo in cui la trasparenza assoluta del pensiero diviene conoscibilità di qualcosa”. L’intelletto materiale “è costretto a raccogliere fuori di sé la propria forma”, quindi la “ragione ha bisogno dell’esistenza delle immagini per potersi realizzare, per passare cioè dallo stato di semplice possibilità a quello di conoscenza o pensiero in atto; e dunque è solo fuori di sé che riuscirà a costituire un’unità con la vita e a divenire forma”. Sulla tavoletta di cera o nello specchio dell’intelletto materiale, l’immaginazione incide o deposita le sue forme. E le fantasie individuali non sono “causa” dell’intellezione, ma veri e propri luoghi in cui l’intelletto trova la sua perfezione – come i sensi trovano la loro perfezione negli oggetti percepiti. “Si dà intellezione solo nell’istante in cui la potenza dell’intelletto entra in composizione con i fantasmi umani”, altrimenti nel pensiero non c’è nulla. Senza immagini – “sensibilia non materialia”, secondo una bella definizione di Averroè – il pensiero è come uno specchio rivolto al muro, tristemente condannato a non manifestare la sua potenza.
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Coccia dice che quella dell’averroismo è “una rivoluzione poetica prima che noetica”. L’immaginazione è infatti “l’estrema scoria” (Agamben) attraverso cui ci congediamo dalla sterilità della potenza assoluta del pensiero, facendo ingresso nell’umano. Ogni uomo ha la sua abitudine o attitudine a congiungersi con l’intelletto materiale, ogni uomo ha i suoi propri fantasmi, che gli consentono di stringersi in una relazione di intimità con il tutto. È grazie alle immagini, che le cose diventano forme conoscibili. Le panie in cui finiscono immancabilmente per catapultarci tutte le speculazioni realistiche o psicologiche sono legate essenzialmente a un oblio, oltre che della differenza tra esperienza e conoscenza, del legame che è necessario stabilire e mantenere tra potenza e atto, tra intelletto materiale e intelletto teorico – perché non si può teorizzare, speculare senza una spinta immaginativa, questo è il punto. I poeti, ossia coloro che educano il loro pensiero direttamente nelle immagini, affidandosi alla loro trasparente sfuggenza (e qui bisognerebbe ricordare l’etimologia di “fantasia” suggerita da Aristotele, da “faos”, luce), conoscono bene questo meccanismo. Nelle illuminazioni, intuizioni delle fantasie individuali, la potenza dell’intelletto materiale, sebbene attualizzata, conserva sempre qualcosa che la rende di nuovo inafferrabile, invisibile, come l’Angelica ariostesca di cui parla Gianni Celati : “Angelica incarna l’instabilità delle immagini, che trovano la loro potenza nel sottrarsi a ogni fissità, nell’essere sempre erratiche e inafferrabili. La potenza delle immagini è l’instabilità, la mutevolezza che ci rimanda sempre ad altro, la sfuggenza mercuriale di Angelica”. Al contrario, l’attualità assoluta (sciolta, distaccata) in cui viviamo oggi, il tempo reale che assilla l’uomo mediatico, ad altro non sembra alludere che a un oblio della potenza, ovvero a una profonda incapacità di colmare con illuminazioni fantastiche, con la visione dell’invisibile, con “sensibilia non materialia”, la distanza che ci separa e ci separerà sempre dall’eternità.
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Quando Tommaso dirà che hic homo intelligit, intenderà qualcosa di completamente diverso dall’homo non cogitat dell’averroismo. La soggettività, secondo il suo modo di vedere, non è solamente logica, limitata al discorso, e quindi fantastica o fantasmatica, retorica, ma ontologica, fondativa di qualsiasi atto di pensiero. “Questo uomo” è sufficiente a testimoniare che siamo già in presenza di un atto di pensiero, a prescindere da qualsiasi immagine, da qualsiasi fantasma, da qualsiasi relazione o congiunzione o composizione con l’intelletto materiale, con l’universo infinito del pensabile. Ma “il mito dell’interiorità non è in fondo che una conseguenza delle nozze illecite tra umanità e razionalità che la teologia non ha mai smesso di celebrare”, dice Coccia. La separazione postulata dall’averroismo viene incontro all’esigenza di chiarire che “io penso” è una proposizione indicibile da parte di un soggetto che non sia congiunto, attraverso le immagini, al pensiero potenziale. Un soggetto separato dal pensiero – nel sonno, nella follia, nell’oblio – è un soggetto che non pensa; il “soggetto pensante ci è unito non come forma del nostro corpo ma come semplice motore”, come una nave che si muove non per se stessa ma perché è congiunta a un navigatore – senza il quale resterebbe nel suo porto senza fluttuare.
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Se la sfera propria al medio della vista è il mondo del visibile, e quella propria all’udito è il mondo dei suoni, la sfera di sensibilità inerente alla ragione o intelletto sarà la sfera delle immaginazioni o fantasia. “L’intelletto non è che quanto nell’universo degli esseri risulta sensibile alle immaginazioni umane, quanto nel mondo è capace cioè di essere affetto da esse”. Coccia parla a questo proposito di sensibilità immaginale. “Essere razionale significa ora solo essere sensibile rispetto alle immaginazioni dell’umanità intera”. Come si è sensibili al visibile o al gustabile o all’udibile, così si è sensibili – anche se non immediatamente – alle immagini fantastiche. “Senza l’immaginazione la ragione umana non sarebbe che una potenza inattuata e incapace di impiego”. Noi conosciamo una cosa nel momento in cui riusciamo a immaginarla, perciò “fare filosofia significa dare fantasmi all’intelletto, restituire cioè alla ragione il suo mondo perduto”. Questo perché, se è vero che “le immagini sono per l’intelletto ciò che il sensibile è per si sensi” (Averroè), allora la ragione non è delle cose del mondo che deve fare esperienza per raggiungere la sua perfezione, ma delle cose del pensiero, e cioè di immagini, di immaginazioni, di fantasie. “Ciò che le cose sono per l’esperienza, le immagini lo sono per la speculazione”; ragion per cui il filosofo non è colui che ha la massima esperienza delle cose del mondo (la cosiddetta saggezza), ma colui che è massimamente agile e coraggioso nella produzione di immagini. Cogitare vuol dire produrre dei fantasmi.
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Alla base di ogni comunità c’è un’idea del pensiero, e viceversa alla fine di ogni pensiero viene immaginata e praticata una comunità. Da questo punto di vista, “ciò che la dottrina dell’unità dell’intelletto sembra ostacolare”, scrive Coccia, “è in verità un’esigenza di natura eminentemente politica”. La formula di Tommaso – hic homo intelligit – detta il ritmo di questa esigenza. Secondo Tommaso, sostenere l’unità dell’intelletto e separarlo dall’uomo significa sottrarre a quest’ultimo ciò che più intimamente gli appartiene (“quod est in nobis”), espropriandolo dei suoi atti. Non essendo più padrone dei suoi atti, spiega Tommaso, diventa impossibile per l’uomo qualsiasi vita politica (conversatio civilis), che si fonda sempre sulla morale e sulla legge. Se la noetica di Tommaso porta a una responsabilizzazione del soggetto e alla sua individuazione come punto di partenza dell’atto di pensiero e della comunità, “concepire altrimenti la natura del pensiero significherà allora concepire altrimenti la conversatio civilis, il modo in cui la moltitudine dei pensanti si costituisce e si rapporta a sé e alla propria possibilità”. È quello che farà l’averroismo, spiega Coccia, cominciando a mettere in dubbio il rapporto servile della filosofia rispetto alla legge, sostenendo anzi la “originaria anomia del pensiero”. Ibn Bagga immaginerà “la perfezione della vita politica in termini di completa opposizione a quelli propri di un regime giuridico”. Secondo Bagga il regime politico compiuto perfetto è quello in cui è sospeso qualsiasi ordine giuridico, così come la sanità di un corpo coincide perfettamente con la sospensione di ogni pratica medica. La città perfetta non è quella in cui tutti rispettano le regole, ma quella in cui non c’è bisogno di regole. “E quanto più una città si allontana dalla perfezione tanto più si avrà bisogno in essa di medici e giudici”. Al pensiero non compete alcun obbligo morale o giuridico: “il fatto stesso di pensare testimonia della possibilità di una comunità anteriore all’esistenza e indifferente alla sopravvivenza di ogni polis (dell’ordine della convivenza definito da una legge), una comunità non più definita da un nomos ma da una potenza generica e non attribuibile ad alcunché”. Quando Aristotele paragonava la vita nel pensiero alla vita dello straniero, voleva intendere forse proprio che la filosofia è irriducibile a qualsiasi nomos – esattamente come la vita dello straniero risulta inadeguabile alla legge della polis.
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Ciò che interessa Tommaso fin dal principio, dice Coccia, è l’individuazione di un responsabile delle azioni umane, e questo responsabile è il pensiero che “è in noi”, cioè che è in “nostro dominio”. E se il pensiero è in nostro dominio, ecco che sorge la necessità della legge, la necessità di uno stato giuridico (o di un apparato dottrinale, fideistico) che castiga e punisce precisamente le azioni concepite “dentro di noi”. Hic homo intelligit significa forse, prima di tutto, che questo uomo è colpevole. Limitare infatti la vita dell’uomo a questo tempo e a questo luogo significa semplicemente sottrarla alla sua potenza, che viene prima della norma e ha sede in altri luoghi o territori, dove ancora tutto è sempre possibile. Il “quod est in nobis” di Tommaso, che nella cultura latina diventerà libero arbitrio, raggiunge il suo culmine allorché diviene fondamento della praxis, ossia di quella “sfera di eventi che ha l’uomo per causa”. La prassi è il modo specificamente umano in cui le cose accadono, e questo modo è fondato sulla sovranità dei propri atti. Inoltre, in quanto “sapiente”, il soggetto sarà anche depositario di un “potere rivolto a se stesso: esso descriverà la costituzione della potenza stessa come un sé, come qualcosa cioè che differenzia da sé qualcosa a cui tuttavia si riferisce, come recita un celebre adagio hegeliano”. In questo modo è il potere stesso a divenire oggetto della potenza, e l’uomo si avvicina definitivamente al Dio creatore, perché crea da sé, attua da sé, dentro di sé, ex nihilo, la sua potenza. Probabilmente è in questo momento che “dio viene assorbito nel destino dell’uomo”, come scriverà Benjamin nel frammento intitolato La religione del capitalismo. “La novità politica del cristianesimo fu quella di aver fatto dello stesso pensare il medio di costituzione del piano di assoggettamento e di dominazione”, spiega Coccia. Secondo una tale dottrina della sovranità, l’uomo, prima di agire, discrimina tra immaginazioni buone e cattive, non cede né si abbandona a ciò che appare, perché “poter pensare significa poter distrarsi da quanto si immagina” (Alessandro di Afrodisia). È l’annuncio del razionalismo moderno, in cui il pensiero sovrasta e domina l’immaginazione e il senso comune. Nella prassi così come viene intesa nella filosofia scolastica avviene un rovesciamento, che consiste nel portare il pensiero contro l’immaginazione. Il soggetto è pensante e sapiente prima di qualsiasi apparenza di immagini, prima di qualsiasi attualizzazione fantastica, perché sapere significa semplicemente fare esperienza del pensare. Se un’ape prima di produrre la cera deve immaginarla, se un ragno prima di tessere la tela deve immaginarla, un uomo prima di fare o inventare qualcosa può anche non immaginarsi niente e quasi non avere più a che fare con il mondo: gli basta pensare al mondo, a prescindere da qualsiasi fantasia, anzi dominando su qualsiasi fantasia. Come questo possa avvenire è un bel mistero, ma rende chiara la proposizione secondo la quale “il pensiero è quanto permette di disinibire il potere delle immagini”.
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“Al concetto di persona, caro alla morale,” afferma Coccia, “l’averroismo insegnò a opporre l’idea di una sintesi mobile tra una potenza immaginativa e la potenza – priva di forma e unica nell’universo – di tutte le cose e di tutti i concetti (intellectus materialis)”. L’uomo può dirsi razionale soltanto quando immagina, e soltanto quando immagina è possibile la coincidenza di esperienza e conoscenza. Non si nasce personae, ma lo si diventa “nel grado in cui si è capaci di immaginare e nel solo medio dell’atto di immaginazione”. La comunità postulata dall’averroismo non ha alcun fondamento legale o morale, ma solo immaginativo. Gli uomini possono stare insieme ancor prima della legge e della morale, soltanto perché studiosi, infanti, interpreti di una tradizione. Inoltre, se non si dà sovranità sul pensiero proprio o altrui, vuol dire che non si danno politica, antropologia e morale “perfettamente umane” al di fuori della fantasia. Se homo non cogitat, vuol dire che sempre altrove è l’umanità e ancora tutti da trovare sono i pensieri giusti. “L’unità dell’intelletto e del corpo umano non è un’unità di ordine ontologico… ma solamente lo spazio effimero di un’operazione o di un avvenimento…”; per cui “l’uomo non è più, a parlar propriamente, un ente unitario: esso è meno uno di quanto lo siano gli altri enti naturali”.
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